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Il fardello dello stigma

L’albergo Cristallo palace, Bergamo, 4 aprile 2020. L’hotel ha accolto le persone risultate positive al covid-19 che non potevano rimanere in isolamento a casa. (Roberto Caccuri, Contrasto)

Questo articolo è uscito sul numero 1380 di Internazionale.

Un giorno di fine aprile la dentista Azmera Shaikh è risultata positiva al covid-19. Quel pomeriggio lei e la madre, a sua volta positiva, sono uscite dal loro appartamento a Mumbai, in India, doloranti e con la febbre, per salire sull’ambulanza che le avrebbe portate in ospedale. Ma si sono spaventate vedendo che in strada c’era un gruppo di vicini pronti a riprendere la scena con i telefoni. Poco dopo su WhatsApp e Facebook circolavano foto e video della loro partenza. “Eravamo diventate uno spettacolo”, racconta. “Lo zimbello del quartiere”.

Shaikh aveva già sperimentato la paura e la diffidenza suscitate dalla pandemia lavorando come volontaria dell’organizzazione umanitaria Doctors for you nelle baraccopoli della parte est della città. In certe zone, la sua squadra non aveva potuto allestire le strutture per lo screening perché gli abitanti non volevano si pensasse che erano stati infettati dal sars-cov-2, il virus responsabile del covid-19. Shaikh non si sarebbe mai aspettata un comportamento simile nel suo quartiere, abitato in gran parte da persone della classe media e con un buon livello d’istruzione.

Nel giro di pochi giorni tutta la famiglia di Shaikh è stata messa in quarantena. Suo padre e suo fratello, per via delle restrizioni, non potevano portare fuori la spazzatura e fare la spesa, ma nessuno dei vicini si è offerto di aiutarli. Questo comportamento, dice Shaikh, è stato “più traumatico della malattia”.

Negli ultimi mesi molte persone in tutto il mondo hanno reagito come i vicini di Shaikh. In Nepal gli operatori sanitari sono stati cacciati dagli appartamenti che avevano preso in affitto. Ad Haiti gli ospedali che accoglievano i malati di covid-19 hanno subìto degli attacchi. Negli Stati Uniti molte persone hanno evitato i quartieri con una forte presenza asiatica, mettendo in relazione il virus con gli immigrati dalla Cina, dove l’epidemia è cominciata.

L’esperto di antropologia medica Mitchell Weiss, professore emerito dell’istituto svizzero di salute pubblica e tropicale (Swiss Tph), racconta che alcuni dottori di Chennai, in India, non hanno voluto sottoporsi ai tamponi perché avevano paura della reazione dei vicini di casa nel caso fossero risultati positivi. Eppure sapevano quanto sono importanti i test per arginare un’epidemia, precisa Weiss. “Sono gli effetti tossici dello stigma”.

Comportamenti simili erano comuni tra i nostri antenati. Fin dall’antichità gli esseri umani hanno paura delle malattie ed emarginano chi considerano infetto. Oggi abbiamo a disposizione molte armi per combattere il covid-19 – test, tracciamento dei contatti, terapie – ma alcuni comportamenti atavici rischiano di compromettere gli sforzi per tutelare la salute pubblica. Non solo i pregiudizi spingono le persone a tenere nascosta la malattia e a non curarsi, ma caricano di stress i malati e aggravano le disuguaglianze socioeconomiche.

Tenuti in disparte
La storia delle epidemie di lebbra, colera e aids dimostra quanto possano essere devastanti gli effetti dello stigma, sia sui singoli sia sulle società nel loro complesso. Weiss fa notare che gli studi epidemiologici generalmente non tengono conto di questi “costi”, ma fanno comunque parte di quello che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) chiama il “fardello nascosto” delle malattie.

Mumbai, la grande città portuale indiana, è ancora costellata di tracce delle epidemie passate

Mumbai, la grande città portuale indiana, è ancora costellata di tracce delle epidemie passate. Un tempio costruito 160 anni fa per venerare Sitladevi, dea del vaiolo, è ancora aperto ai suoi devoti. I quartieri cattolici sono disseminati di croci erette nell’ottocento per tenere lontana la peste bubbonica. E in quella che un tempo era la periferia della Bombay coloniale è ancora visibile un grande lebbrosario di fine ottocento.

In origine la parola stigma si riferiva a un segno lasciato sul corpo. Con il passare del tempo ha finito per indicare un metaforico marchio d’infamia. I sociologi definiscono la “stigmatizzazione” come la condanna sociale subita dalle persone che possiedono un tratto considerato negativo o deviante, come una disabilità mentale o fisica, o una certa appartenenza etnica. Quasi tutte queste accezioni si ritrovano nell’atteggiamento verso la lebbra.

Lo stigma legato a questa malattia risale all’antichità. Il Levitico la descrive come una manifestazione del peccato, chiama “impure” le persone che ne sono affette e ordina che vivano “fuori del campo” (nella Bibbia il termine “lebbra” è usato per indicare diverse malattie della pelle). In India, dove si ritiene che la lebbra abbia avuto origine, gli antichi testi indù vietavano il matrimonio tra persone appartenenti a famiglie dove c’era stato un caso di lebbra. In Europa i malati venivano allontanati dalle città o rinchiusi nei lebbrosari.

“Nel caso di malattie infettive lo stigma nasce da una paura esagerata del contagio”, spiega Weiss. Alcuni psicologi suggeriscono che questo timore derivi dalla spinta evolutiva a proteggere il gruppo (secondo un’ipotesi simile, gli esseri umani avrebbero sviluppato la sensazione del disgusto per evitare di ingerire agenti patogeni). In questo senso la pratica d’isolare gli infetti potrebbe aver aiutato le società antiche a controllare le epidemie. “Quando parliamo di peste o di altre malattie molto contagiose, le paure possono essere ragionevoli”, fa notare l’antropologo. “Ma le reazioni a queste preoccupazioni possono diventare irragionevoli e dannose”.

Ce lo insegna la storia. Lo stigma è spesso andato ben oltre il timore realistico di contagio. Nella seconda metà dell’ottocento gli abitanti del Regno Unito consideravano la lebbra in termini razzisti, spiega la storica della medicina Shubhada Pandya, collaboratrice dell’Acworth leprosy museum di Mumbai. In un articolo del 1862 il British Medical Journal scriveva che i paesi asiatici erano “infestati” dalla lebbra “in proporzione al degrado fisico e morale della loro popolazione”. Una legge coloniale del 1898 permetteva alle autorità indiane di isolare e di ammassare i pazienti senza fissa dimora, segregandoli in base al sesso per evitare la procreazione.

Paura di non essere accettati
Il batterio che causa la lebbra fu individuato nel 1873 dallo scienziato norvegese Gerhard Armauer Hansen, e nella seconda metà del novecento i ricercatori hanno sviluppato terapie adeguate per curare la malattia, riducendone la diffusione. Tuttavia ancora oggi i malati sono emarginati e interiorizzano lo stigma. Nel 2019 un gruppo di ricercatori ha intervistato i residenti di una colonia di lebbrosi in Ghana, riscontrando che molti guariti preferivano restare nella colonia perché si vergognavano e pensavano che le comunità d’origine non li avrebbero accettati.

Secondo Wim van Brakel, direttore medico della Netherlands leprosy relief (Nlr), un’organizzazione internazionale per la lotta contro la lebbra con sede ad Amsterdam, a volte lo stigma relativo a questioni di salute può combinarsi con altre forme di pregiudizio. Per esempio, secondo uno studio etnografico del 1996 in Thailandia, molti anziani associavano la lebbra all’elemosinare, probabilmente perché in passato l’ostracismo e la disabilità costringevano i lebbrosi a chiedere la carità.

Un aspetto positivo è che aiutare i malati a risolvere un problema può alleviare anche gli altri. In uno studio su persone affette da lebbra condotto in Indonesia tra il 2011 e il 2014, Van Brakel ha osservato che migliorare la situazione socioeconomica dei malati attraverso prestiti di denaro e attività formative faceva sì che si sentissero meno emarginati e favoriva il loro inserimento nella società.

Tuttavia è difficile sconfiggere pregiudizi radicati. Da un sondaggio condotto nel 2018 su 233 camerunesi è emerso che un quarto di loro pensava che la lebbra fosse causata da un maleficio. La maggioranza sapeva che la malattia era curabile, ma più di un quarto ha detto che non avrebbe sposato una persona che aveva contratto la malattia. In India le leggi che ammettevano la lebbra tra le cause di divorzio sono state abrogate solo nel 2019. Anche il nome della malattia è diventato sinonimo di emarginazione. Gli scienziati hanno cercato di cambiarlo in “malattia di Hansen” ma il vecchio nome ha resistito. Ashim Chowla, ex direttore dell’ong Lepra India, sostiene che i suoi interlocutori hanno un sussulto quando svela che ha avuto la lebbra: “Quell’identità ti resta appiccicata”.

Oggi Chowla ammette di provare una certa soddisfazione maligna nel vedere gli abitanti ricchi del suo quartiere rivoltarsi gli uni contro gli altri a causa del covid-19. Le élite indiane “non pensavano di poter contrarre le malattie dei poveri”, ma ora stanno sperimentando sulla loro pelle “l’ostracismo di cui i lebbrosi sono vittime da migliaia di anni”.

Giudizio morale
Per secoli la lebbra è stata l’esempio più lampante dello stigma legato alla malattia. Negli anni ottanta, però, ha fatto la sua comparsa un virus che per Weiss è diventato “il nuovo standard del pregiudizio”: l’hiv. Inizialmente l’aids (l’infezione avanzata da hiv) era considerata una minaccia per la salute di gay, tossicodipendenti e lavoratori del sesso. La risposta iniziale alla diffusione dei contagi si caratterizzò per forme di panico collettivo molto simili a quelle viste con la lebbra. Per alcuni gruppi religiosi l’aids era una maledizione o una punizione. I malati furono discriminati e ignorati dalle autorità di moltissimi paesi, ricorda Laura Nyblade, che studia l’emarginazione subita dalle persone sieropositive per l’istituto di ricerca Rti international.

Gli studiosi di scienze sociali come Weiss avevano usato i sondaggi e le interviste per misurare i pregiudizi e la discriminazione, creando per quantificarli delle “scale dello stigma”. Con l’avanzare dell’aids, i ricercatori sul virus hiv svilupparono strumenti simili, come l’indice dello stigma dei malati di aids, creato nel 2008 dall’Unaids, il programma delle Nazioni Unite su hiv e aids, per attirare l’attenzione sul problema. Nel novembre del 2017 centomila sieropositivi sono stati intervistati, in più di cinquanta lingue, da persone che a loro volta erano state infettate dal virus. Gli operatori gli chiedevano, per esempio, se avessero ricevuto insulti a causa della loro condizione o se gli fosse stata negata l’assistenza sanitaria.

Questi studi hanno messo in luce le gravi conseguenze psicologiche della stigmatizzazione, simili a quelle sperimentate da Shaikh e dalla sua famiglia a causa del covid-19. Hanno evidenziato che il pregiudizio spinge molte persone a nascondere la malattia e a non seguire scrupolosamente le terapie, mettendo in pericolo la propria salute. Secondo un’analisi del 2017 che ha confrontato i risultati di dieci studi, i sieropositivi che percepivano maggiormente la condanna sociale avevano anche il doppio della probabilità di evitare le cure fino a quando le loro condizioni non diventavano estremamente gravi. Secondo i dati raccolti tra il 2011 e il 2016 in diciannove paesi, un quinto dei sieropositivi preferiva non farsi ricoverare in ospedale per paura di subire discriminazioni. Nel 2019 i ricercatori dell’università di Washington hanno rilevato che le donne nere sieropositive che si sentivano più discriminate presentavano una carica virale maggiore e saltavano frequentemente le sedute di terapia.

Questi dati suggeriscono che lo stigma può favorire la diffusione delle malattie: secondo un modello creato nel 2017 da Nyblade e dai suoi colleghi, in alcune situazioni potrebbe essere responsabile di una percentuale compresa tra il 35 e il 51 per cento delle infezioni da hiv tra i bambini, perché le madri non seguono le cure.

Le conseguenze dello stigma sono peggiori per chi è emarginato. In uno studio condotto in Russia, è emerso che al 30 per cento delle lavoratrici del sesso intervistate era stato negato l’accesso all’assistenza sanitaria a causa del loro lavoro, aumentando il rischio che contraessero l’hiv. In una ricerca realizzata in Argentina il 40,7 per cento delle donne transgender (tra cui il tasso di contagi da hiv è molto alto) ha raccontato di avere evitato gli ospedali per via della loro identità sessuale. Uno studio condotto a New York ha riscontrato che gli immigrati africani senza documenti avevano preferito non rivelare di essere sieropositivi alle loro famiglie e comunità, per non perdere alcune indispensabili forme di sostegno sociale.

Vari tipi di discriminazione
Com’è successo con la lebbra, anche nel caso dell’hiv i pregiudizi sociali sono stati aggravati dalle discriminazioni legali. Secondo l’Unaids in alcune parti degli Stati Uniti, come in altri 72 paesi, mantenere il segreto sulla propria sieropositività può costare una condanna penale se si contagiano altre persone. Trenta paesi vietano l’ingresso sul loro territorio o la residenza ai sieropositivi.

“Una lezione importante dell’aids è che per ottenere una risposta efficace bisogna affrontare la questione dello stigma già all’inizio di una pandemia”, sottolinea Nyblade. “Se le persone hanno paura dei pregiudizi esiteranno a sottoporsi ai test, a rivelare la presenza di sintomi e a chiedere assistenza”. A più di trent’anni dalla comparsa della malattia, Nyblade è convinta che “i pregiudizi continuino a ostacolare i tentativi di mettere fine alla pandemia di aids”.

Spesso lo stigma acuisce le divisioni di classe, casta, etnia o altre forme di esclusione. Queste dinamiche possono autoalimentarsi: i gruppi emarginati che vivono in condizioni di affollamento, senza accesso all’assistenza sanitaria, sono generalmente colpiti più duramente da una malattia e, come se non bastasse, vengono incolpati della sua diffusione.

Gli immigrati sono particolarmente esposti. Mary Mallon, una cuoca irlandese emigrata a New York all’inizio del novecento, fu soprannominata “Mary tifoide”. Portatrice sana del batterio che provoca il tifo, contagiò persone di varie famiglie ricche (di cui alcune morirono) e fu rinchiusa in quarantena in un ospedale su un’isola vicino alla città. In una lettera ai suoi avvocati la donna si lamentò di essere diventata “un fenomeno da baraccone” per i visitatori.

Alla fine del 2010 i dominicani puntarono il dito contro gli immigrati haitiani per un’epidemia di colera che in realtà era stata portata dai caschi blu nepalesi intervenuti nel paese vicino. I ricercatori dell’università di Emory hanno osservato che i dominicani avevano collegato la malattia ad alcuni tratti caratteriali e abitudini igieniche degli haitiani, costretti a vivere in condizioni precarie. A un anno dallo scoppio dell’epidemia il governo dominicano peggiorò la situazione introducendo misure per impedire agli immigrati di ottenere lo status legale che gli avrebbe consentito di accedere all’assistenza sanitaria.

Secondo Alexandra Brewis-Slade, antropologa dell’università statale dell’Arizona a Tempe, anche il covid-19 potrebbe essere associato a gruppi specifici. “Per i politici è comodo e utile incolpare alcune persone e distrarre le altre dai veri problemi”, perché così possono nascondere i loro fallimenti. “Il pregiudizio di solito fa il gioco di chi detiene il potere”.

Nyblade concorda con l’idea che “il covid-19 possa fornire una pretesto per stigmatizzare ulteriormente categorie già prese di mira”. In India, dove è al potere un partito nazionalista indù, in molti hanno attaccato sui social network la decisione di organizzare una conferenza internazionale musulmana (che si è svolta nel paese a marzo) usando l’hashtag #CoronaJihad. Di recente un tribunale di Mumbai ha archiviato le accuse contro i partecipanti alla conferenza che erano stati denunciati per aver diffuso il virus.

Attacchi immotivati
Molti incidenti avvenuti nel corso di questa pandemia evidenziano forme di ostilità già riscontrate in passato, soprattutto in quelle zone dove il covid-19 è arrivato di recente. Nei sobborghi di Mumbai, dove i positivi al covid-19 sono in aumento, i residenti di alcuni palazzi hanno cercato di sfrattare le infermiere che abitavano lì perché temevano che portassero il virus a casa.

Nello stato indiano del Karnataka 35 lavoratori stagionali rientrati a giugno nel loro villaggio da Mumbai sono stati messi in quarantena. Quando sette di loro sono risultati positivi ai test, l’intero gruppo è svanito nel nulla da un giorno all’altro. “Temevano rappresaglie”, spiega Edward Premdas Pinto, un attivista locale.

Pinto racconta che in un villaggio di campagna un anziano, al rientro a casa dall’ospedale, ha scoperto che la famiglia era fuggita in preda al terrore per il suo ritorno. L’uomo si è impiccato. Negli Stati Uniti un gruppo di attivisti ha registrato tra marzo e agosto almeno 2.600 aggressioni verbali e fisiche contro persone di origine asiatica.

A pochi mesi dalla sua esperienza traumatica con i vicini di Mumbai, Shaikh è convinta che il comportamento sia migliorato perché si conosce meglio la malattia. A chi combatte la stigmatizzazione le pandemie del passato possono fornire diversi insegnamenti.

Nei casi della lebbra e dell’aids un’informazione adeguata sulle modalità di trasmissione e la presenza di una cura efficace hanno contribuito a far cambiare atteggiamento. L’aids, inoltre, ha mostrato che “la trasparenza può essere utile contro lo stigma”, spiega Weiss. “Attirare l’attenzione sui pregiudizi permette di capire dove intervenire per far funzionare meglio il sistema”. Secondo gli attivisti indiani, anche avere un sistema sanitario solido è essenziale, perché rafforza la fiducia nelle autorità.

Come nel caso della lebbra, anche le parole sono importanti. Nel 2015 l’Oms ha chiesto di evitare nomi di paesi, regioni, animali e popolazioni per denominare un nuovo virus. È un tema molto attuale anche in questa crisi, come dimostra la frequenza con cui il presidente statunitense Donald Trump parla di “virus cinese”. A marzo alcuni esperti di salute pubblica hanno provato, senza successo, a promuovere la formula “distanziamento fisico” al posto di “distanziamento sociale”.

Brewis-Slade cita la Nuova Zelanda come modello di “leadership chiara, comunicata con empatia e compassione”. Anche questo paese ha registrato la sua buona dose di pregiudizi durante la pandemia. Gli asiatici dell’est e gli abitanti delle isole del Pacifico (tradizionalmente oppressi) sono diventati oggetto di insulti per la loro etnia, ma il governo si è affrettato a condannare gli episodi incoraggiando tutta la popolazione a sottoporsi ai test. “Le persone che hanno fatto i tamponi e hanno scoperto di essere state contagiate dal sars-cov-2 meritano tutto il nostro sostegno, perché hanno fatto il loro dovere” per proteggere gli altri, ha dichiarato ad agosto Ashley Bloomfield, direttrice dei servizi sanitari neozelandesi. Secondo Bloomfield le persone infette “non devono provare vergogna o senso di colpa”.

In tv sarebbe stato utile parlare anche dei guariti o raccontare storie a lieto fine

Pinto sottolinea anche l’importanza di una copertura equilibrata dei mezzi d’informazione. Le tv indiane hanno contribuito ad alimentare il panico concentrandosi solo sull’aumento dei casi. Per l’attivista, invece, “sarebbe stato utile parlare anche dei guariti o raccontare storie a lieto fine”. Nel 1991, per esempio, la scelta del giocatore di basket statunitense Earvin “Magic” Johnson di rivelare la sua sieropositività aiutò a modificare la percezione pubblica della malattia.

Secondo Nyblade le testimonianze dall’interno di una comunità possono essere più utili delle dichiarazioni di esperti o di persone famose. In una ricerca condotta in Ghana e Tanzania, Nyblade e i suoi colleghi hanno preso dieci ambulatori e organizzato laboratori formativi e altre attività in cinque di questi, per poi paragonare i comportamenti degli operatori sanitari nei confronti dei sieropositivi. Dove i corsi erano stati affidati a colleghi più informati, invece che a esperti, i risultati erano stati migliori. “Vedere e ascoltare persone ‘come noi’ può servire a cancellare miti ed equivoci”, spiega Nyblade.

Questo tipo di contatti potrebbe essere ancora più importante durante un’epidemia, quando l’isolamento e la quarantena rischiano di alimentare i sospetti. A Mumbai Shaikh ha scoperto che la solidarietà di quartiere – l’attività dei volontari locali per sostenere le famiglie – ha contribuito a modificare l’atteggiamento nella baraccopoli in cui lavora. Inizialmente nessuno ammetteva di avere sintomi del covid-19 né accettava di elencare i propri contatti. Oggi, invece, molti si fanno avanti per sottoporsi ai test e sono più disposti a rivolgersi alle strutture sanitarie. Queste scelte hanno permesso alle autorità di appiattire la curva dei contagi a Dharavi, una delle baraccopoli più grandi della città.

Secondo Shaikh la sfida è aiutare le persone a capire che “bisogna combattere il covid-19, non i malati di covid-19”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul numero 1380 di Internazionale. Il titolo originale è From leprosy to covid-19, how stigma makes it harder to fight epidemics.
Reprinted with permission from Aaas. This translation is not an official translation by Aaas staff, nor is it endorsed by Aaas as accurate. In crucial matters, please refer to the official English-language version originally published by Aaas.

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