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Perché le case a Milano costano tanto?

L’incrocio tra via Ripamonti e viale Isonzo a Milano, 2020. (Francesco Anselmi, Contrasto)

Sono i fondi immobiliari. Sono gli affitti brevi. È una bolla speculativa. Sono i tassi d’interesse. È il superbonus. È l’Expo. Da qualche anno chi vive a Milano cerca, con incredulità e preoccupazione, una spiegazione di una vera e propria emergenza abitativa causata dall’esplosione dei valori delle case, e non la trova. I prezzi al metro quadro sono saliti di più del 60 per cento in un decennio, mentre i salari sono rimasti fermi; le agenzie immobiliari, moltiplicatesi come fiori dopo una pioggia nel deserto, mostrano vetrine in cui quasi tutte le proposte riportano la scritta “Venduto”. Chi chiama per l’annuncio di un appartamento pubblicato il giorno stesso scopre che c’è già un’offerta in corso. Cos’è successo?

Per certi versi è una situazione che conosco. Sono tornato in città dopo molti anni a Berlino, in Germania, e una delle ragioni del mio ritorno era la trasformazione subita con l’impennata dei valori immobiliari. Fino a una decina d’anni fa, gli affitti a Berlino erano più bassi che nella provincia italiana – un monolocale costava quanto una monovolume – e questa abbondanza di spazio a basso costo ha contribuito al fermento culturale della città: ci si poteva vivere con pochissimo, arrabattandosi, che è ciò che fanno gli artisti. Negli anni della mia permanenza i valori di certe zone sono quintuplicati. D’un tratto, arrabattarsi era molto più difficile.

Questo fenomeno a Berlino è stato rapido e violento, ma è stato anche comprensibile. Che la capitale del quarto paese più ricco al mondo costasse quanto Rovigo era palesemente un’anomalia, radicata in un lungo e fosco tratto di storia del novecento; gradualmente, come l’acqua trova il livello, il mercato l’ha corretta. Oggi a Berlino è spesso difficile trovare casa, perché la domanda è molto alta e le regole rigide; ma i prezzi – per chi insegna a scuola o in università, per un infermiere o una poliziotta – sono abbordabili. Non lo sono per chi si arrabatta, e anche per questo sono tornato in Italia.

E qui ho ritrovato ciò da cui stavo scappando. Al contrario che a Berlino, però, questa impennata non ha nulla di comprensibile. Milano non partiva da valori infimi dovuti a un’eccezione storica; e mentre i prezzi delle case, in certe zone, raddoppiavano, i redditi sono rimasti uguali. A Berlino un metro quadro costa meno che a Milano, eppure gli stipendi pubblici sono più del doppio. Secondo l’economista Friedrich Hayek, ogni prezzo è un segnale che condensa informazioni, un riassunto di fatti del mondo. L’orafa di Arzignano non ha bisogno di sapere di una miniera crollata in Canada, di una crisi politica in Ghana, di una corsa ai beni rifugio a Hong Kong: vede il prezzo della sua materia prima che sale, e sa tutto ciò che le serve. Che segnale ci dà il prezzo delle case a Milano? Che fatti del mondo riassume?

Quando si parla di emergenza abitativa si pensa alla carenza di studentati e di alloggi popolari: due ambiti in cui le condizioni sono drammatiche – e in cui l’assenza dell’intervento pubblico è più scandalosa – ma che risultano in qualche modo come dei casi particolari dell’abitare. Questo – a chi vuole chiudere gli occhi – permette di derubricare la crisi, di circoscriverla all’ambito del diritto allo studio o dei servizi sociali, dirsi che è un problema altrui. Ma, come per i primi sintomi di una malattia, chiudere gli occhi ha fatto sì che si estendesse al resto del corpo sociale. In una società giusta la casa dovrebbe essere un diritto a prescindere dalle proprie possibilità di guadagno; ma perfino una società ingiusta, se vuole funzionare, deve permettere di accedere a un alloggio a chi la manda avanti. È il minimo assoluto che un patto sociale, anche se ingiusto, debba offrire perché un sistema sia produttivo.

Oggi, a Milano, questo patto è stato infranto. Io stesso, come molte delle persone con cui ho parlato, posso viverci solo per privilegio generazionale: quando ho fatto il dottorato ho vissuto in una stanza in condivisione che costava un quinto della mia borsa. Con il primo stipendio ho ottenuto un mutuo per un bilocale all’ultimo piano di un palazzo malandato e senza ascensore, vicino al capolinea della metropolitana. È stato un po’ come vincere alla lotteria: da quando l’ho comprato, il valore del mio appartamento è più che triplicato, il che significa che, nella repubblica fondata sul lavoro in dieci anni, grazie a questa casa ho guadagnato più che in dieci anni di lavoro.

Cristina è un’immunologa in un grande ospedale che ha cercato casa dopo una separazione. Antonio è il responsabile di un settore del negozio di una grande catena, con più di un decennio di esperienza. Serena è giornalista professionista, arrivata da Roma con un contratto indeterminato. Tommaso lavora per un servizio di noleggio con conducente. Vivono tutti condividendo degli appartamenti – a più di trent’anni, in due casi più di quaranta – e nessuno di loro ha un contratto di affitto sicuro. C’è chi ha forzato le regole per ottenere l’uso transitorio; chi affitta di mese in mese su piattaforme per affitti brevi di modo da eludere i requisiti di reddito; chi rimbalza tra subaffitti; chi paga in nero. Le loro storie – e quelle di moltissimi altri con cui ho parlato – non sono affatto atipiche per la città. Nel 2024 un salario d’ingresso non basta per affittare un monolocale. Una famiglia di quattro persone con carriere avviate – commissaria di polizia e professoressa associata, medico di base e ingegnere edile – ha poche speranze di ottenere un appartamento con una stanza per ciascuno dei figli.

A riconoscere l’oggettività del problema è per primo Sandro, responsabile di una grande agenzia immobiliare in uno dei quartieri che più si sono rivalutati in questi anni. Poco più che trentenne, Sandro è cresciuto – personalmente e professionalmente – in parallelo ai prezzi al metro quadro: neoassunto quando l’ho incontrato perché cercavo casa, oggi mi riceve nel suo ufficio di direttore. Il suo suv tedesco è parcheggiato di fronte alla vetrina in cui quasi tutti gli annunci riportano, in rosso, la scritta “Venduto”.

“Chi vive a Milano”, dice quasi desolato, “oggi è costretto a vivere al di sopra delle proprie possibilità”. Non solo gli studenti, che attingono a un bacino sempre più privilegiato: una singola in studentato non costa meno di ottocento euro. Nell’ultimo anno, più della metà dei quarantenni che hanno comprato o affittato attraverso la sua agenzia hanno avuto bisogno di una garanzia dei genitori. “Milano sta dissanguando la ricchezza delle famiglie di tutt’Italia”.

Come per i diritti dei lavoratori, il rimedio a un’ingiustizia che colpisce i più deboli sembra essere far sì che l’ingiustizia colpisca tutti

Alcune famiglie: altre no. Sandro mi spiega che oggi quasi la metà degli acquisti sono per investimento (erano meno di un quarto dieci anni fa), tanto che gli appartamenti affittati non costano meno di quelli liberi, come succede spesso. A volte gli annunci sono accompagnati da un dossier che mostra la rendita sui portali di affitti brevi, il tasso di occupazione, le recensioni: e in questo caso costano perfino di più.

È difficile trovare dati sull’offerta di appartamenti in affitto a Milano; l’anno scorso i nuovi contratti stipulati sono stati settantamila; una stima dell’azienda di Sandro dice che in media l’offerta di immobili in locazione è di circa diecimila appartamenti. Quelli su Airbnb sono 24mila. Se da un momento all’altro la piattaforma dovesse chiudere, l’offerta triplicherebbe. Il prezzo non potrebbe che scendere. Nel 2020, invece, uno studio sugli effetti di Airbnb a Barcellona, in Spagna, stimava un aumento degli affitti del 7 per cento, e da allora non hanno fatto che crescere.

A sentire Sandro, però, l’effetto degli affitti brevi sui prezzi è soprattutto indiretto, perché senza le economie di scala di chi gestisce palazzi interi i guadagni per i proprietari – tolte le spese, i periodi sfitti, il costo e l’usura di arredo e corredo – non sono tanto più vantaggiosi dei contratti tradizionali. Ciò che è enormemente più vantaggioso è la flessibilità: una casa in affitto breve può essere liberata quasi istantaneamente e rimessa sul mercato. Più che rendere le case un investimento profittevole, gli affitti brevi le rendono un investimento liquido. Tradotto nel linguaggio di chi è dall’altra parte del contratto, “liquido” e “flessibile” significano “precario”.

“I clienti che cercano affitti hanno vissuto tre mesi qua, tre mesi là”, dice Sandro; e benché le sue non se ne occupino, dice che stanno crescendo molto le agenzie che offrono i cosiddetti affitti a medio termine, più di una settimana ma meno di un anno. In teoria si rivolgono a professionisti in trasferta o a situazioni temporanee, come quelle di chi si trova nel bel mezzo di un divorzio o una ristrutturazione; in pratica sono l’ultima spiaggia dei moltissimi che non riescono a dimostrare un reddito sufficiente per ottenere un contratto 4+4 (almeno quattromila euro netti per un trilocale), e sono costretti a rinunciare alle tutele di legge in cambio del privilegio di potersi svenare.

“Non vedo davvero una soluzione rapida”, mi dice Sandro quando gli chiedo – come esercizio mentale, contro i suoi interessi – cosa si potrebbe fare per migliorare la situazione. “Gli affitti brevi andrebbero regolamentati o vietati”, ma lui per primo ne vede l’improbabilità, considerando che un anno fa al Forum dell’abitare organizzato dal comune l’ospite d’onore era un’alta dirigente di Airbnb. “Oppure cambiare la legge e rendere più facili gli sfratti, che è quello che vorrebbero i proprietari”. Come per i diritti dei lavoratori, il rimedio a un’ingiustizia che colpisce i più deboli sembra essere fare sì che l’ingiustizia colpisca tutti.

Cause

“Le cause sono tre”, mi dice Michele. Michele dirige un fondo immobiliare internazionale con una consistente presenza a Milano. Siamo in un luogo per molti versi emblematico delle trasformazioni della città, il bar di quello che si presenta come un “ostello in zona Duomo”, e offre posti in camerata sopra i cinquanta euro a notte a più di un chilometro da lì – quindi, tecnicamente, non è un ostello né è in zona Duomo. Gli ho chiesto di aiutarmi a spacchettare le informazioni riassunte dal prezzo delle case. Se i salari sono fermi, e gli affitti brevi non rendono più di tanto, cos’è che fa salire i valori? “I rimpatriati, l’Expo e Mario Draghi”.

Nelle sue spiegazioni Michele è generoso e precisissimo, con un distacco che sembra rendere il tutto una questione astratta senza risvolti politici o sociali. Chiama le case “prodotto”, nome collettivo indeclinabile. Parla del mercato immobiliare come un geologo parlerebbe di un ghiacciaio, un’entità primordiale e incontrollabile; se non fosse che nel 2024 il mercato cresce, i ghiacciai no.

E se questa crescita è stata in larga misura indipendente dalla crescita dei salari a Milano, spiega Michele, è perché una serie di fattori hanno messo Milano su un altro mercato, quello internazionale. Uno dei fattori è stato il cosiddetto rientro dei cervelli, il sistema di fortissime agevolazioni fiscali per gli italiani che si ritrasferiscono e riportano la residenza qui, agevolazioni che raddoppiano di durata se si compra una casa. Non sono disponibili dei dati scorporati per città, ma si può immaginare che una parte consistente dei professionisti che tornano – settantamila nel solo 2021, centomila euro di reddito medio – vanno a Milano. In città le compravendite immobiliari sono meno di trentamila all’anno; poche migliaia di acquirenti in più, ricchi e motivatissimi dalle agevolazioni, bastano a influenzare parecchio il mercato.

Un altro fattore è stato, spiega Michele, il “whatever it takes” con cui Mario Draghi ha promesso di garantire la stabilità dell’economia europea attraverso il quantitative easing, il programma di acquisto di titoli di stato. “E improvvisamente gli immobili italiani erano investimenti molto più allettanti rispetto a tutti quelli del resto d’Europa”: se a Parigi o Monaco era impossibile comprare sotto i diecimila euro al metro quadro, a Milano ancora nel 2016 si trovava a duemila (oggi il valore medio è sopra i cinquemila): e Draghi aveva appena garantito che un investimento in Italia non sarebbe stato più rischioso che in Francia o Germania.

Inoltre, dal 2011 le società immobiliari godevano, in Italia, del regime di trasparenza fiscale: un fondo immobiliare italiano vede i propri ricavi tassati più del 30 per cento, ma uno lussemburghese meno del 2 per cento. Il risultato: nel 2012, in tutta Italia, gli investimenti immobiliari di fondi esteri ammontavano a 1,8 miliardi di euro. Oggi nella sola Milano sono il triplo.

Secondo Michele questo si deve in larga misura al progetto di Porta Nuova, che in occasione dell’Expo 2015 ha venduto al mondo, cioè agli investitori internazionali, un’immagine di Milano con un grande potenziale di crescita. “È stato Manfredi Catella (l’imprenditore che ne ha guidato lo sviluppo, ndr) il rompighiaccio”. Inizialmente i fondi si sono indirizzati verso gli immobili commerciali e di lusso, poi al resto. Due anni fa Apollo, un fondo d’investimenti statunitense, ha rilevato per quasi un miliardo di euro il patrimonio immobiliare di un ente previdenziale italiano, composto perlopiù di appartamenti, in gran parte a Milano. “E quello che fa il private equity”, commenta Michele, “è razionalizzare, e poi estrarre valore”. Al momento, dice, molti si stanno indirizzando verso il cosiddetto build to rent, cioè la costruzione di immobili destinati alla locazione. Per zone semicentrali, fuori dalla circonvallazione ma raggiungibili in metropolitana, le rendite attese sono “tra i venti e i trenta euro al metro quadro al mese”: una famiglia che cerchi due stanze per i figli, e un contratto 4+4, dovrà dimostrare di avere redditi di 7.500 euro al mese. Oppure, certo, scegliere un contratto diverso, più precario.

Chiedo anche a Michele l’esercizio mentale di scavalcare la barricata: cosa farebbe, se fosse un amministratore pubblico, per alleviare questa crisi? Esita un po’. Sicuramente, dice, bisognerebbe costruire. Così si allargherebbe l’offerta, ma i costi di costruzione ormai sono tali che anche il settore pubblico, senza andare in perdita, potrebbe offrire canoni poco più bassi di quelli di mercato. L’unica è che “Milano smetta di sentirsi piccola”: Monaco e Amburgo hanno popolazioni simili ma, rispettivamente, il doppio e il quadruplo di superficie. Milano, dice ricalcando una proposta proprio di Catella, “dovrebbe andare da Lodi a Varese”, incorporando nel sistema di trasporti urbani tutti i comuni dell’area metropolitana, e oltre. L’idea è seducente, somiglia al futuro; è anche, per chi abbia una vaga idea dello stato delle Ferrovienord, completamente utopistica se non nel lunghissimo periodo. E sino ad allora? Michele non ha una risposta. “Faccio il manager di un fondo internazionale”, dice, alzando le braccia come l’emoji desolato. “Vivo a Corsico”, fuori Milano.

Soluzioni

Abolire gli affitti brevi, costruire in perdita, potenziare i trasporti regionali: le soluzioni prospettate per contrastare gli effetti del mercato richiedono tutte un intervento pubblico energico, a livello sia nazionale sia locale. Negli ultimissimi tempi, almeno localmente, sembra formarsi una volontà politica in questa direzione (il ruolo del pubblico nella crisi abitativa milanese sarà oggetto della seconda parte di questo racconto); ma il sindaco di Milano Beppe Sala, nella stessa intervista dello scorso luglio in cui dice di voler affrontare il problema della casa, celebra il record di flussi turistici della città (come se il problema non nascesse anche da quello). Appena due anni fa un assessore, incontrando un comitato di quartiere, dichiarava che “per i milanesi non c’è nessuna emergenza abitativa”.

Esiste un senso perverso in cui questa frase è vera. A Milano, secondo l’Istat, quasi il 70 per cento dei residenti vive in una casa di proprietà; si opporrebbero per principio a ogni riforma a favore degli affittuari – come le restrizioni alle piattaforme – perché ogni intervento abbastanza significativo da fare una differenza concreta finirebbe per incidere sul valore dei loro immobili. Certo, finché si tratta della casa in cui vivono (e per la stragrande maggioranza è così) è un valore astratto, teorico; ma una perdita astratta è pur sempre vissuta come una perdita. I proprietari di casa a Milano sono a tutti gli effetti un blocco d’interesse politicamente trasversale, la cui numerosità tiene in ostaggio la minoranza di chi affitta, corposissima ma insufficiente da un punto di vista elettorale.

Questo è tutto fuorché un caso. Come ha brillantemente ricostruito Sarah Gainsforth in Abitare stanca (effequ 2022), a partire dalla metà del novecento l’Italia ha abbandonato ogni investimento significativo nell’edilizia popolare a favore di una politica di forti incentivi all’acquisto della casa anche con lo scopo di rompere il fronte degli affittuari. Gli inquilini – specie quelli di grandi società, assicurazioni, fondi – hanno un fronte comune, sono un soggetto politico naturalmente ostile alla proprietà: basti vedere il successo dei movimenti contro i corporate landlords in Germania. Al contrario, i proprietari dell’appartamento in cui vivono – che vi investono per decenni e lo considerano un supplemento alla pensione o una dote generazionale – hanno invece interessi allineati a chi di appartamenti ne possiede dieci, cento, mille, a banche e fondi. E quindi, appunto, questo 70 per cento dei milanesi – abbastanza grande da bocciare qualunque candidato sindaco minacci di toccare i loro interessi – non sente nessuna crisi abitativa, almeno per ora.

Il restante 30 per cento la sente eccome, e con loro tutte le persone che non figurano nelle statistiche dei residenti perché costrette alla precarietà. I segnali sembrano indicare che la situazione non farà che peggiorare. Questo mese i padroni di casa di Antonio, il dipendente della grande catena di negozi, hanno aumentato di duecento euro l’affitto che paga in nero con tre coinquilini. Serena vorrebbe comprare casa grazie all’aiuto dei genitori, ma nonostante ciò il suo stipendio di giornalista rende difficile ottenere un mutuo sufficiente ai prezzi attuali. Cristina, l’immunologa, aveva scelto un percorso relativamente meno redditizio per idealismo: da quando ha deciso di studiare medicina si è sempre vista nel servizio pubblico. Ma non vuole rimandare l’idea di costruire una famiglia a quando potrà permettersi di non avere coinquilini, e sta pensando di aprire uno studio privato.

Cristina, Antonio, Serena e Tommaso sono nomi di fantasia.

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