Il salvataggio delle calciatrici di Herat e un enorme rimpianto
Tutto comincia con un messaggio su Facebook. “Hi sir, we are in trouble. Can you help us?”. Il messaggio è di quelli impossibili da ignorare. Per il luogo da cui proviene: l’Afghanistan appena caduto nelle mani dei taliban. E per il mittente: Susan, la capitana del Bastan football club, la squadra di calcio femminile della città di Herat.
Avevo conosciuto lei e le sue compagne nel 2016, quando ero andato in Afghanistan insieme a Pamela Cioni del Cospe a vedere alcuni progetti sostenuti dalla ong di Firenze. All’epoca, mentre giravamo senza sosta incontrando mediche, avvocate, giornaliste, attiviste per i diritti umani, siamo incappati in questo gruppo di ragazze agguerritissime. Un pomeriggio, la referente locale del progetto ci ha chiesto se volevamo incontrare delle calciatrici. Ovviamente abbiamo subito risposto di sì.
Poche ore dopo sono arrivate in ufficio una decina di giovani tra i sedici e i vent’anni, accompagnate dall’allenatore, un signore di 45 anni dagli occhi azzurrissimi e lo sguardo altero, quasi scostante. Le ragazze hanno cominciato a parlare di calcio, della loro formazione, di quanto si sentissero forti quando erano in campo. Parlavano tutte insieme, spesso una sopra all’altra, sotto lo sguardo vigile e compiaciuto del mister taciturno. Sprizzavano un’allegria che non avevamo ancora mai visto nel paese. La chiacchierata era andata avanti a lungo, fino quasi all’ora di cena. Non volevamo separarci, un po’ perché dopo tanti racconti di morte e desolazione avevamo respirato una boccata di vitalità e di speranza, un po’ perché loro erano ansiose di raccontarsi, confrontarsi, aprirsi. Abbiamo quindi chiesto se potevamo assistere a un allenamento. Ci hanno dato appuntamento alle 5.30 del mattino successivo. “Ci alleniamo presto per non dare nell’occhio”, si sono giustificate ridendo di fronte al mio sopracciglio alzato.
Diritti precari
Il giorno dopo ci siamo ritrovati all’alba nel grande stadio cittadino, dove le ragazze si allenavano su un quadratino esterno al campo per non rovinare il tappeto d’erba destinato ai loro colleghi maschi. Erano vestite da cima a piedi: magliette lunghe, calzamaglie a coprire le gambe, velo sulla testa. “È un compromesso che dobbiamo fare per non urtare troppe sensibilità e poter giocare in pace”, mi hanno detto. Nonostante l’impaccio, correvano e saltavano, si passavano palloni, facevano flessioni. Il mister le incoraggiava, ma intanto mi parlava di una situazione disastrosa: la federazione non aveva i soldi per comprare gli scarpini. La loro attività era malvista da gran parte della società. Lui aveva ricevuto varie minacce, telefonate di sconosciuti che lo insultavano.
Ma aveva faticato così tanto per convincere i genitori delle ragazze a mandarle a giocare ed era così catturato dalla loro gioia che, nonostante i pericoli, era deciso ad andare avanti. Mi sembrava una storia talmente eroica che l’anno dopo, sempre con il sostegno del Cospe, sono tornato a Herat insieme a Mario Poeta per girare un documentario su di loro. Abbiamo così passato diversi giorni insieme e le abbiamo conosciute meglio. Nel frattempo erano cresciute. Avevano una palestra dove allenarsi. La squadra si era iscritta alla federazione nazionale e partecipava al campionato. Avevano pure giocato tre partite con il contingente italiano della base di Camp Arena. “Vincendole tutte e tre”, raccontavano con una certa fierezza.
Da quell’anno, ho mantenuto i contatti con alcune di loro, sempre via Facebook, dove compaiono con nomi farlocchi e figurine di fantasia, senza mostrare le loro attività di calciatrici. Avevano imparato a praticare questa tecnica di sopravvivenza nell’Afghanistan dei diritti precari: fare senza ostentare. Glielo avevano insegnato gli sguardi della gente in strada, i racconti dei genitori che avevano vissuto l’epoca dei taliban, in cui praticare lo sport era vietato perfino ai maschi, figuriamoci alle ragazze. Ogni tanto alcune di loro mandavano a me o a Mario un messaggio con i loro risultati e i loro sogni: volevano giocare tornei fuori del paese, partecipare a competizioni internazionali, condurre una vita normale.
L’evacuazione
Poi, pian piano, i nostri contatti si sono diradati, come spesso accade nella vita. Fino al pomeriggio del 14 agosto, quando da Messenger arriva la richiesta di aiuto della capitana. Dopo un primo sentimento di impotenza, insieme a Mario, Pamela e a tutto il team del Cospe pensiamo che bisogna trovare il modo per tirarle fuori di lì. E così prende forma un’operazione che coinvolge i piani alti del ministero della difesa e degli esteri, i carabinieri del Tuscania, vari responsabili politici – tra cui l’ex ct della nazionale di pallavolo Mauro Berruto, oggi nella segreteria nazionale del Partito democratico – e una fitta rete di attivisti in Italia e in Afghanistan. Grazie alla segnalazione della deputata Lia Quartapelle e all’interessamento attivo di alcuni generali, il caso del Bastan viene inserito tra quelli da seguire con particolare attenzione.
Ma l’operazione è tutt’altro che semplice: l’unica via di fuga è l’aeroporto di Kabul, 850 chilometri da Herat. Lo scalo locale è chiuso da quando la città è stata conquistata dai taliban: le calciatrici devono quindi sobbarcarsi un viaggio lungo e pericoloso, su una strada che nessuno sa quanto sia costellata di check point. Chiedo alla capitana un elenco delle ragazze che vogliono venire in Italia assumendosi il rischio di quel trasferimento complesso. Alla fine cinque calciatrici si dicono pronte a partire, insieme alle loro famiglie. Anche l’allenatore decide di provarci. La lista viene subito trasmessa ai ministeri della difesa e degli esteri.
L’operazione di trasferimento dall’Afghanistan è ancora agli inizi ma già si registra un’atmosfera da si salvi chi può. Kabul è caduta il giorno dopo Herat; le forze internazionali si sono trincerate dentro all’aeroporto. Nel caos totale, aumentano le richieste di espatrio di quanti hanno collaborato con il nostro contingente e con le varie ong che in questi vent’anni hanno operato in Afghanistan. I tempi si fanno stretti: i taliban annunciano che entro il 31 agosto le truppe straniere devono improrogabilmente lasciare il paese.
Susan continua a mandarmi messaggi in cui descrive la situazione: le ragazze sono tappate in casa, temono che i taliban vengano a cercarle. Un giorno mi invia un dispaccio d’agenzia in cui la capitana della squadra nazionale afgana, già riparata in Danimarca, invita tutte le sportive a “cancellare ogni traccia della propria attività”. “Bruciate i vostri vestiti, i vostri certificati, fate sparire tutto”. A quest’agenzia fa seguire pochi minuti dopo il video del falò che lei stessa ha appiccato nel cortile di casa, dando fuoco alle divise della squadra e ai vari certificati. Poi un emoticon con una faccina in lacrime e un breve quanto inequivocabile messaggio: “Vi prego, fate presto”. Poco dopo, dal ministero arriva l’ok sulla lista.
Due giorni di trepidazione
Da quel momento, cominciano due giorni di trepidazione, una corsa contro il tempo fatta di messaggi WhatsApp, di triangolazioni con i carabinieri del Tuscania, di consultazioni frenetiche per fare in modo che le ragazze raggiungano Kabul e riescano poi a entrare in aeroporto.
Il pomeriggio di lunedì 23 agosto il gruppo parte alla spicciolata da Herat su diversi autobus. Hanno ricevuto istruzioni di staccare i cellulari e non farsi sentire fino a quando non siano a Kabul. La mattina del giorno dopo cominciano ad arrivare i messaggi delle ragazze che sono giunte sane e salve. Sono in città, in diversi luoghi sicuri. Ma nel frattempo l’accesso all’aeroporto sta diventando sempre più complicato. I taliban dichiarano in conferenza stampa che non avrebbero più permesso agli afgani di abbandonare il paese e avrebbero bloccato l’accesso allo scalo. Gli diciamo di sbrigarsi e correre verso l’aeroporto. Salgono al volo su vari taxi per arrivare. Ma non conoscendo Kabul, finiscono nella parte sbagliata dello scalo. Nuovi messaggi, nuove posizioni mandate via WhatsApp, nuovi confronti su Google maps per capire dove siano. Finché non interviene Abdul.
Abdul è il nostro signor Wolf. Collaboratore del Cospe, anche lui è stato inserito sulle liste delle persone da far espatriare. È quindi andato insieme alla famiglia all’Abbey Gate, il luogo da dove devono entrare tutte le persone inserite nelle liste e in cui devono arrivare anche le nostre calciatrici. Da Google risulta che il nostro gruppo è a dieci chilometri di distanza. Diciamo ad Abdul di chiamarle. Lui le guida passo passo. Alla fine, alle dieci di sera di martedì 24 si trovano. Non tutte purtroppo: due delle cinque calciatrici nella lista non sono riuscite a passare i controlli dei taliban e sono costrette a rinunciare. Come loro, migliaia di altri sono rimasti intrappolati dietro i posti di blocco.
Insieme alle nostre calciatrici e ad Abdul ci sono una quarantina di persone: tutte inserite sulle liste del Cospe e di Road for equality, una ong che sostiene un gruppo di cicliste attive a Kabul. Tutti aspettano dei segnali per poter accedere all’aeroporto: molti hanno segni di riconoscimento concordati con i nostri militari. Ma le ore passano e nulla accade. L’operazione va per le lunghe. Nella notte si susseguono i messaggi: le ragazze, che già hanno alle spalle una notte di viaggio, sono esauste. Noi le rassicuriamo dicendo che al sorgere del giorno saranno portate dentro. Poi arriva l’alba e con essa le foto che ci mostrano chiaramente la situazione. Il gate è preceduto da un fossato pieno d’acqua, lo scarico di una fogna a cielo aperto. Un ponticello minuscolo permette di varcare il fossato.
Dietro si accalca una folla immensa. Le ragazze hanno come segno di riconoscimento una H scritta sulla mano a indicare Herat. Ma sono lontane dal gate, dietro a migliaia di persone che vogliono entrare. Lo stesso vale per il gruppo guidato da Abdul – di cui fanno parte una giornalista incinta all’ottavo mese e dodici bambini piccoli. La situazione è drammatica: la folla spinge. Alcune persone cadono. I bambini vengono portati via per non finire schiacciati. Le ragazze finiscono mani e piedi dentro il fossato. Alcuni del gruppo Cospe rinunciano e tornano a casa. Anche le tre calciatrici e l’allenatore cominciano a mostrare segni di sfinimento. Gli diciamo di resistere e cerchiamo di capire quando e come usciranno gli uomini del Tuscania a recuperare tutto il gruppo.
Mandiamo ancora posizioni. Abdul coordina sul terreno parlando direttamente con i militari all’interno. Ma passano altre ore e nulla accade. Cala di nuovo il buio. Nelle nostre chat incrociate si rincorrono messaggi di speranza e di scoramento. I carabinieri assicurano che appena possibile andranno. Le persone fuori aspettano. Le ragazze scrivono: “Aiuto! Sono più di venti ore che siamo qui fuori, insieme a migliaia di persone e dentro una fogna”. Credono che nessuno verrà mai a prenderle. Anch’io inizio a temere che la situazione sia troppo complessa e che i nostri militari avranno difficoltà a uscire. Aspettiamo in silenzio mentre a Kabul la notte avanza di nuovo. Poi arriva in chat la notizia che uno del Tuscania è fuori con una torcia rossa. Si riattivano i messaggi frenetici. Io dico alle ragazze di cercarlo e di stare insieme al resto del gruppo. Ma non lo vedono. Passano altri minuti. Trascorre un’ora di black out totale. Nessuna delle tre calciatrici risponde più ai messaggi WhatsApp. C’è un’atmosfera di ansia sospesa, un silenzio irreale in una chat che fino a poco prima trillava senza freni. Poi, del tutto inaspettato, il messaggio più bello: “Hi dear, we entered, we are together, we are soooo happy”. Sono le dieci di sera di mercoledì 25 agosto, le 19.30 in Italia. Dopo 48 ore di viaggio e 24 ore fuori dall’Abbey Gate, le tre ragazze, l’allenatore e le loro famiglie sono al sicuro.
Il segnale finale
Ma lo stesso non vale per l’altra parte del gruppo. I Tuscania non li hanno trovati e sono rientrati. Nonostante le ore in piedi e senza sonno, Abdul non si perde d’animo. Manda ancora la posizione, tiene alto il morale di tutti quelli che sono rimasti fuori. I carabinieri dicono che usciranno di nuovo alle 4 del mattino. Ma anche quella deadline viene bucata. La situazione si fa complessa: la gente è sempre più accalcata. La chat è un susseguirsi di messaggi. Abdul mantiene il sangue freddo. Il sole sorge di nuovo: il gruppo ha ormai passato due notti intere fuori del gate. Segue nuovo scambio di massaggi e di posizioni. L’operazione viene di nuovo annunciata. Nessuno dice nulla per non creare altre false speranze. Poi, all’improvviso, tutto si sblocca: alle ore 8.30 del mattino, le 6 in Italia, di giovedì 26 agosto il resto del gruppo riesce a entrare all’interno dell’Abbey Gate. Si ritrovano con le tre calciatrici e l’allenatore, entrati ore prima. Sono tutti sfiniti ma felici. Si stendono per riposarsi.
Sembra l’atteso lieto fine, ma in chat arriva un altro messaggio: la giornalista incinta non è riuscita a entrare. È fuori, insieme ai figli e al marito. Scrive che è rimasta bloccata nel canale, non ha fatto in tempo a risalire. Riparte la ricerca. Abdul stesso esce di nuovo insieme ai militari, ma non la vedono. C’è ancora troppa ressa. Rientrano. Il tempo passa. Si cerca un modo per uscire di nuovo mentre la ragazza manda segnali sempre più disperati. Finché non succede l’irreparabile: un attentatore suicida si fa esplodere proprio all’Abbey Gate, a pochi metri di distanza dalla giornalista. Lei è miracolosamente illesa, così come i figli e il marito, ma descrive scene strazianti, con cadaveri ovunque e il canale di scolo diventato rosso sangue. È il segnale finale: l’operazione si chiude. Tutti sappiamo che nessuno uscirà più dall’Abbey Gate. La tragedia dell’attacco suicida, che tutti temevamo fin dall’inizio e che era stata annunciata come probabile da vari servizi d’intelligence, fa calare sullo scalo di Kabul un velo di morte e di tristezza
Le tre calciatrici e l’allenatore non sanno nulla. Al momento dell’attentato sono già a bordo di un C-130 dell’aeronautica militare. Venerdì all’una e mezza di notte mi mandano un messaggio da Fiumicino: “Siamo in Italia. Grazie per tutto quello che avete fatto”. E subito dopo un altro: “Speriamo riuscirete a salvare anche quelle che non ce l’hanno fatta”.
Questo l’enorme rimpianto: che non tutti ce l’abbiano fatta. Grazie all’impeccabile lavoro dei carabinieri del Tuscania, al coordinamento tra ministero degli esteri e della difesa, alla rete che si è creata e che ha seguito passo passo l’operazione, grazie soprattutto al loro incredibile coraggio e determinazione, le calciatrici e buona parte del gruppo sono oggi in salvo in Italia. Ma in fondo rimane viva l’amarezza di una missione non del tutto compiuta e la preoccupazione per quello che potrebbe succedere a quelle che sono rimaste indietro.