I sogni dei profughi si fermano a Lesbo
Per la Grecia, ha detto il primo ministro Kyriakos Mitsotakis, quella del 2021 è l’estate più calda degli ultimi trent’anni e gli incendi – che stanno bruciando i boschi intorno ad Atene e hanno costretto migliaia di abitanti e turisti a fuggire dall’isola di Evia – sono “un disastro naturale di dimensioni senza precedenti”.
Anche a Lesbo, a pochi chilometri dalle coste turche, fa molto caldo: il vento che fino a pochi giorni prima soffiava forte sull’isola e spazzava via le temperature roventi del giorno si è placato, lasciando le pietre infuocate fino a sera. Anche per i 4.200 profughi ospitati nel nuovo campo di Mavrovouni (Monte nero) la calura è insopportabile. La struttura è stata aperta nel settembre 2020, dopo l’incendio del grande campo di Moria. I profughi che non sono stati trasferiti sulla terraferma sono stati spostati in questo terreno di 34 ettari che si affaccia sul mare e a loro, nell’aprile 2021, le autorità hanno aggiunto i profughi che erano ospitati nel campo di Kara Tepe, che molti giudicavano un’esperienza positiva. Ma la struttura è destinata a crescere ancora.
La Grecia ha da poco ricevuto dall’Unione europea 272 milioni di euro per costruire nuovi Centri di accoglienza e identificazione e le attività fervono, all’interno e all’esterno: dopo quello di Mavrovouni sempre su Lesbo ne sarà aperto un altro, ma in una zona più interna, e altri sorgeranno sulle isole di Lero, Samo, Chio, Coo. Sono delle “strutture chiuse e controllate” che secondo il ministro dell’immigrazione greco Panagiotis Mitarachi dovranno mano a mano prendere il posto dei vecchi campi e garantire migliori condizioni di vita ai profughi, anche se le uscite contingentate causano molti malumori. Anche la commissaria europea per i diritti umani, Dunja Mijatović, all’inizio di inizio maggio ha espresso qualche perplessità, chiedendo al governo di Atene di rivedere la natura reclusiva delle nuove strutture: “Sono preoccupata che possano portare a una privazione della libertà su larga scala e a lungo termine, che avrebbe effetti dannosi sulla salute mentale dei profughi, soprattutto dei bambini”, ha scritto Mijatović.
In attesa
I centri nascono come strutture temporanee in attesa che la domanda di asilo presentata all’arrivo dai migranti segua il suo corso: per questo, ad esempio, ai minori (il 23 per cento della popolazione dei campi di tutte le isole dell’Egeo Settentrionale, la maggior parte con meno di dodici anni) non viene garantito il diritto di frequentare la scuola pubblica. Ma spesso la pratica dura mesi, se non anni, e per molti il tempo dell’incertezza diventa tempo di disperazione. Anche perché la maggior parte delle domande viene respinta e, in caso di una risposta negativa anche in appello, si finisce nella lista delle persone da riportare in Turchia.
Dall’inizio del 2021 sono 1.498 le persone sbarcate sulle isole dell’Egeo Settentrionale, di cui 1.112 a Lesbo: un calo drastico, visto che nei due anni precedenti ne erano arrivate più di cinquantamila. Oggi il 45 per cento dei profughi arriva dall’Afghanistan, il 23 per cento dalla Somalia, il 10 dalla Repubblica Democratica del Congo. Ed è proprio dall’Afghanistan, dove l’offensiva dei taliban ha riacceso il conflitto e le paure degli abitanti, che si attendono nuovi arrivi. Almeno otto province sono ormai fuori dal controllo delle autorità di Kabul e sono soprattutto gli afgani di etnia hazara, sciita, a prendere la via dell’esilio: l’Iran, poi la Turchia e infine un imbarco verso le isole dell’Egeo, primo approdo europeo.
Secondo l’accordo stretto nel 2016 tra Unione europea e Turchia, Bruxelles ha versato ad Ankara sei miliardi di euro per “gestire” il flusso dei profughi, cosa che il governo turco ha fatto a fasi alterne, a seconda della temperatura delle relazioni internazionali. Oggi il confine marittimo è chiuso, controllato dalle guardacoste turche e greche, supportate dalle navi di Frontex, l’agenzia europea che pattuglia lo stretto tratto di mare che divide i due paesi. All’alba e al tramonto le loro sagome si stagliano sul panorama dell’Egeo.
Corridoi
Poco fuori da Mitilene, il capoluogo di Lesbo, ai lati del lungomare, si scorgono le punte di alcuni tendoni rossi: alcuni li chiamano “il circo”. Ogni mattina una cinquantina di bambini giocano, disegnano e pranzano prima di tornare alla loro casa, nel campo. Poco lontano altrettanti ragazzi e adulti seguono attenti una lezione d’inglese. Sono alcune delle attività che per la terza estate consecutiva la Comunità di Sant’Egidio propone ai richiedenti asilo di Lesbo. Sant’Egidio ha già trasferito da Lesbo 101 profughi, facendogli completare la richiesta d’asilo in Italia o altri paesi europei dove esponenti della società civile si sono impegnati a garantire percorsi di accoglienza e integrazione, senza spese per i governi. È la pratica dei corridoi umanitari, la proposta concreta di un viaggio sicuro per i profughi, attiva anche dal Libano e dall’Etiopia.
Il pomeriggio il tendone rosso si trasforma in un centro di distribuzione di generi alimentari o di un pasto, un luogo in cui mangiare in famiglia intorno a un tavolo, fatto poco consueto per chi è profugo, e spesso profugo è nato. Nell’attesa del proprio turno qualche adulto gioca a backgammon, i bambini in un improvvisato parco giochi con scivolo e piscinetta. Arrivano singoli e famiglie, afgani e congolesi, somali e pachistani. Alcuni non sanno neanche una parola d’inglese: le uniche che imparano e ripetono sono quelle che indicano la loro tenda o container nel campo. Non sanno dire il loro nome, ma sanno dire il numero con cui sono registrati.
Fotogrammi
Sul lungomare, sotto il sole, avanza una giovane coppia di africani: lui ha i capelli rasta e le braccia muscolose, stringe un asciugamano bianco, lei lo segue con un’espressione affaticata. Vogliono raggiungere la fermata e prendere l’autobus per tornare verso il campo, ma nessuno dei due riesce a correre. L’autista, una donna, li aspetta. Lei è Annie, lui Joseph e in braccio porta suo figlio di sette giorni, che si chiamerà Wisdom.
Sayed ha 17 anni e una bicicletta con cui spesso pedala per sei chilometri fino a Mitilene. Per le autorità greche invece ha più di 18 anni: per questo la sua domanda di asilo è stata respinta e lui è ancora qui mentre i suoi genitori e i suoi sette fratelli più piccoli sono riusciti a ottenere il permesso di lasciare l’isola. Spera di raggiungerli presto.
Davanti all’ingresso ormai bruciato di Moria c’è un uomo, probabilmente bangladese: insieme alla sua tenda ha perso anche la testa e ha deciso di restare lì, non sa che altro fare: ha costruito una baracchetta accanto alle vecchie mura su cui ancora si legge la scritta: “I’m so sorry refugees, this is not Europe”. Saluta tutti quelli che passano. Una donna greca che abita lì vicino gli porta da mangiare una volta al giorno.
Nel campo di Mavrovouni c’è Ali: è siriano, viene dai dintorni di Damasco, ha otto anni e nelle orecchie ancora il suono delle bombe. Spesso la notte esce sonnambulo dalla tenda, la madre deve ricondurlo dolcemente dentro.
Una donna, anche lei siriana, sta seduta lì vicino. È vestita di nero, ha 95 anni e una collana di perle.
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