La lotta dei discendenti degli schiavi in Brasile
La cerimonia è raccolta ma solenne. Strette nella sede della comunità quilombola di Engenho da Cruz, una casupola di mattoni dai muri verniciati di fresco, una cinquantina di persone aspettano in silenzio. Il coordinatore Luiz Ferrera Bispo prende la parola: “Oggi è un grande giorno, il giorno che aspettavamo da più di dieci anni”. Visibilmente emozionato, sorridente sotto un panama che gli assottiglia il volto, l’uomo stringe tra le mani un librone. “Questo è lo strumento che ci permetterà di ottenere quanto ci spetta di diritto, è il primo passo di una strada che dobbiamo continuare a percorrere insieme”, dice soddisfatto. Il libro passa di mano in mano, tra gli sguardi curiosi e compiaciuti dei partecipanti. Poi nella sala scatta l’applauso.
Il libro s’intitola Rapporto antropologico di contestualizzazione storica e geografica della comunità e lo ha scritto negli ultimi dieci mesi una squadra di antropologi, storici e geografi per ricostruire l’origine e lo sviluppo di questa comunità antica e in attesa di riconoscimento. Una sorta di carta d’identità, tappa fondamentale per vedere certificati la propria esistenza e soprattutto l’accesso alla terra che il gruppo rivendica.
Siamo nel Recôncavo baiano, nel nordest del Brasile, una regione fertilissima bagnata dal fiume Paraguaçu, che sfocia in quella baia de Todos-os-Santos su cui si allunga frenetica e caotica la capitale Salvador. È da qui che dal diciassettesimo secolo partivano verso l’Europa prodotti pregiati come lo zucchero, il caffè e il tabacco. Ed è qui che arrivavano le navi negriere dalle coste dell’Africa occidentale, cariche di manodopera da sfruttare fino allo sfinimento.
Le comunità reclamano le terre dove hanno lavorato e vissuto per secoli i loro antenati
L’incontro nella sede dell’associazione è legato a quella storia remota. Engenho da Cruz è una delle migliaia di comunità quilombola, formate dai discendenti di persone schiavizzate fuggite dalle piantagioni o più semplicemente nate quando, nel 1888, la principessa imperiale Dona Isabel fece approvare la lei áurea e abolì la schiavitù in Brasile, ultimo paese del continente americano a prendere questa iniziativa.
Oggi queste comunità rivendicano un riconoscimento collettivo e reclamano le terre dove hanno lavorato e vissuto per secoli i loro antenati. Un processo lungo e farraginoso, di cui la stesura del “rapporto di contestualizzazione” consegnata agli abitanti di Engenho da Cruz è solo un passo intermedio, ma che rappresenta idealmente l’estinzione di un debito secolare e un gigantesco movimento di riparazione che in linea teorica potrebbe cambiare le relazioni sociali del gigante sudamericano.
Una ricerca complicata
Scrivere il rapporto non è stato facile. Il libro ripercorre la storia dell’insediamento; quando è nato, da dove venivano i primi abitanti, come si sostenevano. Ricostruisce in particolare gli alberi genealogici delle famiglie che lo compongono, i lavori che svolgevano (braccianti a giornata per i proprietari terrieri dopo l’abolizione della schiavitù, poi operai in una vicina fabbrica di olio di palma costruita nella metà del secolo scorso).
Per mettere insieme queste informazioni, è stato necessario ricomporre un puzzle per molti versi incompleto, scavando in ricordi tramandati solo oralmente e andando a cercare i resti dei templi della comunità tra le rovine di edifici diroccati e sommersi dalla vegetazione.
Un lavoro condotto sul campo, casa per casa, che ha coinvolto attivamente l’intera comunità, permettendole a sua volta di riesumare radici antiche e in larga parte dimenticate. “C’è stata una grande partecipazione, molte persone del villaggio si sono messe in gioco, scoprendo cose che non sapevano della loro stessa storia”, dice Mariana Balen Fernandes, l’antropologa che ha guidato la squadra di ricerca.
Gli sguardi commossi in sala sembrano confermare le sue parole. “Questa relazione è la testimonianza scritta del fatto che oggi esistiamo, ed è importante sia per lo stato brasiliano sia per noi, per la nostra coscienza collettiva”, aggiunge Luiz Ferrera Bispo. “Un risultato incredibile di cui dobbiamo andare fieri, dopo tutti questi secoli di oppressione”.
La resistenza dei quilombo
Nei quasi 250 anni in cui è andata avanti, la tratta ha visto il trasferimento forzato di circa tre milioni di africani in Brasile, più di quanto sia accaduto in qualsiasi altro paese delle Americhe. Gli schiavi hanno finito per costituire la nervatura del sistema di lavoro della colonia e, in termini demografici, circa la metà della popolazione. Le cifre sono monumentali: per ogni schiavo sbarcato in Nordamerica, dodici sono stati portati in Brasile, destinati a lavorare nelle miniere o nelle piantagioni.
Le condizioni erano durissime, i tassi di mortalità incredibilmente alti. Non c’è da stupirsi quindi se i più intraprendenti fuggivano da quella vita di privazioni e si rifugiavano in comunità remote e autogestite. Si trattava di luoghi inaccessibili ai colonizzatori bianchi, dove i fuggitivi vivevano di sussistenza, replicando usanze e riti ereditati dal passato africano.
La stessa parola quilombo, con cui queste comunità si definiscono, deriva dal termine che in kimbundu, la lingua bantu parlata in Angola, significa “insediamento”. I culti religiosi seguiti – il candomblé, l’umbanda – sono forme sincretiche che incrociano e mescolano il cattolicesimo imposto dai padroni bianchi a rituali originari dell’Africa occidentale.
Fino all’abolizione della schiavitù, le persone che erano scappate furono costrette a nascondersi, a vivere ai margini della società coloniale per schivare la furia dei loro ex padroni. Non mancano in questa storia di violenza e repressione esempi leggendari di resistenza. Uno è quello di Palmares, nell’attuale stato di Alagoas, che ha sventato per circa un secolo gli attacchi dei portoghesi, arrivando al suo apice a riunire 15mila abitanti, con una vera e propria organizzazione sociale e militare.
Ma la maggior parte dei gruppi ha vissuto nell’anonimato, in una condizione di instabilità permanente. Erano comunità fuorilegge, reiette, attaccate e distrutte in continuazione. Chi era scappato era punito in maniera severissima ogni volta che era catturato.
Riconoscimenti e scontri
Una storia di sofferenze rimasta a lungo dimenticata. Ci vorranno altri cento anni dopo l’abolizione della schiavitù perché i diritti di queste minoranze siano ufficialmente riconosciuti. La costituzione brasiliana del 1988 stabilisce che le comunità quilombola, come quelle indigene, hanno diritto a ottenere le loro “terre ancestrali”. Ma la definizione è vaga, l’identità quilombola rimane difficile da determinare. Finché, nel 2003, il presidente Luiz Inácio Lula da Silva ha stabilito con un decreto che si può definire quilombo ogni gruppo che si riconosca come tale e abbia “una discendenza africana connessa a una storia di resistenza o di oppressione”.
Il decreto di Lula ha l’effetto di una slavina: oggi sono migliaia le comunità che puntano a essere certificate dallo stato e a rivendicare delle terre. Dai 29 quilombo riconosciuti prima del 2003, anno di pubblicazione del decreto di Lula, si è passati ai 2.847 di oggi, secondo le stime della Coordenação nacional de articulação das comunidades negras rurais quilombolas (Conaq). A questi va aggiunto un numero altrettanto alto costituito da quelli che ancora non hanno presentato domanda formale di riconoscimento ma sono intenzionati a farlo. Le comunità sono diffuse in tutto il Brasile, con una forte concentrazione proprio negli stati del nordest, in particolare a Bahia.
“All’inizio il governo considerava la questione marginale, quasi archeologica. Non aveva calcolato le reali dimensioni del fenomeno e le sue ripercussioni”, dice l’antropologa Mariana Balen Fernandes.
La posta in gioco di questo movimento è tutt’altro che trascurabile: una volta ottenuto il riconoscimento, ogni comunità può rivendicare qualche migliaio di ettari di terra. Non ci sono stime precise, perché gran parte dei riconoscimenti è ancora in corso, ma le richieste potrebbero riguardare milioni di ettari di terra, oggi spesso sfruttati da grandi latifondisti o fazendeiros, quasi mai disposti a cederli.
In un paese dove l’1 per cento della popolazione possiede il sessanta per cento della terra, il movimento dei quilombo è un vero e proprio terremoto, in grado di mutare almeno in parte la disuguaglianza cristallizzata dai tempi della colonia.
Così oggi la questione quilombola finisce per diventare terreno di scontro politico e sociale in un Brasile più che mai polarizzato tra i sostenitori dell’agroindustria – riuniti nella cosiddetta bancada ruralista (lobby ruralista) e ben rappresentati in parlamento – e i difensori dei diritti delle minoranze, che nei precedenti governi del Partito dei lavoratori (Pt, sinistra) trovavano senz’altro un orecchio più attento.
La schiavitù è stata abolita, ma i nostri antenati sono stati lasciati senza nulla
“Quando si è visto che le comunità quilombola si moltiplicavano a dismisura, si è scatenato un putiferio. È anche per questo che il governo ha messo un freno a un processo già di per sé lungo e complesso”, aggiunge Balen Fernandes. Perché, se è relativamente facile farsi certificare come quilombo, molto meno evidente è ottenere i titoli delle terre rivendicate. Al di là dei toni entusiastici del coordinatore Luiz Ferrera Bispo, il cammino che la comunità Engenho da Cruz ha davanti a sé è ancora lungo e pieno di ostacoli.
Il rapporto consegnato alla comunità è solo una parte di un corposo dossier che sarà presentato all’Instituto nacional de colonização e reforma agrária (Incra), l’ente federale che si occupa della concessione delle terre. Ricevuto il dossier e fatte le opportune verifiche e modifiche, l’Incra dovrà stabilire i confini delle terre che il quilombo rivendica. Se sono occupate da altri, come succede spesso, comincerà un faticoso procedimento per risolvere la controversia, che potrà concludersi con una nuova delimitazione o con l’esproprio e il versamento di un indennizzo da parte dell’amministrazione pubblica.
Il processo può durare anche decenni, tanto che a oggi sono stati emessi certificati di proprietà per appena 206 territori, meno del 7 per cento di quelli rivendicati dalle comunità riconosciute e certificate.
Già durante il mandato di Lula e poi durante quello di Dilma Rousseff la concessione dei certificati avveniva con il contagocce. Ma dopo la messa in stato di accusa della presidente e la sua sostituzione con il vice Michel Temer, nell’agosto del 2016, tutto si è ulteriormente rallentato.
Legato a doppio filo ai grandi possidenti e al congresso a maggioranza conservatrice che ha messo in stato d’accusa Rousseff, il presidente non ha alcun interesse a portare avanti la ridistribuzione delle terre ai discendenti degli schiavi. Il processo è in fase di stallo, sospeso tra lungaggini burocratiche, mancanza di volontà politica e ostruzionismo da parte dei grandi paladini dell’agroindustria.
Un debito inestinguibile
“Primeramente, fora Temer Lula livre”. Prima di tutto, via Temer e Lula libero. Ananias Viana fa questa premessa prima di cominciare qualsiasi discorso. Lunghi capelli ricci raccolti in una fascia, una collana di legno intorno al collo e un volto fresco che mostra molto meno dei suoi 59 anni, questo ex danzatore è il portavoce del consiglio quilombola della Bacia e Vale do Iguape, una rete di 14 comunità riunite lungo il fiume Paraguaçu.
Come gran parte dei quilombola, è un sostenitore convinto di Lula. È stato l’ex presidente – in carcere per corruzione, un’accusa che i suoi sostenitori ritengono costruita ad arte dalla magistratura e dagli oppositori – a riconoscere i diritti delle persone che fanno parte dei quilombo. È stato lui, dice Viana, a “cercare di riparare in parte il debito inestinguibile che il Brasile ha con il nostro popolo”.
“La schiavitù è stata abolita, ma i nostri antenati sono stati lasciati senza nulla. Così abbiamo continuato a essere schiavi di un sistema di sfruttamento capitalista che non ci permetteva di avere i nostri mezzi di produzione”. La comunità di cui fa parte ha chiesto il riconoscimento insieme ad altre quattro vicine, puntando a un certificato di proprietà collettivo.
Il processo è quasi concluso: fatti tutti i passaggi burocratici, i cinque quilombo aspettano solo la consegna del titolo, che dovrebbe avvenire nei prossimi mesi e che gli consentirà di avere un terreno di 1.200 ettari. “Ma la carta non cammina, non parla, non agisce. È solo un primo passo. Ora sta a noi costruire un futuro diverso, basato su un rapporto equilibrato e armonico con il nostro territorio e non sullo sfruttamento intensivo delle risorse”.
Con un approccio fondato sull’agroecologia, le comunità hanno sviluppato alcune attività economiche – dalla produzione di ostriche, miele e olio di palma artigianale, all’ecoturismo – che mirano a espandere una volta ottenute le terre.
Il regno degli orixá
Kaonge, dove vive Viana, è un piccolo villaggio di casupole attraversato da un sentiero in terra battuta. C’è una scuola all’ingresso, un piccolo ristorante che apre in occasione dell’arrivo di forestieri e la casa de farinha, dove la comunità produce farina di manioca, elemento base dell’alimentazione. E poi c’è il terreiro, il tempio religioso dove ci si ritrova per i riti, le sessioni di canto e di danza. È uno spazio grande, dalle pareti bianche, quasi fosforescenti, al centro del quale spicca un altare con i vari orixá, gli dèi che rappresentano elementi naturali come il fuoco, l’acqua, la terra, e sono spesso raffigurati sincreticamente da statue di santi cristiani. Dona Juvani Nery Viana Jovelina, sorella maggiore di Ananias, ne è la custode. La donna, oggi settantenne, studiava a Salvador e voleva fare l’insegnante. Racconta di essere tornata al villaggio proprio su impulso degli orixá: “Mi hanno richiamato al mio dovere con la forza, facendomi travolgere da dolori insopportabili, finché non mi sono piegata”.
Seduta al centro del tempio, Dona Juvani si dilunga in spiegazioni sulla religione condite di costruzioni verbali arzigogolate e volutamente incomprensibili al non iniziato, ma mostra un attaccamento quasi magico, dal sapore ancestrale, a questa comunità di cui è la guida spirituale. Oggi si dedica anima e corpo al suo ruolo di leader religiosa: una domenica al mese accoglie i visitatori che vengono da tutta la regione e guida i riti di purificazione. Centro della comunità, il terreiro è senza dubbio l’elemento che più di ogni altra cosa ne definisce l’identità.
Passati per un processo di certificazione cominciato presto rispetto agli altri, Kaonge e i villaggi vicini trasmettono uno spirito di aggregazione molto forte. Ma il processo di definizione identitaria non è sempre semplice. Comunità che hanno perso la coesione degli albori faticano a riconoscersi e hanno a volte difficoltà a partecipare a un meccanismo di cui non capiscono il senso e che forse risveglia anche antichi pudori, la vergogna di discendere dagli schiavi e di essere stati oppressi per secoli.
Con i suoi circa duemila abitanti, São Francisco do Paraguaçu è l’esempio più concreto di queste contraddizioni. Sonnacchioso e appoggiato su un promontorio che s’immerge nelle acque salmastre del fiume Paraguaçu, questo quilombo – uno dei più grandi dello stato – è un insieme di case in muratura che si sviluppano un po’ disordinatamente ai lati dell’unica strada percorribile in macchina.
In fondo al paese, sulla riva del fiume, si stagliano maestosi la chiesa e il convento di Santo Antônio do Paraguaçu. Costruito nella seconda metà del seicento, questo comprensorio religioso dell’ordine francescano è il luogo intorno al quale è nato l’insediamento. Per costruirlo, furono portati qui centinaia di schiavi, sottoposti a ritmi mostruosi e a punizioni feroci: la leggenda vuole che chi si ribellava fosse rinchiuso in prigioni sotterranee, destinato a morire annegato all’alzarsi della marea. Viste le condizioni terribili, a migliaia scapparono e si rifugiarono nella foresta circostante. Quando la schiavitù fu abolita, alcuni tornarono a popolare i dintorni della chiesa e del convento, sviluppando l’insediamento urbano. Nel novecento hanno vissuto di pesca e di agricoltura, spesso lavorando sulle terre dei grandi proprietari. La comunità è rimasta nell’anonimato fino all’inizio del duemila quando il processo di riconoscimento ha provocato una spaccatura interna.
Una spaccatura visibile già tra i viottoli fangosi della cittadina: “Noi non siamo quilombola”, si legge su alcuni cartelli appesi ai muri delle case. “Fieri di essere quilombola”, ribattono altre scritte. Crispim Dos Santos è uno dei portavoce del quilombo locale. È un uomo un po’ tarchiato di 43 anni, il cui sguardo ferito racconta la fatica di un conflitto che “è andato avanti per molti anni, tra grandissime tensioni”.
Quando il quilombo ha ottenuto il riconoscimento, i proprietari terrieri vicini hanno cominciato a protestare. Si sono rivolti al tribunale statale, che ha giudicato abusiva l’occupazione di alcuni terreni da parte delle comunità. La polizia dello stato di Bahia ha distrutto le coltivazioni, sequestrato gli animali, minacciato gli occupanti. E il paese si è spaccato in due, con una parte che appoggiava le rivendicazioni e un’altra che voleva mantenere lo status quo, ritenendo che il processo di riconoscimento potesse mettere a rischio le poche forme di sostentamento della comunità.
Spinta dai latifondisti, una trasmissione televisiva molto nota ha fatto un reportage in cui dava voce solo a chi era contro il riconoscimento e faceva intendere che chi l’aveva chiesto voleva solo ottenere le terre e non era spinto da nessun senso di identità collettiva. La tensione è salita alle stelle: due persone coinvolte in prima linea nel movimento sono morte d’infarto. “Avevano subito troppa pressione”. Lo stesso Dos Santos è stato inserito in un programma di protezione e trasferito temporaneamente. “Il conflitto è diventato violento, ho temuto per la mia vita”.
Il timore del portavoce e della polizia che ha scelto di proteggerlo era tutt’altro che infondato. È abbastanza frequente che le lotte per la terra in Brasile degenerino in episodi di violenza e in vere e proprie esecuzioni compiute da sicari legati agli interessi dei grandi proprietari terrieri: nel 2017, quattordici leader quilombola sono stati uccisi per ragioni legate ai conflitti agrari, dieci di loro solo nello stato di Bahia.
Oggi, dice Dos Santos, la situazione è più stabile. La maggioranza degli abitanti sostiene il processo di riconoscimento e la comunità di São Francisco do Paraguaçu aspetta la concessione della terra, anche se ci vorrà ancora molto tempo. Ma São Francisco è diventato il simbolo di chi pensa che le rivendicazioni degli abitanti dei quilombo siano una truffa.
Il supermercato di dio
A pochi minuti di macchina da Kaonge, il quilombo Mutexo-Acutinga è l’esempio di una comunità che sta facendo ancora i conti con la propria identità. È un insieme di case sparse tra la vegetazione, senza una via d’accesso unica né un vero e proprio centro. Bisogna inerpicarsi su un sentiero scosceso e un po’ fangoso per raggiungere Joseila Da Hora, della comunità quilombola locale. Casa sua ha due stanze, una perfettamente rifinita con maioliche al muro e mattonelle a terra, l’altra ancora in costruzione, mattoni a vista e niente intonaco sulle pareti.
Con in braccio il suo secondo figlio di nemmeno un anno, Da Hora racconta che la prima volta la richiesta di certificazione è stata respinta dalla fondazione culturale Palmares, l’ente governativo che si occupa del primo riconoscimento delle comunità. “Avevamo presentato una documentazione incompleta”. Allora hanno ricominciato, ma coinvolgendo molte più persone. “Con la nostra associazione stiamo incontrando tutti i residenti per sensibilizzarli sulla questione”, spiega Da Hora, “oggi possiamo dire che il nostro quilombo ha riscoperto un’identità collettiva latente, un po’ perduta, ma che si manteneva nel lavoro collettivo, nella solidarietà reciproca, nel vivere insieme”.
Rimasti ai margini per secoli, oggi i quilombola vogliono avere voce in capitolo sulle decisioni che li riguardano. “Troppo a lungo non ci hanno consultato. Hanno sfruttato i nostri territori all’inverosimile. Basta guardare alla diga Pedra do Cavalo”, continua Ananias Viana.
L’opera, che domina la valle come un mastodonte minaccioso, è stata costruita nel 1985 e rifornisce di acqua potabile ed energia elettrica tutta la regione, fino alla capitale Salvador. Ma ha conseguenze non indifferenti sulla vita delle comunità che vivono lungo il fiume. “Si è abbassato il livello del Paraguaçu e in tutta l’acqua del fiume è aumentata la salinità, proprio a causa della riduzione dell’apporto di acqua dolce. Questo ha avuto un effetto importante sia sulla fauna sia sulla flora delle acque”, analizza Sergio Freitas, responsabile della riserva marina della Baía do Iguape (Resex), un’area protetta creata nel 2000. “La centrale idroelettrica ha funzionato per nove anni senza aver fatto studi di impatto ambientale. Oggi abbiamo coinvolto anche le comunità tradizionali che vivono lungo il fiume per ridurre gli effetti negativi e prendere insieme decisioni sul futuro”.
Selma Santos fa parte del consiglio deliberativo della Resex ed è molto critica sulla diga e più in generale sul modo in cui il territorio è stato gestito negli ultimi decenni. “Con le loro politiche hanno compromesso il territorio. Per noi la natura è come un supermercato di dio, che ci è stato dato per la nostra sussistenza. È fondamentale per noi preservarlo nella sua interezza”, dice questa donna di 35 anni, che fa parte della comunità quilombola di Engenho da Ponte.
Selma Santos partecipa alle riunioni insieme ai rappresentanti di altre comunità e a quelli di altre parti interessate, fra cui Votorantim, il gruppo industriale che gestisce la centrale idroelettrica. “Certo, ci ascoltano di più, ma non pesiamo davvero sulle grandi decisioni. Siamo ancora cittadini a metà: lo saremo al cento per cento solo quando otterremo l’accesso ai servizi, alla terra, alla sanità pubblica”.
Ananias Viana ribadisce il concetto: “Io mi sento quilombola al cento per cento. Se mi sento anche brasiliano? Dipende da cosa farà il governo”.
Il governo, che poco o nulla ha fatto negli ultimi mesi, è in scadenza. E, alla vigilia delle elezioni presidenziali del prossimo 7 ottobre, il futuro del Brasile è incerto: Lula, che ancora è il politico più popolare, rimane in carcere e non si ricandiderà. Il Partito dei lavoratori ha presentato Fernando Haddad, ex sindaco di São Paulo, con lo slogan “Haddad è Lula”. Il paese appare più che mai spaccato in due: in testa ai sondaggi c’è il candidato di estrema destra Jair Bolsonaro, ferito con una pugnalata durante un comizio il 7 settembre scorso.
In questo caos, la questione quilombola assume una valenza simbolica gigantesca, perché intreccia i temi della convivenza, dei grandi latifondi e del modello di sviluppo del paese. Se dovesse confermarsi una maggioranza del gruppo di potere cosiddetto bíblia, boi e bala (bibbia, bue e pallottola) – che rappresenta gli interessi degli evangelici, dell’agroindustria e dei fabbricanti d’armi – è del tutto probabile che i diritti dei discendenti degli schiavi, come quelli delle altre minoranze, subiranno ulteriori limitazioni e il processo di riconoscimento si fermerà.
Ma secondo i responsabili delle comunità l’evoluzione è ormai irreversibile. “Comunque vada, noi ormai ci siamo e faremo sentire la nostra voce”, dice Ananias Viana con tono convinto. “Non ci faremo togliere di nuovo quello che ci hanno negato per secoli”.
Stefano Liberti sarà al festival di Internazionale a Ferrara per moderare l’incontro La resistenza dei quilombolas, insieme alla giornalista brasiliana Janaina Cesar e all’attivista Ananias Viana, sabato 6 ottobre.
Questo reportage è stato realizzato nell’ambito del progetto Terra di diritti condotto dalla organizzazione non governativa Cospe onlus con il Centro de educação e cultura vale do Iguape (Cecvi) e la universidade federal do Recôncavo da Bahia (Ufrb), e sostenuto dall’Unione Europea.