Le stazioni si stanno trasformando in fortezze contro i poveri
Faccio e rifaccio il conto, ma non riesco a credere al risultato. Eppure è sempre lo stesso: nella mia vita, tra anni di pendolarismo e stagioni di viaggi frequenti, ho attraversato la stazione centrale di Bologna almeno diecimila volte. E non una di queste mi sono sentito in pericolo. Un forte disagio, invece, l’ho provato davanti alla campagna di stampa dell’estate 2017 che la dipingeva come un luogo da cui scappare a gambe levate, dove i viaggiatori sono vessati dalle pretese dei mendicanti e circondati da “una folla di disperati”. Cosa che, semplicemente, non è vera. I poveri che gravitano attorno alla stazione lo fanno per cercare risposta a semplici necessità, come quella di trovare un bagno per lavarsi o un riparo tranquillo per la notte. E, ancora, la stazione è un luogo dove chiedere l’elemosina o proporsi come facchini.
Al culmine di questa campagna, il sindaco Virginio Merola ha incontrato i rappresentanti del governo e delle Ferrovie dello stato italiane spa (Fs). Invece di respingere l’odiosa equiparazione della povertà con il crimine, dalla riunione è uscita la promessa di realizzare “in tempi rapidi [il] maxi progetto di adeguamento strutturale della stazione per filtrare gli accessi”. La stazione sarà dotata di gate, cioè di varchi presidiati che consentono l’accesso ai binari solo a chi ha un titolo di viaggio. Una soluzione già da tempo studiata dalla Rete ferroviaria italiana (Rfi, gruppo Fs) e auspicata dalla destra bolognese.
Il progetto è in perfetta continuità ideologica con il decreto Minniti, e ne condivide l’obiettivo di espellere le persone marginali dai luoghi della vita cittadina. Per capire come si manifesta concretamente decido di andare a vedere e attraversare i gate a Milano centrale, dove sono stati già da tempo istituiti. La loro inaugurazione risale al maggio del 2015, lo stesso giorno in cui apriva Expo.
Controllo dei biglietti e prevenzione del terrorismo
In vista della grande fiera del cibo era stata approvata una nuova legge antiterrorismo e Giuseppe Sala, allora commissario governativo della manifestazione, dichiarava che l’esposizione poteva diventare “un bersaglio ideale”. Rfi non faceva alcun riferimento esplicito al terrorismo, ma annunciava “stazioni più sicure” grazie ai varchi presidiati. Il sospetto che sia stata sfruttata la data significativa e il clima emergenziale per introdurre una novità potenzialmente sgradita resta un sospetto, ma legittimo.
Nel settembre successivo anche Roma Termini alzava muri di plexiglas prima dei binari, e i gate entravano esplicitamente nella narrazione delle misure antiterrorismo. Si arrivava a scrivere che, con i varchi, “Trenitalia vuole sia contrastare il terrorismo, sia garantire protezione per i viaggiatori e per i dipendenti”. Nel novembre 2015, dopo il sanguinoso attacco al teatro Bataclan, Striscia la notizia ha mandato in onda un servizio in cui metteva alla berlina l’azienda ferroviaria per i controlli non abbastanza severi ai gate di Milano e Roma. La sovrimpressione avvertiva che le riprese erano state fatte sia “prima” sia “dopo gli attentati di Parigi”. Così, tra musica da comiche e risate registrate, il filmato celebrava il matrimonio tra il controllo del biglietto e la prevenzione del terrorismo.
Eppure è evidente che questo nesso non ha alcun senso. Con poco più di due euro un terrorista può procurarsi un biglietto per Zagarolo o Monza, usarlo per attraversare indisturbato i varchi a Termini o a Milano centrale e, immediatamente dopo, aprire il fuoco o farsi esplodere. Ma perché poi dovrebbe agire proprio vicino ai binari, quando ha tutto il resto della stazione a disposizione? Perché non scegliere come obiettivo, per fare un esempio non casuale, le dense code che si formano nelle ore di punta proprio a causa del controllo dei biglietti presso i gate?
Ancora nell’agosto 2017, la parlamentare del Partito democratico Francesca Puglisi insisteva per l’istituzione dei varchi a Bologna, facendo esplicito riferimento alla strage del 2 agosto 1980. Un atto terroristico che ha visto in azione le più nere trame dell’Italia repubblicana e che nessuno, fin qui, si era azzardato ad associare al controllo dei biglietti. Ogni argine è travolto, anche il più banale buonsenso e la minima consapevolezza storica.
A Bologna perfino un falso allarme bomba ha alimentato la campagna per i gate. Due taniche dimenticate su un treno, attribuite arbitrariamente da una passeggera a uno “straniero di colore” che aveva già lasciato il vagone, hanno fatto scattare un’allerta del tutto infondata.
Nero, probabilmente, anche l’uomo con il borsone ritratto in silhouette sul rendering delle Fs che annunciava i varchi a Firenze Santa Maria Novella. Dopo la denuncia del contenuto razzista l’immagine è stata ritirata, ma la vicenda ha tutto il sapore del lapsus. Al di là delle generiche “ragioni di security”, sono infatti proprio ambulanti, mendicanti e poveri che le Fs vogliono intercettare ed espellere dall’area dei binari. “Il progetto [di istituzione dei gate], elaborato dal Gruppo Fs italiane in collaborazione con le Forze dell’Ordine e le Istituzioni, mira ad aumentare la sicurezza dei passeggeri e a prevenire i fenomeni di evasione, accattonaggio, attività illecite e vendite abusive in prossimità e a bordo dei treni”, si legge su Fsnews.
I segni dell’esclusione
A Firenze una stazione mai realizzata è costata, secondo Il Post, quasi 800 milioni di euro; a Bologna lo scalo per l’alta velocità inaugurato nel 2013 ne è costati 530. Ed è considerato dalla stessa Rfi “un esempio critico, non appetibile dal punto di vista commerciale”, con conti a rischio e difficoltà logistiche. Davvero, in queste due città, quel che urge sono i gate? No, decisamente le motivazioni fornite da Fs non dicono tutto: i varchi ai binari, prima di essere una soluzione tecnica, sono un dispositivo sociale. Come vedo, e tocco con mano, appena arrivato a Milano centrale.
Qui capisco che l’uomo con il borsone evocato dal rendering non è gradito in nessun angolo della stazione, non solo nella parte sigillata dai gate. Le panchine sono scarse e ostili a chi ha bisogno di riposo, con braccioli “anti-bivacco” che impediscono di sdraiarsi. Non c’è più la sala d’attesa, sostituita da negozi già nella ristrutturazione del decennio scorso. I bagni sono a pagamento e delle fontanelle non resta neppure il ricordo.
Torno ai binari per aspettare Michele Lapini. Michele viene per fotografare i segni dell’esclusione, le emergenze visibili della separazione sociale che parte dai varchi e corre fino all’esterno della stazione. Supero i gate con un biglietto qualsiasi. Dallo sguardo distratto dell’addetto ricavo l’impressione che essere bianco e decentemente vestito sia un titolo di viaggio che aiuta ad attraversarli senza rallentamenti.
Negli orari di punta la fila però si ingrossa, e per passare veloci diventa necessario dimostrare, seppure indirettamente, la consistenza del proprio conto corrente. È per questo che nasce il varco “fast track”, accesso “prioritario ed esclusivo” per viaggiatori dotati di Cartafreccia “platino” e “oro”, o delle corrispondenti “privilege” e “gold” di Italo.
Bar al posto di profughi
Michele ha fame, così puntiamo verso il kebabbaro che si trova su un lato di piazza Duca d’Aosta, la piazza della stazione. Mentre scendiamo dal piano binari lo costringo a una sosta nel mezzanino.
Questo ballatoio nel 2015 era luogo di sosta di migranti e profughi che arrivavano con i treni dall’Italia del sud, ed era un punto d’incontro tra loro e i volontari milanesi. Sgomberato a giugno di quell’anno, già in agosto era occupato da bar.
La sequenza fotografica che ritrae il prima e il dopo del mezzanino mostra il volto feroce della valorizzazione commerciale: dove c’era vita, e solidarietà umana, ci sono anonimi tavolini e arredi da street food.
Prima di riprendere la discesa ci sporgiamo sui menù, e vi troviamo un “arancino del giorno” al prezzo di sei euro. Con in bocca un sapore amaro, scendiamo gli ultimi gradini.
Superiamo la cancellata “anti-clochard” installata nel 2015 per sigillare la stazione nelle ore notturne e, appena gli occhi si abituano al sole, Michele indica qualcosa alla nostra sinistra, sotto gli sparuti alberi di piazza Duca d’Aosta.
Visto da dove ci troviamo pare un tableau vivant: una cinquantina di uomini dai vestiti colorati e la pelle nera sono seduti lungo due lati di un’aiuola. Altri uomini in piedi, bianchi, in divisa e armati, li circondano.
Blitz in piazza Duca d’Aosta
Quando ci avviciniamo emergono i dettagli: i poliziotti controllano documenti, un ragazzo tra i fermati grida la sua amarezza, i cani antisommossa abbaiano senza che gli agenti facciano nulla per farli tacere. Attorno al gruppo si agitano giornalisti e fotografi, ma il giorno dopo, sulla stampa milanese c’è poco o nulla. L’operazione a cui assistiamo non fa più notizia, non è che la reiterazione in tono minore della grande retata del 2 maggio scorso, quando 300 agenti hanno trattenuto cinquantadue migranti. Dopo quel giorno, i rastrellamenti sono diventati routine: 26 luglio, 1 e 9 agosto, 12 settembre, 10 ottobre.
Le persone che non risultano in regola con il permesso di soggiorno vengono portate in questura, si fanno multe come quella di tremila euro a una venditrice “abusiva” di birra, e soprattutto si mette in scena la guerra in corso, la guerra contro i poveri. Nonostante lo spiegamento di forze, i suoi massimi sostenitori sono ben lontani dall’essere soddisfatti: se durante la prima retata Matteo Salvini esultava in diretta su Facebook, ora Riccardo De Corato di Fratelli d’Italia si rammarica che si tratti soltanto di “mini-blitz”. Chiedono di più, appellandosi al decreto più amato dall’estrema destra, quello sulla “sicurezza urbana” del ministro del Partito democratico, Marco Minniti.
In realtà, a spingere le persone a trattenersi in piazza Duca d’Aosta c’è soprattutto l’irrigidimento del sistema dell’accoglienza milanese, non più aperto ai migranti in transito ma solo a regolari e richiedenti asilo. Una conseguenza dell’”approccio hotspot” preteso dalle istituzioni europee e adottato dal governo Renzi nel 2015. Naturalmente la situazione della piazza è anche pretestuosamente drammatizzata, come dimostra la presenza dei tanti viaggiatori e turisti che ogni giorno siedono, tranquilli e indisturbati, a pochi metri dagli “stranieri e sbandati” oggetto delle retate.
Ci sediamo lì anche noi, quando il pomeriggio è ormai inoltrato e il blitz concluso. L’abbiamo visto: i poveri non sono semplicemente fermati dai gate, come avviene all’uomo con il borsone nel rendering delle Fs. Sono espulsi dalla stazione, dalla piazza, spesso dal sistema dell’accoglienza, e perfino quando si accampano in miseri cunicoli lungo i binari sono perseguitati da bravi cittadini che li segnalano a consiglieri di Forza Italia. D’altra parte, se la risposta delle istituzioni all’esclusione sociale è quella di far sparire gli esclusi, è inevitabile che nel ventre della società, sui social e nei bar, fermenti l’odio.
Adeguarsi ai cambiamenti delle stazioni
Alessandro Radicchi è direttore dell’Osservatorio nazionale sul disagio e la solidarietà nelle stazioni italiane (Onds), istituito dalle Fs per affrontare, anche tramite 17 help center, “il fenomeno dell’emarginazione sociale e delle povertà estreme nelle aree ferroviarie”.
Prima di partire per Milano ho chiesto a Radicchi cosa pensasse dell’istituzione dei gate, e mi ha risposto che dopo l’iniziale rammarico – a Roma Termini il centro d’aiuto si trovava al primo binario – avevano avuto spazi più grandi e il servizio era addirittura migliorato.
Non ho potuto fare a meno di pensare che la generosità delle Fs fosse proporzionale alle centinaia di metri di distanza messe tra la galleria commerciale di Termini e gli utenti della nuova sede dell’help center. E che invece, per quelle persone, la stazione continua a rappresentare la possibilità di raggranellare qualche spicciolo e forse anche quella di mantenere un contatto con la vita “normale” che vi scorre.
A Milano l’help center è più vicino, ma si viene accolti da una guardia in divisa e gli operatori parlano da dietro vetri da sportello bancario: non esattamente la situazione capace di intercettare le tante, e spesso necessariamente illegali, varietà dell’esclusione.
Radicchi mi ha detto anche qualcosa di rivelatore a proposito delle trasformazioni delle stazioni: “L’help center deve essere come l’acqua, adeguarsi ai cambiamenti del territorio”.
Un’immagine forte: i liquidi non hanno forma, assumono quella del contenitore. La interpreto in questo modo: il contenitore sono le Fs, che decidono in modo privatistico che forma dare alla stazione, mentre l’umanità che l’attraversa deve scorrere secondo le regole aziendali.
Per l’agio dei consumatori
Uno dei mezzi che le Fs utilizzano per dare forma all’acqua è la Grandi stazioni spa (Gs). Costituita dal gruppo nel 1998, ha lo scopo di
conseguire una diversificazione dell’offerta dei servizi di stazione: non solo treni, dunque, ma anche negozi, boutique, librerie, ristoranti e bar, centri riunione, servizi di ogni genere per trasformare in luoghi sicuri, confortevoli, adatti agli incontri e allo shopping ambienti oggi poco utilizzati dal punto di vista commerciale e della vivibilità.
Attualmente le aziende che partecipano alla gestione delle 14 maggiori stazioni italiane sono tre. La prima è Gs rail, interamente di proprietà delle Fs, che cura la logistica funzionale al traffico ferroviario. La seconda è Gs immobiliare, che si occupa della valorizzazione degli edifici e ha ovviamente tutto da guadagnare dall’allontanamento dei poveri. I suoi azionisti sono le Fs al 60 per cento e la Eurostazioni spa (gruppi Benetton, Caltagirone e Pirelli) al 40.
Infine c’è Gs retail, che amministrerà fino al 2040 la parte commerciale delle stazioni. Questa società è di proprietà di una cordata italofrancese in cui ha un ruolo chiave Maurizio Borletti, che dal 2005 al 2011 è stato presidente della Rinascente. Il gruppo Borletti costruisce centri commerciali che ambiscono o almeno ammiccano al lusso. Così, anche per le stazioni,
la chiave sarà soprattutto un’offerta di maggiore qualità, soprattutto nella ristorazione e nel food in generale […]. Stiamo cercando di andare incontro alla gente che ha bisogno di sentirsi a suo agio nelle aree delle stazioni e perciò abbiamo lanciato un piano di collaborazione con i comuni per la riqualificazione anche delle zone limitrofe. (Maurizio Borletti, intervista)
La motivazione materiale dei gate, e perfino delle retate, è quindi da cercarsi nella trasformazione di un luogo pubblico, aperto a tutti, in un privatissimo e luccicante centro commerciale. Da cui poveri, migranti e rom devono essere espulsi in nome dell’agio dei consumatori, cioè del maggior profitto.
Sono stati evocati ordigni e trolley esplosivi, poi impastati con l’ideologia del decoro, ma la sicurezza dei viaggiatori non c’entra nulla. E mentre la paura alimentata irresponsabilmente continua ad avvelenare la società, il privato già guarda avanti, alla prossima valorizzazione.
Lo fa Borletti, che in un’intervista dice di voler “raddoppiare il fatturato [di Gs retail] nel giro di 5-6 anni”. Ma lo fa anche quello strano privato, interamente di proprietà del ministero dell’economia e delle finanze, che è il gruppo Fs italiane.
Più tornelli, meno ferrovieri
Tra i pretesti per imporre gli accessi controllati ai binari di Bologna c’è stato un comunicato delle maggiori sigle sindacali dei ferrovieri che chiedeva “iniziative atte a garantire la massima tutela e incolumità” dei lavoratori. Ma, come mi ha detto un ferroviere di un sindacato di base, “la nostra insicurezza è causata principalmente dalla riduzione del personale nelle stazioni, a bordo dei treni, nelle biglietterie, ai binari”. Se questo è il punto, l’idea delle Fs di dotare di gate o tornelli 620 stazioni aggraverà la situazione rendendo praticabili ulteriori tagli.
Saranno infatti “gate intelligenti da cui si entrerà semplicemente con il biglietto senza esibirlo a una persona fisica”, ha spiegato l’amministratore delegato della Rfi in un’audizione al senato. E la loro estensione è ancora da finanziare, come è scritto nel contratto di programma 2016-2021 tra il ministero competente e la Rfi.
Sarà lo stato quindi a pagare i varchi per stazioni trasformate in gallerie per lo shopping? La partita, dal punto di vista economico, è significativa: a Firenze le barriere sono costate più di un milione di euro.
Bologna centrale, ore 22
Torniamo a Bologna in tempo per la chiusura della sala d’attesa, che dallo scorso giugno è alle dieci di sera. Con scarsa fantasia, e sicura efficacia, l’azienda ha giustificato la chiusura anticipata con i soliti “motivi di sicurezza”.
Tre guardie armate fanno sloggiare una trentina di viaggiatori, che escono brontolando. Fino alle sei di mattina, quando la sala riaprirà, devono partire ancora una quarantina di treni, ma la stazione riorganizza i propri orari attorno a quelli di bar e negozi, che chiudono alle 22.
Perché la sala d’attesa dovrebbe restare ancora aperta, visto che non si può più fare shopping? La stazione, fortezza e centro commerciale, ha porte aperte solo per chi consuma.