Il ritorno di Journey, che sta ai videogiochi come Quarto potere sta al cinema
Quando è uscito la prima volta tre anni fa, Journey era il gioco del momento. Eppure per molte ragioni non aveva niente del “grande gioco”. Nel mercato videoludico si parla di giochi AAA (dicendo “tripla a”) per definire quei titoli che trainano economicamente il mercato e hanno più successo degli altri. Capita a volte che giochi AAA, cioè titoli importanti per sforzo produttivo, si risolvano in un flop disastroso. È abbastanza raro, come nel cinema hollywoodiano, perché questi sono mercati solidi e corazzati, ma succede.
Quello che è certo è che in genere i titoli importanti, quelli che cambiano gli equilibri economici, escono nei punti nevralgici dell’anno, a ridosso del Natale o intorno alla fine delle scuole, e appartengono ai generi più amati e frequentati, cioè sportivi, di combattimento o d’azione. Journey è uscito a marzo, in quello spazio in cui stanno le produzioni piccole o medie che fanno di tutto per evitare l’ombra dei colossi.
Per quanto sia stato un buon successo, il gioco ha avuto un’importanza che è andata ben oltre il piano economico. È un fenomeno, questo, tipico delle industrie culturali sane: un suono elettronico nuovo ed innovativo nasce in uno studio di registrazione a Oslo, piace agli appassionati a Berlino per un anno, finisce in classifica a Londra dopo altri sei mesi, e dopo un altro annetto c’è un singolo italiano in classifica che lo incorpora. Journey, appena uscito in versione rimasterizzata per PS4, è un caso di piccolo gioco indipendente più influente di un blockbuster. Quarto potere di Orson Welles, il film del 1941 che per alcuni cambiò la faccia al cinema, quando uscì non piacque molto. Agli Oscar vinse solo per la sceneggiatura. Com’era verde la mia valle, un solido western di John Ford come ce ne sono molti altri, trionfò e portò a casa cinque statuette.
Thatgamecompany è uno studio videoludico piccolo, un ufficio con vista parcheggio a Santa Monica, capitanato da Xinghan Chen (陈星汉, Shanghai, 1981), che cambia nome in Jenova dopo essersi trasferito negli Stati Uniti per studiare. Jenova Chen, appena arrivato, vince una borsa della University of Southern California per realizzare il primo progetto. Poi fonda lo studio con la compagna di corso Kellee Santiago e si assicura un contratto con la Sony per tre titoli.
Quella dei videogiochi è un’industria piena di straordinari artigiani. A volte tra loro ci sono degli artisti. Se non si perdono in loro stessi, spesso sono quelli che cambiano le cose. Jenova Chen è ambizioso, geniale, sfrontato, ma senza la sbruffoneria degli occidentali dello stesso tipo. Ha il tipo di determinazione consapevole che molti attribuiscono agli immigrati cinesi: quell’idea per cui tantissimo lavoro è comunque previsto per chiunque, e quello che cambia è solo l’applicazione.
Il suo primo gioco sviluppato all’università, Cloud, è figlio di un periodo di problemi di salute, con ricovero ospedaliero lungo e noioso nel quale immaginava di poter decollare con il letto e sorvolare la città, invece di stare chiuso in camera. Flow è un balletto bidimensionale in ambiente fluido, una sinfonia di microorganismi che ha il suo successo ma resta solo una bella stranezza.
Con Flower si comincia a parlare molto di Thatgamecompany: è un gioco in cui si interpreta il ruolo di un petalo sospinto da un refolo di vento, il cui scopo è quello di liberare la periferia di una città schiacciata dall’inquinamento, far sbocciare i fiori volando sulle loro corolle e riportare la vita dove c’era il grigio. Facile e sostanzialmente svincolato da qualsiasi idea di punteggio, livello o vittoria, Flower colpisce soprattutto perché apre prospettive emotive nuove per il linguaggio dei videogiochi.
I videogiochi sono spesso esperienze lunghe e complesse che offrono sfumature sfaccettate, ma quello che Jenova ha sempre sostenuto in tutte le sue presentazioni è vero: della tavolozza emotiva che l’uomo può vivere, i videogiochi frequentano solo pochissimi stati d’animo. Certamente c’è il cimento, la voglia di mettersi in gioco e vivere il senso di frustrazione dato dai fallimenti e la soddisfazione per ogni piccolo risultato nel risolvere un’avventura; c’è l’agonismo negli scontri con l’avversario, vero o artificiale che sia, così come la voglia di vincere e dimostrarsi migliori; c’è la paura degli horror, la voglia di combattere per sopravvivere con tutta la catarsi del caso. Il resto, tutte le altre cose che nella vita proviamo, è tendenzialmente ignorato. Nei giochi di Thatgamecompany non c’è il punteggio, i tasti da usare sono uno o al massimo due, il nome è una parola sola, e tutto è pensato perché il giocatore ci s’immerga completamente, senza aspettarsi niente di noto e prevedibile. Jenova Chen vuole occuparsi di altri sentimenti, altri stati d’animo, che gli altri non sanno evocare.
Per il suo quarto titolo, Chen studia narratologia e antropologia. L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell gli serve per capire come siano stati rappresentati dall’uomo i riferimenti, i modelli. Approfondisce anche il tema della struttura dei racconti in tre atti. Vuole fare qualcosa di classico, legato agli archetipi, partendo da uno spunto che gli viene dall’avere letto delle interviste fatte ad astronauti che sono stati nello spazio e in particolare sulla Luna. Si è accorto che qualcosa dello stare soli nel vuoto e vedere la Terra da lì cambia le persone nel profondo: quando tornano a casa, gli astronauti parlano di fratellanza e aprono fondazioni che si occupano di beneficenza. Perché? Jenova si rende conto che nessun gioco ha mai pensato di concentrarsi sul senso di piccolezza e leggerezza, umiltà, timore e fascino che dà il muoversi in spazi immensi e vuoti, enormemente più grandi di noi, soli. Nessuno saluta mai uno sconosciuto per strada a New York, ma se incroci qualcuno mentre stai facendo una passeggiata in montagna non puoi non salutare. Perché? Journey, il prodotto di questi ragionamenti e questi studi, è la storia di un viaggio mitico alla ricerca delle proprie origini, in cui il percorso diventa la vita e l’esperienza è storia collettiva.
Il protagonista di Journey è una figura di cui non si riconoscono i lineamenti. Ha una mantella che somiglia a una veste tuareg, ma dal volto non se ne riconosce il sesso, l’età, la provenienza. Siamo letteralmente tutti noi. Muovendosi tra le rovine di una civiltà che sembra estinta, si risale verso una montagna da cui sembra essere cominciato tutto, attraverso deserti, vallate, spazi immensi popolati a tratti da piccole creature volanti, esseri a metà tra i delfini e gli aquiloni con cui si può interagire. Ma soprattutto per la gran parte del tempo in Journey si cammina in spazi deserti, e lo si fa da soli. Non sempre e non del tutto, però. Journey è il primo gioco a prevedere un contatto con uno sconosciuto, proprio come l’escursionista di montagna, ma completamente diverso rispetto al tipo di interazione che si ha con altri nei giochi online. Qui non si può interagire in chat, non si chiacchiera, non si conosce l’identità dell’altro: ci si incontra, si fa un pezzo di strada assieme, si “parla” con il linguaggio dei movimenti, e poi ci si perde nel tragitto.
L’esperienza di Journey dura poco più di un film, ma per chi se la prende molto comoda può arrivare fino a cinque ore circa. Durante il gioco non ci si sente mai dei campioni di nulla, ma spesso si è contenti, presi da quella leggera euforia della scoperta di quando si va a fare una passeggiata in un bosco e si trova un corso d’acqua dove rinfrescare i piedi. A tratti si sperimenta il senso del sublime secondo i latini, cioè l’idea del sollevarsi da terra, sentirsi leggeri e pronti alla vita. C’è un momento in cui si attraversano le dune di sabbia rosa accompagnati degli aquiloni che vorresti durasse giorni, e invece dura il tempo perfetto per non permetterti di farci l’abitudine. C’è una planata giù dalla montagna sulla sabbia color bronzo al tramonto dove si sorride senza poterne fare a meno, sopraffatti dalla bellezza. Ognuno ha dei propri momenti preferiti, a seconda dello stato d’animo.
Non si sa niente del prossimo gioco di Jenova Chen: prima o poi tornerà, e se non si è perso per strada avrà grandi cose da farci vedere. Thatgamecompany intanto si è svuotata. La cofondatrice Kellee Santiago è andata a fare altro. L’artista che ha disegnato Journey, Matt Nava, sta finendo Abzû, una fascinosa variazione sul tema in ambiente subacqueo, tra banchi di pesce, tartarughe e squali bianchi, che sarà pubblicata dall’italiana 505 Games.
Ora è tornato per PS4 Journey, che rimane una delle cose più stupefacenti successe al linguaggio dei videogiochi negli ultimi anni. Chi conosce quello che è uscito nel frattempo sa quanto ampia sia già stata l’influenza di questo gioco, anche in prodotti apparentemente molto distanti (l’apocalisse di zombi The last of us, per citarne uno). Fatto da soli è splendido, e vive di un gusto preciso, puro, per come è stato pensato. Ma se volete accompagnare qualcuno che in genere non prende nemmeno in mano il pad, spegnete i cellulari e la luce, mettetevi comodi e concedetevi questa passeggiata insieme.