Tirana underground
Al culmine della paranoia per l’invasione da parte di un imprecisato nemico straniero, l’Albania comunista degli anni settanta si riempì di centinaia di migliaia di bunker. Costruiti in cemento armato e capaci di ospitare al loro interno tre, quattro, cinque persone si diffusero come un’epidemia in tutto il paese. Furono costruiti con l’aiuto della Cina, ai bordi delle periferie cittadine, lungo le strade e i sentieri di campagna, nei villaggi di montagna e in quelli di pianura, vicini alla costa adriatica. A quei tempi era molto nota la massima del dittatore albanese Enver Hoxha: “Tutto il mondo deve sapere che in Albania e in Cina vive un miliardo di comunisti”.
Il “processo di bunkerizzazione” voluto dallo stesso dittatore rispondeva alla “necessità prioritaria” di difendersi da un imminente attacco dell’imperialismo occidentale (in primo luogo dell’Italia, che durante il fascismo aveva occupato il paese) o del cosiddetto blocco socialimperialista, (cioè i paesi dell’Europa orientale aderenti al patto di Varsavia e legati all’Unione Sovietica).
Oggi simili definizioni possono far sorridere. Ma c’è stato un periodo, negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, in cui un piccolo paese balcanico fu letteralmente segregato all’interno dei suoi confini. Negli stessi anni in cui la stesura della nuova costituzione albanese sanciva l’istituzione dell’ateismo di Stato, Hoxha decise di interrompere qualsiasi relazione con l’esterno nell’intento di preservare il suo piccolo paradiso socialista dalla pur minima influenza straniera.
Dopo aver rotto con l’occidente e la confinante Jugoslavia di Tito, ruppe nei primi anni sessanta anche con l’Urss di Chruščëv e i paesi dell’est perché ritenuti troppo riformisti. Dopo la breve fase maoista, alla metà degli anni settanta si affievolirono le relazioni con la stessa Cina che aveva abbandonato la “rivoluzione culturale” e si era avviata, dopo la morte del grande timoniere Mao Tse-tung, verso le riforme di Deng Xiaoping.
Ossessione a parte, il “processo di bunkerizzazione” ebbe l’effetto pratico di ricordare, ogni giorno, a un intero popolo di tre milioni di abitanti di essere finito all’interno di un immenso gulag. Dopo la caduta del regime, nel 1991, i bunker furono presi a picconate. Furono ridotti in macerie non solo per cancellare il segno più tangibile della passata oppressione, ma soprattutto per estrarre l’acciaio contenuto nelle loro pareti.
Anno dopo anno, quelle centinaia di migliaia di casupole dal tetto tondeggiante sono scomparse dalle città e dai villaggi albanesi, dalle montagne e dalle coste. In tutta la capitale se ne conserva solo uno, a futura memoria, davanti al palazzo del governo. Sorge in mezzo a un’aiuola verde e nel caos del traffico cittadino sembra essere stato scaraventato lì da un’altra galassia.
In quei sei anni fu scavata una sorta di piramide egizia che avrebbe riprodotto, in un mondo rovesciato, la struttura portante del potere albanese
Il Grande Bunker
Se il popolo avrebbe potuto trovare riparo nei bunker lillipuziani disseminati in ogni strada o viottolo di campagna, la nomenclatura stretta intorno alla guida del partito avrebbe trovato invece la sua salvezza nel Bunker, quello con l’iniziale maiuscola. Poche cose come la storia della sua costruzione rendono l’idea dell’intreccio tra paranoia, megalomania sfrenata e terrore ideologico che ha stretto a sé l’Albania degli anni settanta.
Il Bunker fu costruito tra il 1972 e il 1978. Ma non fu edificato alla luce del sole, né sarebbe stato la versione gigante dei piccoli bunker per la gente comune.
Fu scavato sotto una delle ripide colline che dividono la città di Tirana dal monte Dajti alle sue spalle. A differenza di tutti gli altri, che erano sostanzialmente dei presidi difensivi a prova di bombardamento, il Bunker fu pensato come un vero rifugio antiatomico in grado di ospitare – sotto il manto verde che cinge le estreme propaggini della città – tutti membri del politburo, i deputati dell’assemblea del popolo, i vertici delle forze armate.
In quei sei anni la dirigenza fece scavare una sorta di piramide egizia sotto i piedi della montagna. Tremila metri quadri di stanze, cunicoli, corridoi, sale, appartamentini divisi su cinque piani e tesi a riprodurre – in quel mondo rovesciato e asfittico – la struttura portante del potere albanese. Al vertice del Bunker, come una sorta di occhio di dio degli abissi ci sarebbe stato infatti l’appartamento riservato al dittatore Enver Hoxha. Al di sotto, quello riservato a Mehmet Shehu, il delfino. E così via, di carica in carica. L’idea non era solo quella di salvaguardare l’esistenza di un ceto dirigente, ma permettergli di continuare a operare, per mesi o per anni, lontani dal sole e dall’aria fresca, secondo le sue rigide e invariate geometrie. Una specie di Underground ante litteram, pienamente realizzato.
L’idea sarebbe stata di un gruppo di generali che avevano visitato un rifugio antiatomico costruito in Corea del Nord.
Il Bunker fu inaugurato alla fine degli anni settanta, ma pare che Enver Hoxha non abbia mai dormito al suo interno. Neanche per una sola notte. Nell’arco di tredici anni, fu usato solo per alcune esercitazioni dell’esercito.
Poi, alla caduta del regime nel 1991 (Hoxha era già morto nel 1985), il Bunker fu sigillato come una vecchia cantina. Chiusero la porta d’accesso in cemento armato, spessa oltre un metro, e quel sottomondo coreano a due passi dall’Adriatico piombò nell’oscurità più assoluta.
Poco alla volta se ne dimenticarono tutti, anche chi aveva occupato le nuove stanze del potere negli anni della transizione postcomunista. Per oltre vent’anni il Bunker è rimasto come congelato, senza che nessuno ci mettesse piede.
Ora è stato restaurato, trasformato in una sorta di monumento al totalitarismo e aperto al pubblico per un numero limitato di giorni tra il novembre e il dicembre del 2014 e durante il recente festival delle arti, Tirana Open, in attesa che l’esposizione diventi permanente. Lo hanno ribattezzato Bunk’Art.
Ho potuto visitarlo nei giorni del festival che si è tenuto a maggio, insieme a un gruppo di scrittori e artisti invitati alla rassegna.
In auto ci si mette circa un quarto d’ora dal centro della città. Subito dopo le ultime case di periferia, la strada si inerpica lungo la collina. Poi comincia la zona militarizzata, l’ultimo tratto l’abbiamo percorso a piedi. Per raggiungere l’ingresso del Bunker abbiamo dovuto superare due posti di controllo dell’esercito.
Dentro il Bunker
La porta d’accesso spunta all’improvviso dietro gli alberi, aperta su una parete verticale di tufo scurito.
Una volta dentro, dopo aver oltrepassato due piccole stanze in cui erano installate le docce che avrebbero dovuto purificare i membri del politiburo dalle radiazioni, si è subito risucchiati da un lungo corridoio che corre dentro la collina. Alto, stretto, illuminato da una luce innaturale. I muri sono bianchissimi. “Sono stati riportati al bianco originario”, dice la guida, un ragazzo robusto, dai capelli castani tagliati a spazzola e la voce squillante. Parla un italiano fluente.
Lungo la parete del primo corridoio la scritta Bunk’Art è seguita da un logo: un mezzo cerchio che racchiude tutti i colori dell’arcobaleno con al centro una stella rossa.
Più o meno a metà del corridoio, entriamo nell’appartamento di Enver Hoxha, rimasto praticamente identico a quando il Bunker fu ultimato nel 1978.
Le stanze per il dittatore sembrano essere state concepite come un punto medio tra un rifugio di guerra spartano (quale effettivamente doveva essere) e un appartamentino piccoloborghese arredato nello stile della vecchia Repubblica Democratica Tedesca (a cui si rifaceva probabilmente l’immaginario dei suoi architetti).
In caso di attacco termonucleare, la prima stanza sarebbe stata riservata al suo segretario personale. Si sarebbe seduto davanti a un piccolo tavolino con un enorme telefono nero, con il quale avrebbe potuto chiamare non si capisce chi, dal momento che tutto il gruppo dirigente del partito sarebbe stato interrato lungo i cinque piani sotterranei.
Subito dopo ci sono le due stanze private del dittatore. I pavimenti sono rossi. Nella prima, la più grande, spuntano due poltroncine squadrate, tappezzate di stoffa rosa, rossa e beige, davanti a un tavolino spesso di legno marrone scuro. Sopra è adagiato un posacenere di vetro dozzinale. In fondo alla stanza ci sono una scrivania dello stesso legno e dello stesso colore del tavolino, e una poltrona più o meno simile a quelle del piccolo salotto, ma più scura, quasi color vinaccia, e più imbottita.
Sulla parete più vicina alle poltrone e alla scrivania è stata attaccata una cartina geografica dell’Albania alta due metri e larga uno. Davanti all’altra è stata posta una piccola libreria con le ante di vetro. Ci sono solo due volumi dalla copertina rigida che raccolgono le traduzioni in albanese delle tragedie di Shakespeare. Pur chiedendolo alla guida che ci accompagna, non sono riuscito a capire se quei libri erano stati voluti dallo stesso Hoxha o siano stati messi lì a caso.
Sopra la piccola libreria è appeso un ritratto in bianco e nero del dittatore ai tempi della guerra partigiana che liberò il paese dall’occupazione nazista. La cravatta e la camicia bianca sotto la divisa militare, i capelli corti pettinati all’indietro sulla faccia rotonda, lo sguardo fisso in macchina. È ancora molto giovane. La foto è stata scattata almeno tre decenni prima dell’ideazione del Bunker, quando un Hoxha ormai invecchiato e roso da mille sospetti si avviava ai suoi ultimi anni di vita.
La stanza in fondo è occupata da un letto a due piazze coperto da una trapunta rossa e da un piccolo comodino accanto al lato destro.
Le pareti dell’intero appartamento sono ricoperte da un sottile strato di legno giallognolo. In un angolo della seconda stanza lo strato è stato eliminato per permettere ai visitatori di vedere di che impasto era fatto il guscio che avrebbe dovuto proteggere il padre della nazione. “Un misto di cemento, piombo e vetro, in grado di arginare le radiazioni”, dice la guida con lo sguardo serio, come se un attacco di simili proporzioni potesse realizzarsi da lì a poco.
Usciti nuovamente nel corridoio, ci addentriamo nelle viscere del Bunker. Le stanze che si susseguono, un centinaio in tutto, appaiono più piccole. Per la mostra sono state riempite di foto, cartine del paese e cimeli d’epoca che ricordano le varie fasi della storia nazionale: l’indipendenza dagli ottomani, l’occupazione fascista e nazista, la guerra di liberazione, la dittatura comunista.
Nelle stanze riservate al fascismo, a parte la vecchia insegna di una strada della capitale su cui è scritto “Rruga Konti Çiano” (via Conte Ciano), ci sono alcune bandiere dell’Albania fascista: l’aquila bicipite su sfondo rosso è circondata da due fasci di combattimento.
Tutto è scarno, semplice, austero, oltre che lievemente surreale. Ma il pezzo forte è la sala riservata all’assemblea del popolo
Nelle stanze riservate alla guerra partigiana, sono invece esposte alle pareti decine di foto degli eroi della resistenza, in gran parte mandati in un gulag o davanti a un plotone d’esecuzione dallo stesso Hoxha molti anni dopo aver consolidato il suo potere, se non erano stati a loro tempo fucilati dai fascisti o dai nazisti.
Tra queste spunta anche un ritratto di Nexhmije Xhuglini, la compagna e poi moglie del dittatore, e secondo molti la vera mente del regime, specie negli anni di demenza senile di Hoxha e subito dopo la sua morte avvenuta nel 1985.
Ma nella foto che la ritrae alla metà degli anni quaranta è solo una bellissima ragazza dai capelli scuri, le labbra carnose e lo sguardo velato da un misto di tristezza e orgoglio, in tutto e per tutto simile a tante ragazze che come lei sono salite sui monti in Italia o in Jugoslavia durante la guerra partigiana.
Dopo una serie interminabile di stanze, cunicoli e nuovi corridoi, scendiamo al piano inferiore al precedente ed entriamo in un altro piccolo appartamento identico a quello di Enver Hoxha. La prima impressione è quella di essere ritornati al punto di partenza, in un gioco di specchi in cui ogni stanza è apparentemente uguale a se stessa, salvo piccolissime differenze, come in un film di David Lynch.
Le poltrone sono simili, anche se tendono al verde e sono meno imbottite. Il tavolo della scrivania marrone è lo stesso di Hoxha, e così il ritratto del dittatore che questa volta troneggia alle spalle della scrivania e non sopra l’ultimo scaffale della libreria. La camera da letto è identica. Identico il comodino, identica la spalliera. Cambia solo il colore della trapunta, questa volta è blu.
“Questo era l’appartamento di Mehmet Shehu”, tuona la guida alle mie spalle. È quasi sovrapponibile al precedente, anche se penso subito all’effetto che avrebbe potuto avere sul delfino in clausura guardare fisso negli occhi, in ogni istante, il ritratto del padre-padrone della rivoluzione. “L’unica cosa che cambia è il materiale utilizzato per proteggere le sue stanze. Le pareti dell’appartamento di Mehmet Shehu sono fatte solo di cemento. Non ci sono il piombo e il vetro.”
Effettivamente mi rendo conto che sono proprio le pareti a costituire la grande differenza tra i due appartamenti: queste sono ricoperte da fascine di legno scuro verticali, mentre nell’altro un sottile strato giallognolo copre il diaframma ultraresistente a ogni radiazione. Un po’ come nella Fattoria degli animali di George Orwell, tutti i membri del politburo sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.
Scendiamo di un altro piano. Dopo altre stanze occupate da vecchi aggeggi radio che avrebbero dovuto stabilire le comunicazioni con l’esterno, arriviamo a una sorta di slargo interno.
È la mensa del rifugio. Ci sono tavoli e panche di fòrmica e, sul lato più lungo, un bancone d’altri tempi in legno chiaro protetto da un vetro. In alto appare la scritta in stampatello, Bufe. Buffet.
Tutto è scarno, semplice, austero, oltre che lievemente surreale. Ma il pezzo forte dell’esposizione, ancora più dello stesso appartamento del dittatore, è costituito dalla sala riservata all’assemblea del popolo.
Vi si accede al terzo piano sotterraneo e, dopo aver percorso l’ultimo stretto corridoio, sembra maestosa. Sarà profonda una trentina di metri. Il pavimento è inclinato verso il basso, e il soffitto è alto almeno otto, nove metri. Più che un’assemblea legislativa scavata sotto la roccia, pare un teatro: le poltroncine rosse sono disposte geometricamente lungo una decina di file orizzontali. Fronteggiano un piccolo palco, sul quale avrebbero potuto prendere posto i membri della segreteria politica del Partito del lavoro.
È questo il vero cuore del Bunker. L’idea che lo sorregge è molto semplice: non occorre solo interrare i vertici del partito, dell’esercito e dell’assemblea, dargli delle stanze e un bufe dove alimentarsi; il fine ultimo è ricreare un vero e proprio parlamento sotterraneo, in cui continuare a riunirsi, sentire i discorsi pronunciati dalla tribuna posta sul palco, annuire, applaudire, unirsi agli slogan di lode al compagno Enver Hoxha o al partito, temere le conseguenze dell’ennesima purga.
Una volta all’aria aperta, mi coglie un senso di liberazione. Non è solo una reazione fisica ai corridoi chiusi e alla luce artificiale. Ho come la sensazione che, stanza dopo stanza, una patina acida si sia sedimentata sui vestiti. Anche la collina verde e disabitata che copre il Bunker mi appare ora irreale, fuori dal tempo, irrimediabilmente mutata. Solo incontrando il frastuono della strada che attraversa la periferia sembra di essere tornati davvero sul pianeta Terra.
Il rapporto con il passato
Il fatto che il Bunker sia stato riaperto ora, dopo essere rimasto chiuso per circa venticinque anni, è il segno che qualcosa sta cambiando nel profondo della società albanese. Non è solo merito del ministero della cultura e del ministero della difesa del nuovo governo di Edi Rama, che hanno fortemente sostenuto il progetto.
Solo dieci anni fa un’operazione del genere sarebbe stata letteralmente impensabile, perché ancora molto complicato, per niente pacificato, era il rapporto con il passato totalitario e soprattutto con la folta schiera di suoi rappresentati trasmigrata nelle istituzioni democratiche.
L’apertura del Bunk’Art, insieme a una serie di iniziative culturali più o meno appariscenti, segna forse l’avvento di una nuova epoca.
È difficile spiegare a chi non c’era come si viveva sotto il totalitarismo. Chi ha avuto la fortuna di non viverlo, difficilmente riuscirà a capire quel particolare miscuglio di repressione e sospetto, generato dalla retorica dominante, dal culto del capo, dalla politicizzazione esasperata della società e allo stesso tempo dal terrore della delazione o di un arresto, dalla paura che la propria vita e quella dei propri famigliari possano andare in fumo dall’oggi al domani… Chi c’era, d’altro canto, difficilmente troverà le parole per farlo, e per rivelare l’essenza di ciò che ha tenuto in piedi quei regimi: non solo il culto del capo e l’efficienza delle polizie segrete, ma anche il consenso della “zona grigia”, del “ventre molle” del paese, finché tutto non è venuto giù.
È avvenuto nelle società postotalitarie uscite dai regimi fascisti, e nei paesi dell’Europa dell’est dopo la caduta del muro di Berlino. È accaduto anche in Albania.
Eppure il rapporto del piccolo paese balcanico con il suo passato totalitario ha assunto un carattere particolare, tale da rendere la sua transizione in parte diversa da quelle degli altri paesi dell’est.
Pur nelle analogie con il panorama totalitario e postotalitario descritto da Václav Havel, Adam Michnik, Norman Manea, Herta Müller eccetera, c’è una specificità albanese che va ancora indagata. Essa nasce innanzitutto dalle peculiarità dell’ultrastalinismo albanese, un regime rimasto pressoché immobile, bloccato, fino alla fine degli anni ottanta.
Come già accennato, al di là dei turbolenti rapporti con Belgrado, le strade dell’Albania e degli altri paesi allora aderenti al patto di Varsavia si separarono ai tempi della destalinizzazione e del ventesimo congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica, il Pcus, nel 1956. Fu allora che Enver Hoxha e i vertici del partito decisero di rompere con l’Urss accusando Chruščëv di revisionismo e di essersi allontanato dalla strada maestra tracciata da Stalin. Tale mossa condannò il paese all’isolamento; ma oggi va forse ricordato che a tale isolamento indirettamente contribuì anche la sinistra filosovietica occidentale (e, in particolare, quella italiana) che, per fedeltà a Mosca, voltò le spalle all’Albania.
L’isolamento fu quindi il prodotto di un reciproco voltarsi le spalle sullo scacchiere ideologico, più che strettamente geopolitico. Le sue conseguenze trasformarono l’Albania in un paese chiuso in sé, che trovò come unica alleata la Cina della rivoluzione culturale, prima che, verso la seconda metà degli anni settanta anche i rapporti tra Cina e Albania cominciassero a raffreddarsi, per interrompersi definitivamente dopo la morte di Mao, nel 1976.
Da allora, fino al crollo del regime nel biennio 1990-91, l’Albania fu difatti una prigione a cielo aperta edificata intorno al culto del capo, Enver Hoxha, che morì solo nel 1985.
Nel film Enveri Yne, realizzato negli ultimi anni di vita della dittatura comunista è possibile osservare, oltre che i canoni estetici dell’ideologia ufficiale, le immagini dei funerali del leader: un paese intero letteralmente si blocca (o, più precisamente, è costretto a bloccarsi per ordini dall’alto) per rendere omaggio al “compagno Enver”. Sembrano immagini degli anni trenta o cinquanta del novecento: sono state girate quattro anni prima dalla caduta del muro.
Intorno alla metà degli anni settanta, proprio quando era in costruzione il Bunker, si abbatterono sull’Albania (e sugli stessi vertici del partito fino allora rimasti fedeli alla guida) una serie di purghe. Non che a Tirana fosse presente una vera dissidenza come a Praga o a Danzica o a Budapest. Semplicemente Hoxha mandò al gulag, o davanti al plotone di esecuzione, coloro che in futuro avrebbero potuto minare il suo potere.
Una delle rare testimonianze di quelle purghe, disponibile in lingua italiana, è il Diario di un intellettuale in un gulag albanese di Fatos Lubonja pubblicato dalla casa editrice calabrese Marco. Nel memoir di Lubonja il racconto della prigionia (dei lavori forzati, dell’annullamento delle proprie vite, della solidarietà tra detenuti politici) si mescola ai ricordi degli anni che hanno preceduto il suo arresto. Lubonja ha scontato 17 anni di carcere, di cui molti nel gulag di Spaç: oltre che essere il figlio di Todi Lubonja, direttore della tv di stato considerato troppo “liberale”, la sua unica colpa è stata quella di aver elencato nei suoi diari privati, nascosti in soffitta, alcune critiche al regime.
Sono tante le vite che si sono spezzate negli anni del carcere, dei lavori forzati, del confino nei villaggi di montagna. Tanti i suicidi, tanti i crolli psicologici. Quasi sempre i “nemici del popolo” erano uomini e donne che avevano fortemente creduto nel partito. E questo, in fondo, è stato il più grave fallimento del socialismo reale: aver distrutto la stessa base che lo aveva realizzato, e aver eliminato sistematicamente tutti coloro che avrebbero potuto contribuire alla sua trasformazione.
A venticinque anni dal crollo, l’Albania contemporanea sembra costruita urbanisticamente, socialmente, culturalmente sulla totale negazione di quel passato, tanto che viene costantemente da chiedersi, ogni volta che si attraversano le strade della capitale, come sia elaborato il suo ricordo.
In tv trasmettono documentari storici, sui giornali si rievocano gli eventi della lotta partigiana e del vecchio regime, spesso sulle terze pagine si parla del dittatore di ieri e dei suoi familiari con la stessa deferenza di un tempo. Ma è difficile capire quanto tutto ciò sia materia di una indagine storica accurata, capace di individuare le cause, i processi, le concatenazioni, al di là delle “colpe” di questo o di quello, spesso utilizzate strumentalmente nell’agone politico.
Già all’indomani della caduta del regime (di fronte al solito dilemma tra epurazione e amnistia), Lubonja scrisse che sarebbe stato impossibile applicare alla lettera il diritto, riparando ogni torto subìto. L’Albania si sarebbe trasformata in un tribunale e le carceri si sarebbero riempite di un numero di detenuti maggiore che ai tempi di Hoxha. Ciò sarebbe stato inevitabile in un paese totalmente inglobato nella dittatura…
Oggi che la politica sembra aver archiviato la stagione di Sali Berisha (l’uomo forte della transizione, il fondatore del Partito democratico), e che il paese ha ottenuto lo status di candidato all’ingresso nell’Ue, sembra cominciata una nuova stagione. Mentre la scelta tra amnistiare o emendare è rimasta sostanzialmente in sospeso, si è creata una frattura generazionale.
Chi oggi ha vent’anni inevitabilmente è venuto dopo. È nato dopo l’abbattimento della statua di Enver Hoxha in piazza Skanderbeg il 20 febbraio del 1991, evento che segnò la caduta del regime.
È nato dopo l’approdo della Vlora nel porto di Bari nell’agosto dello stesso anno, culmine dell’esodo verso le coste italiane rievocato nei film La nave dolce di Daniele Vicari e Anija di Roland Sejko. Per questo, nel dialogo tra chi ha vissuto il “prima” e chi è nato “dopo”, diventa cruciale imparare a maneggiare la consapevolezza storica.
Un nuovo festival
A maggio, negli stessi giorni in cui ho potuto visitare il Bunker, si è svolto il Tirana open, festival di arte, cinema, teatro, musica, letteratura, che ha popolato una serie di palazzi ubicati nella zona dell’università e dell’accademia delle arti, cioè in quella parte della capitale che, ideata dal fascismo, riproduce l’Eur di Roma in scala ridotta, con i suoi colonnati bianchi e il suo razionalismo, poi rielaborato dallo stesso regime comunista.
La consapevolezza che sia del tutto inevitabile, oltre che necessario, fare i conti con le macerie della storia emerge già nell’incipit del testo di presentazione del festival, scritto dai direttori Helidon Gjergji, Vladimir Myrtezai-Grosha e Arlinda Dudaj:
Tirana, vecchio centro romano, avamposto ottomano, archetipo del Novecento italiano, sogno utopico del fascismo, esempio di brutalismo staliniano e infine modello di una (non) architettura contemporanea impazzita, appena bilanciata da un’impressionante forma di sviluppo urbano alternativo, ha storicamente e simultaneamente abbracciato tutto questo, ma non si è mai innamorata di nessuna delle sue facce in particolare
In questo crocevia di pluralità storiche e urbanistiche, l’obiettivo di molti scrittori e artisti dell’Albania contemporanea non è solo quello di essere consapevoli di dove si mettono i piedi quando si cammina per le strade della città, ma anche quello di provare a creare, all’interno degli anfratti che si aprono ai bordi di quelle medesime strade, delle piccole isole libere che si sottraggano a quella che Gjergji, Myrtezai-Grosha e Dudaj definiscono una “(non) architettura contemporanea impazzita”.
Oggi sul banco degli imputati c’è lo stravolgimento urbanistico della città. Il superamento delle “scatole di fiammiferi” ha spesso coinciso con la costruzione di case su case, palazzi su palazzi, in barba alle regole più elementari. Ora, per molti, è arrivato il tempo non solo di emendare gli scempi maggiori, ma di convivere diversamente con molti dei relitti di ieri che continuano a galleggiare nel nuovo tessuto urbano.
Sotto la piramide
Lungo il boulevard dei Martiri della Nazione che taglia in due la capitale sorge la piramide di Enver Hoxha, un mausoleo di vetro e marmo bianco a base decagonale eretto nella seconda metà degli anni ottanta in onore del dittatore appena scomparso.
La piramide ha avuto pochi anni per rendergli onore, dal momento che il regime cadde nel 1991. Durante la transizione è stata aperta al pubblico solo in rare occasioni. Per il resto è rimasta in balia del degrado e delle scritte con le bombolette spray. Come spesso accade ai monumenti che evocano esplicitamente il passato dittatoriale, è stata al centro di un acceso dibattito intorno alla sua rimozione. C’era chi avrebbe voluto abbatterla e chi invece avrebbe voluto mantenerla come opera architettonica novecentesca, al pari delle altre raccolte intorno al boulevard.
Alla fine la piramide è rimasta lì.
Nei giorni del Tirana Open è stata nuovamente aperta al pubblico. Ha ospitato nelle sue viscere diverse videoinstallazioni e, la sera, alcuni concerti. Come mi ha fatto capire proprio Helidon Gjergji, uno dei direttori del festival, la domanda essenziale di fronte a un ex mausoleo non è se rimuoverlo o mantenerlo intatto, ma come riutilizzarlo.
Così, sollecitato da Helidon, ho provato a capire come lo stessero riutilizzando loro, andando a vedere il concerto dei Gipsy Groove che si teneva al suo interno.
I Gipsy Groove sono una band kosovara molto nota nei Balcani. La sera del concerto hanno attirato centinaia di persone e in poco tempo hanno infiammato la piramide. Quando sono entrato nel ventre del mausoleo, davanti al piccolo palco, c’era una selva di ragazzi e ragazze, intorno ai vent’anni, che ballavano, fumavano, bevevano, ridevano, cantavano sudati, in tutto e per tutto simili ai loro coetanei che affollano i locali underground o i posti occupati delle altre metropoli europee.
C’erano però due differenze essenziali. La prima è che eravamo appunto dentro la piramide di Enver Hoxha. La seconda è che i Gipsy Groove suonano soprattutto musica romanì – la musica dei rom – mescolata a ska, reggae, funk, dnb…
Quando hanno attaccato le loro versioni di Ederlezi, e soprattutto di Opa cupa, la piramide si è trasformata in una bolgia da cui è stato impossibile non farsi trascinare.
Ho cominciato a ballare anch’io. Istintivamente, mentre saltellavo sotto le volte, mi è venuto da pensare che lì, in quel momento, la Storia aveva ormai macinato chilometri e chilometri. Una scena del genere non solo sarebbe stata letteralmente impensabile trent’anni fa, quando la piramide fu costruita. Sarebbe stata inimmaginabile anche soli quindici anni fa, al tempo della guerra del Kosovo. Durante le violenze commesse dai paramilitari serbi, e culminate con la deportazioni di migliaia di civili albanesi-kosovari, la gran parte dei rom fu percepita come filoserba. Per lo stesso motivo, dopo la fine del conflitto, molti di loro furono costretti a lasciare il Kosovo. Visto il particolare legame tra Pristina e Tirana, le tossine della guerra e del dopoguerra hanno contagiato parte della stessa società albanese e dei suoi discorsi.
Quella bolgia festosa e giovanissima stava demolendo tutto ciò ballando sulle note di una canzone romanì. Ho detto a Helidon, che canticchiava a pochi metri da me, che tutto questo aveva il sapore di una rivoluzione culturale. Mi ha risposto ridendo che ero forse l’unico, lì sotto la piramide, a essersi reso conto di un simile cortocircuito. “I ragazzi ballano e basta. Non li vedi?”.
Già, ballavano e basta, scatenati e felici. I volti limpidi come l’innocenza.