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Cronache da un’Italia che frana

Bogliasco, Genova, dicembre 2014.

Non possiamo frenare, come quando si rompono le acque, e le acque si rompono sempre, non è questione della perduta Concordia che si adagiò ben bene come si conviene a un emblema facile e scontato, per farci berciare tutti contro l’Italia, per farci arbasineggiare o prendere per i fondelli dai reporter e dagli utenti di cnn.com, o come gli tsunami di Messina a inizio del secolo scorso. Noi siamo lanciati a una velocità per cui non eravamo nati, quando dobbiamo nascere. Era splendido, splendente, non spleen o stenosi, prima di nascere: contemplavamo uno stato di beatitudine in cui forse ci sovvenivano sogni e fantasmi gentili. Non era dopotutto così, dolce e gentile, la nostra Bell’Italia prima del Travel e del TripAdvisor?

Non possiamo frenare: siamo lanciati, le acque sono rotte, entriamo podalici nel mondo dei traumi e dei paesaggi, delle amnesie e delle forme italiane…

Possiamo franare.

Non possiamo frenare. Siamo lanciati a una velocità per cui non eravamo nati, scuotendo come un pacchetto elettrico gli assoni e la nervatura dell’Italia intera. Noi non eravamo adatti, vivevamo disadattati tutta Italia, tutta, la Liguria terra leggiadra con il sasso ardente e l’argilla pulita dove si avvivano di pampini al sole, fino alla Sicilia dove venivano i contadini a macinare il grano, a pigiare l’uva, a cagliare il latte per le ricotte e i formaggi, a spremere i favi delle api, le contadine a impastare il pane, a infornare i dolci di fichi e miele. Non possiamo frenare, siamo lanciati, l’Italia scuote le sue palpebre fatte di ampi padiglioni a scheletro nella terra di Rho-Pero dove si tiene l’esposizione universale, la ex Innocenti è certamente un grande centro commerciale ora, ma bene o male un momentino di grazia per la gente che siamo noi lo riserveranno pure le belle location e i set di Il giovane favoloso dove Elio Germano è Giacomo Leopardi molto bene, oppure la Toscana del wine e del food di Blair e di Siena che fece e della Maremma che disfece.

Matera, ottobre 2014.

Non possiamo frenare, siamo lanciati, io e il mio amico Brunetto, due metri di uomo, ex legione straniera, sulla Bmw Bavaria 520, lanciati sull’Autostrada del Sole da Milano fino a Praia a Mare in Calabria: la Bmw ha i freni rotti, non si può frenare se non quando vai a 30km/h. È l’anno del Signore 2000, la giravolta di millennio, quando siamo lanciati vedendo tutta Italia da questi finestrini di vetro pesantissimi, un vetro spesso, una carrozzeria approssimativa e inelegante, se si potesse dire di un’automobile che è “sdrucita” lo si direbbe di questo baraccone che abbiamo rubato agli zingari in via Zama a Milano.

Via Zama è un’ortopedia dell’urbanistica, la spina calcanea che duole atrocemente nel sud di Milano, la si ignora per non curarla con gli ultrasuoni. Il campo degli zingari sorge qui, immensamente, sono stanziali, cioè sono nomadi, poiché nessuno è stanziale, non si sta mai, ci si muove sempre, anche noi abbiamo fatto a piedi da Calvairate a via Zama con la spranga di piombo stretta nella mano stranamente femminea del mio amico orco Brunetto, per andare lì dagli zingari. Via Zama degli zingari è un accampamento usuale, stilistico, ovvero stilizzato: le solite roulotte, le solite fanghiglie, le solite sozzerie, i soliti bimbi impiastricciati a piedi nudi, i soliti zingari con quei completi color tabacco in foggia slovena, le solite donne precocemente invecchiate e sformate dal junk food che è identico agli americani che fanno alla griglia i marshmellow, ovvero i morbidoni o fragoloni che noi mangiavamo negli oratori a fine aettanta, pescandoli nella sala oratoriale in mezzo all’odore bruciacchiato e strano dell’incenso, tante manine in queste scatole di plastica ovoidali e enormi, un poco distante dalle ghiacciaie con i ghiaccioli fatti di colorante a 50 lire l’uno, soltanto quello al limone era bianco, era un’eccezione agli E-138 che fanno venire il cancro da adulti a tutti i bambini di quel tempo aureo, dolce e gentile, dell’Italia nella memoria di Nanni Moretti.

Roma, quartiere La Storta, giugno 2014.

Allora hanno rubato la moto sotto casa di Brunetto, la nostra moto, cioè mia, perché Brunetto non lavora da sette anni, non si sa come facciamo a vivere, tutti quanti, e ancora non c’è la crisi causata per colpa dei subprimes statunitensi. Non c’è l’euro, sperimentato solo nei comuni di Fievole e Pontassieve l’anno prima, come leggo ora da Wikipedia, per controllare se nel 2000 c’era l’euro e cosa avevamo in tasca io e Brunetto andando dagli zingari di via Zama a picchiarli perché vogliamo indietro la moto. Si tratta di una Guzzi 350 Enduro, una sorta di trattore molleggiato, una Saltafoss dei begli anni andati, quando i bambini ricchi con la Saltafoss andavano a saltare i fossi, mentre noi bambini poveri di Calvairate, simili a zingari stanziali, ci toglievamo le scarpe ai piedi per inzaccherarci della fanghiglia al centro dei giardinetti di piazza Martini, dove io e Brunetto abbiamo trovato un cadavere nel 1990 ma siamo scappati, altrimenti la polizia ti trattiene per un giorno, ti dà la colpa del morto.

Baia di Sistiana, Trieste, settembre 2012.

Quegli infami ladri degli zingari li desidera picchiare violentemente tantissimo, Brunetto. Indossa il suo usuale giaccone militare, ha soltanto quello, non lavora da sette anni. Prima faceva il rilevatore della Nielsen, classificando e quantificando i prodotti incredibili dei supermercati in Milano e provincia. Questo è un tempo in cui esistevano ancora le provincie. L’Italia è un paese di campanili. Allora lo accompagnavo, la Nielsen lo aveva dotato di una Uno bianca, ma a chilometraggio da dichiarare, e lui staccava il contachilometri, per non vedere che facevamo giri che niente c’entravano con il lavoro. Giravamo e giravamo e giravamo l’Italia settentrionale, un impazzimento, perforando le periferie inappuntabilmente “chimiche”, scrutando l’orizzonte dolce degli “hard discount”, prima che la parola “outlet” avesse un successo così profondo e orizzontale. Una volta siamo arrivati a Pieve Emanuele e abbiamo incrociato il capo di Brunetto che ci ha visto e lo abbiamo picchiato.

Roma, quartiere La Storta, giugno 2014.

Bisogna picchiare gli zingari, anche i rumeni acquattati nell’area dell’ex Macello di Milano vorrebbero picchiarli ma non ce la fanno, gli zingari spadroneggiano come vogliono in tutta Milano sud e non c’è niente da fare, pare, a meno che non si sia mezzi fascisti e mezzi comunisti come il mio amico enorme, taurino, rotto all’esperienza. Non credo abbia mai ucciso. Hanno trovato impiccato un rumeno sfregiato verso l’Ortomercato, il caso è stato chiuso come suicidio, invece erano gli zingari ad averlo ammazzato, ma nemmeno questo era vero: erano stati i rumeni stessi, quelli di via Ripamonti, il tizio aveva sgarrato e non era nemmeno questione di palline di speed o di eroina o di roba, erano “Cazzi dei Carpazi” mi avevano detto nel cortile delle case popolari in viale Molise, al 45.

Il campo degli zingari sta sotto l’ineffabile inceneritore che brucia la spazzatura di Milano: sta lì, si erge, svetta, è colossale, sembra una favola di Rodari a cui abbiano aggiunto lsd e follia piranesiana, sta sempre a bruciare, è stato fatto per quello e lo fa sempre, a ogni ora, nella notte vediamo da lontano il fuoco fatuo di questo meccanismo che strema l’aria, bruciando, arrossando lo skyline, molto prima che erigano il mostro della torre Unicredit, vanto di Milano nel 2015 all’Expo, dove adesso girano tutti i film a Milano, l’ha comprata il Qatar: uno stato ha comprato un grattacielo di Milano, nemmeno molto alto, è alto perché gli hanno fissato in cima un’antenna, con un elicottero. Recentemente, nel 2000, sono arrivati con un elicottero a fare un’operazione antimafia qua dove camminiamo verso l’inceneritore, alla città annonaria, dove mostri sacri che conosciamo per nome e anagrafe penitenziaria scaricano le merci che voi mangiate a Siracusa sotto domopack e polistirolo.

Il cantiere del Tav sotto i piloni dell’autostrada del Frejus a Chiomonte, Torino, ottobre 2012.

Comunque la moto non c’è, poi la scopriamo, hanno riempito il serbatoio di terra, è irrecuperabile, allora Bruno vede la Bmw, si fa dare le chiavi, ci monta sopra, la ruba, ma ci avvertono: non vanno i freni.

Così abbiamo deciso di partire, di lanciarci a una velocità per cui non eravamo nati, squassando i nostri corpi, di me e dell’Italia, verso sud.

L’Italia fa schifo, come tutto del resto. Vai in Maine e fa schifo, vai in Bielorussia e fa schifo, vai a Teheran, a Dubai, a Shanghai, a Ouagadougou, a Spalato, a Helsinki e Glasgow, a San Paolo e a Baires, a Rotterdam soprattutto: fa tutto schifo. L’agnosia umana ha tradotto in fenditure del territorio il suo feticismo antico, quello sviluppato in direzione di una felicità colma di bonomia, una specie di cristianesimo senza Dio e con la Terra e il Mare e il Cielo al posto della Trinità. Hanno fatto di tutto, queste formiche raggelanti, ovverosia gli umani, per indicare a se stessi che si sta per finire e quindi ci si deve spostare, andare via. L’umano è monito a se stesso, dice a stesso: vai via.

Matera, 2014.

Ecco che finisce tutto, fa tutto schifo, si è lavorato alacremente perché ci facesse schifo e adesso ci stiamo, non andiamo, via, da nessuna parte, viviamo nel terrore che ci provoca lo schifo. Il ribrezzo è una forma di filosofia.

Negli anni in cui frequentavo le elementari era la questione atomica. Tutto nasceva ed evaporava all’ombra della Bomba, quasi che la Bomba fosse scoppiata, mentre stava lì, missili e missili bianchi e snellissimi nei silos sotterranei che puntavano verso Mosca o verso Washington certi ordigni più tozzi e grigioscuri, tipicamente colore di Oltrecortina, mentre la balbuzie di Brežnev terrorizzava alla radio i nostri genitori la domenica a pranzo, nella mia casa comunista dove la parola del Segretario Generale del Pcus è un verbo per nulla malcerto eppure criticabile, in forza della corrente movimentista ingraiana che apprezza lo strappo all’Urss.

La radio eietta cifre mostruose: sono i corpi ritrovati dei morti di overdose. Cifre colossali, mezzo fasciste e mezzo comuniste. La Fiat e la carenza di petrolio, la prima grande vasta atmosferica austerità italiana, indotta dopo millenni di austerità spontanea.

Avvertivo mio padre che Berlinguer non era strategico a implementare le scelte democratico-cristiane verso l’austerità, il Partito comunista avrebbe pagato in termini elettorali quanto decideva autoritariamente il governo di Andreotti, un uomo silente potentissimo che sa tutto, continua a sapere tutto, se parla lui viene giù l’Europa, e poi quando muore nel 2013 sta nemmeno due giorni sui siti dei giornali online, molto meno, per dire, dell’avvocato Gianni Agnelli, quando morì lavoravo in un sito online di un giornale di satira ed eravamo indecisi se titolare per la morte dell’avvocato Agnelli “Si è spento come una Duna” o “Questa volta la cassa non è d’integrazione”.

Negrar, Verona, 2014.

In quegli anni mi trascinarono in questo comune ligure, Monterosso, a prendere un gelato, dopo file e file in autostrada di auto tutte Fiat, tutte 850 con la carrozzeria beige e i sedili in finta pelle rossi, senza la minima precauzione che assicurasse una salvezza monca e tetraplegica dopo un incidente: niente cinture e niente airbag. Scorgevo casematte rossastre e palazzacci di bianco cemento, i limoneti dove erano? Mia sorella desiderava assaporare quel gelato a Monterosso e mio padre guidava impiegatizio con le basette lunghe e il borsello lasciato dietro dove eravamo seduti su nessun seggiolino di sicurezza noi bambini. La madre perdeva lo sguardo tra i dolci declivi a ulivi e vivide e roride campagne da cui esalavano fumo e polimeri dai letami inchimichiti.

Questo posto detto Cinque Terre non esercitava alcun fascino su di me, pochi anni e tanto scetticismo accumulato in modo prodigioso, uno scandalo della pedagogia comunista e anticattolica. Ero figlio dello stato, questo era certo a tutti. Quale stato? Questo stato. Questa marcescenza di qualcosa che intuisco antichissimo, forse addirittura più che antichissimo: arcaico, cioè brutale. C’è qualcosa di violento, della violenza non degli uomini bensì dello scontro tra corpi celesti nello spazio ultranero in cui non si propagano onde sonore, qui, in Italia. Qui in Italia non si propagano onde sonore, se non controllate dallo stratagemma ideologico, che sia ecclesiale o politico poco mi importava.

O patria mia, vedo le mura e gli archi e le colonne e i simulacri e le torri dell’Unicredit. Ma la gloria non vedo, non vedo Laura o Petrarca, solo il ferro di cui erano carichi i nostri padri antichi.

Barletta, Bari, ottobre 2012.

C’è un legame nascosto tra antropologia e paesaggio, che si ostina a celarsi nella piena evidenza del fatto arcaico e brutale, il fatto primario ed evidente: noi ci spingiamo fuori, nello spazio profondo, devastando il nostro ambiente di provenienza. Noi spacchiamo tutto, lordando di grassi polinsaturi e fluidi inimmaginabili, puteolenti, petrolii, liquefazioni organiche: usciamo così dall’utero, a questa velocità, lanciatissimi, e qualcuno fuori di noi valuta il fenomeno, sa e giudica odore e consistenza e infamia in cui consiste la nostra nascita. Le stanze parto erano penetrali altissimi e oscuri, quasi templari, a cui era interdetto l’accesso a uomini con le basette lunghe che fumavano nervosamente stando fuori della porta, davanti al tempio, profani: questo accadeva, quando nascevo io.

Quando nascevo io, in quell’istante precisamente a Milano dove ero impegnato a nascere, esplodeva la Banca dell’Agricoltura: non vi dico le macerie, il fumo del dopobomba, le crisalidi svuotate dei corpi, le larve persistenti dei fantasmi che fino al 2010 avrebbero inquietato i sonni italiani, per poi essere dimenticate, nel grande velocissimo salto antropico che è stato compiuto qui, in Italia, per la prima e ultima volta nel pianeta, in cinque anni appena, appostandoci noi italiani, noi autentico paesaggio italiano, in una posizione di irraggiungibile avanguardia, poiché eravamo veramente i più antichi, i più anticamente approdati a questa civiltà che abbiamo battezzato, questo spreco occidentale che l’industrializzazione ha gestato e la scienza umana nel novecento ha partorito qui: tra le pecore bianche nelle periferie romane, tra le profezie facili e dunque per nulla profezie che pronunciò il poeta sfigurato all’Idroscalo romano, un posto di merda che continua a ottenere rappresentazione e sfarzo nella cinematografia nostrana e occidentale, quel corpo martoriato e spugnoso di sangue e ossa spugnose, quegli schizzi di muco e fango e i capelli lucidi e unti di una mummia sotto teca nella memoria che non passa, se è trascolorata piazza Fontana è ancora vivida e rorida la memoria di quel cadavere con dei jeans a chiazzare la polvere povera e suburbana.

Noi scrittori italiani non dobbiamo invece distruggere niente, poiché nasciamo che tutto è già distrutto.

Porto Potenza Picena, Macerata, ottobre 2012.

Ora devo scusarmi. Con i lettori di Internazionale devo scusarmi, con chi mi ha commissionato questo “articolo online”. Mi devo scusare di quelli che appariranno o sono apparsi come: lirismi, sfoghi, linguificazioni, neologismi, espressionismi, stile, rudimentalità, folkloriche e naif, istanze personali, steatosi, imprecisioni, parallelismi impropri. Improprietà. Me ne scuso, dunque. Giuro che ho studiato bene le foto morali di Angelo Antolino. Le ho studiate: quelle concrezioni umane in mezzo a ciò che sarebbe natura, la dolce natura italiana che scompare come un’Amazzonia.

Posso, se si vuole, denunciare l’abuso e la scomparsa dei boschi cedui, dei cedri, dei fichi che si adagiavano verso l’agave quando vedevo Levanzo sfarsi in lontananza, in un’infanzia non soltanto mia nei dintorni di Marsala, tra le carcasse dolcisatre e quasi biscottate dei cani morti nelle campagne, verso i carrubi e il pozzo d’acqua dove si recavano le donne ancora negli anni sessanta del secolo scorso, nate insieme ai nonni e agli zii, lì in Sicilia, dove mezzo paese poteva rischiare la galera per contrabbando un tempo e, forse, per mafia in un altro tempo.

Non la rischia, la galera: è tutta finzione, tranne quella visione azzurrina dell’isola delle Egadi scendendo il carruggio verso lo zio Totò, che di mestiere un tempo pelava i fichi d’India e rivendeva uova sode nelle campagne dove lavoravano i vigneti torti, strappavano la veccia, eventualmente.

Devo scusarmi, dunque, per l’ambiguità: questa cifra precipua dell’italianità, questo suo paesaggio intimo, questa eterna Campaldino in cui si combatte e baratta, dove sorse la lingua del sì più dolce, del tintinnìo e della fregola, della bistecca e del plumbeo duce che dice. Questo ammantarsi nel paese che amo e detesto, Italia, di lingua sui declivi di ulivi immaginari e veri: io non so dirlo che così.

Scusatemi tutti.

Ps. Le citazioni iniziali su Liguria e Sicilia sono da Eugenio Montale e Giuseppe Consolo: si scusino loro, se vogliono.

Le foto dell’articolo fanno parte del progetto Souvenir d’Italie_, di Angelo Antolino, che documenta la cementificazione italiana del paesaggio agricolo e le sue conseguenze sul piano economico e ambientale. Il reportage è stato realizzato tra il 2012 e il 2014._

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