A Napoli la filosofia è sotto sfratto
Dall’abitazione di Gerardo Marotta sulla collina di Pizzofalcone si gode una vista invidiabile di uno spicchio di Napoli: non la canonica cartolina della città vecchia che si affaccia sul golfo con il Vesuvio sullo sfondo, bensì il porto di Mergellina poggiato su un fianco di Posillipo.
È il panorama ammirato da Goethe nel suo viaggio da Roma verso il meridione, quello del “vedi Napoli e poi muori” nel 1797. Ed è lo stesso che il filosofo francese Jacques Derrida osservava nei suoi soggiorni da presidente onorario dell’Istituto italiano per gli studi filosofici, stupendosi in continuazione del fatto che i tassisti non avessero bisogno dell’indirizzo per arrivarci ma che bastasse menzionare il nome del suo fondatore. Derrida lo raccontò davanti alla platea della Sorbona il giorno in cui l’università parigina laureò honoris causa l’inquilino dell’appartamento di viale Calascione, un vicolo poco frequentato sulla collina che sovrasta piazza del Plebiscito, con vista mozzafiato sul mare che bagna Napoli.
L’avvocato Gerardo Marotta, a 88 anni e povero in canna, è ancora al suo posto a combattere “come un leone” contro il rischio di chiusura dell’istituto da lui fondato nella primavera del 1975, quando bussarono alla porta del suo ufficio Elena Croce, figlia del filosofo Benedetto, e il presidente dell’Accademia dei Lincei, Enrico Cerulli. “Erano venuti a chiedermi di lasciare la mia professione per continuare il lavoro che avevo fatto dopo la liberazione, con il gruppo Gramsci e i circoli del cinema che avevo creato insieme a Renato Caccioppoli. Risposi che ero onorato della proposta e che mi sarei preso un anno di tempo per riflettere. Ma Elena Croce sbottò: bisogna far presto, non c’è tempo da perdere, l’Europa è in declino”.
Tra la perduta gente
Prese il via così un’avventura che il professor Aldo Tonini, responsabile delle scuole estive dell’istituto, riassume in questo modo: 27mila tra filosofi, sociologi, medici e matematici ospitati in quarant’anni di attività, migliaia di borse di studio erogate a giovani ricercatori (una media di 2.500 all’anno da quando nel 1993 all’istituto furono assegnati una parte dei contributi versati allo stato con l’8 per mille), 15mila tra lezioni e convegni in tutto il mondo (compresi gli storici “colloqui” nel castello di Cerisy-La Salle in Normandia, che dal 1919 ospitano il fior fiore degli intellettuali europei, e una conferenza su “Islam e Italia” a Timbuctù, in Mali) e infine scuole estive disseminate in paesi e villaggi del Mezzogiorno, “tra la perduta gente”, come dice Marotta evocando, prima ancora che l’Inferno dantesco, la celebre inchiesta etnografica di Umberto Zanotti Bianco nella Calabria degli anni venti.
In quarant’anni di storia, l’Istituto italiano per gli studi filosofici non è stato da meno dei cugini francesi.Tra la sede originaria in viale Calascione, la sala intitolata a Giambattista Vico nella biblioteca dei Girolamini e quella odierna nello storico palazzo Serra di Cassano è passato il gotha dell’umanesimo europeo novecentesco. Dal gran bazar dell’appartamento di viale Calascione spuntano aneddoti e scritti.
Per il già citato Derrida l’istituto rappresentava “un insieme di cause e di cose: una dimora abitata da sussurri e cigolii, ma anche un castello dove i lavori di costruzione e restauro sono sempre in corso, un monumento storico rivestito da un’impalcatura perenne, un monastero al riparo dal mondo, un’università superstite del medioevo e un collegio internazionale del ventunesimo secolo mondializzato, provvidamente già nato”. Paul Ricoeur sosteneva che l’istituto, “venendo incontro alle aspettative dell’Europa”, anticipava “l’integrazione culturale del continente”.
Alain Segouls, direttore della casa editrice Les Belles Lettres che ha pubblicato le opere di Giordano Bruno in francese, scrive che “l’Istituto italiano per gli studi filosofici è un catalizzatore di relazioni intellettuali al servizio dell’Europa”.
L’avvocato ricorda una telefonata, dalla Columbia university di New York, dello storico della filosofia tedesco Paul Oscar Kristeller: “Mi chiese di far parte di questa famiglia perché, mi disse, era stato cacciato da Mussolini e per lui venire a insegnare a Napoli avrebbe costituito una rivincita”. Poi rievoca come, nelle sale barocche del palazzo Serra di Cassano, sotto Il giudizio di Salomone di Mattia Preti e Luisa Sanfelice in carcere di Gioacchino Toma, si siano seduti Jürgen Habermas ed Eugenio Garin, Massimo Cacciari e Gianni Vattimo, Edgar Morin e Marc Fumaroli.
Nel documentario La seconda natura di Marcello Sannino scorrono le immagini della conferenza che il filosofo tedesco Hans Georg Gadamer tenne di fronte alla platea napoletana, in occasione del suo centesimo compleanno:
La filosofia non è conoscere la risposta a ciò cui non è possibile rispondere. È piuttosto il continuare perpetuamente a cercare di avvicinarsi alle cose, una maniera di riflettere e una forma di libertà del pensiero che non si fa sopprimere da risultati definitivi e che quindi assume sempre nuove domande.
Fu un legame profondo, quello tra Gadamer e l’Istituto italiano per gli studi filosofici: dal 1978, quando fu invitato a tenere una conferenza da Heidelberg, non mancò una primavera e le sue lezioni, si ricorda, erano così affollate che tutte le sale del palazzo, collegate in videoconferenza, non riuscivano a contenere il pubblico che accorreva a seguirle.
L’avvocato Marotta elenca le attività del centro come un fiume in piena: i seminari tradotti perfino in coreano, l’edizione cinese di Machiavelli grazie alla collaborazione con l’università Orientale, la collana di opere sul pensiero indiano, il volume con i messaggi di Ashoka (erede di Alessandro Magno convertito al buddismo), la presidenza onoraria al premio Nobel per la chimica Ilja Prigogine, le videointerviste con decine di intellettuali (Louis Althusser che parla della “crisi del marxismo”, Cornelius Castoriadis di “psicanalisi e politica”, e poi Alain Caillé, Pierre Bourdieu, Jacques Le Goff e molti altri).
E ancora: il no al presidente della repubblica Francesco Cossiga che voleva riaprire il portone del palazzo Serra dei duchi di Cassano, sbarrato dal 20 giugno 1799 quando il rivoluzionario Gennaro Serra di Cassano a 27 anni fu trascinato via da quella porta per essere decapitato in piazza Mercato. Suo padre, in segno di lutto, ne decretò la chiusura fino a quando gli ideali dell’illuminismo napoletano non fossero stati attuati e i martiri del 1799 finalmente vendicati.
“Quella porta non fu riaperta con Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat. Non la riaprirono i patrioti del 1821 e quelli del 1848. Non la riaprì Giuseppe Garibaldi. Non si riaprì all’alba di questa nuova repubblica italiana. Con tutto il rispetto per il presidente della repubblica, perché riaprirla ora per Cossiga?”, risposero dall’istituto. Quel che fu negato al capo dello stato “picconatore” fu invece concesso per ricordare la resistenza: il 25 aprile del 1994, per festeggiare il cinquantenario, le ante finalmente si schiusero, a significare il legame tra gli ideali dell’illuminismo e quelli dell’antifascismo.
Era la stagione del “rinascimento napoletano” inaugurata dal sindaco Antonio Bassolino, chiamato a risvegliare la città dopo il buio di Tangentopoli. Dopo quel giorno, il portone del palazzo Serra di Cassano non sarà più riaperto: troppa la delusione per le occasioni mancate e le aspettative deluse.
Un’invettiva rivolta ai posteri
E ora? “Lo stato ci ha lasciato in mezzo a una strada”, dice con aria sconsolata Marotta, questo mecenate un tempo benestante che si è indebitato per comprare libri antichi e far andare avanti l’istituto nonostante i tagli, “rimpicciolito non di poco, come se il rovello che lo tormenta gli andasse rubando un po’ alla volta la stessa consistenza corporea”, scrive Ermanno Rea, suo coetaneo e conoscente di antichissima data.
Lo scrittore napoletano è andato a trovarlo di recente per la stesura del suo ultimo libro, Il caso Piegari (uno dei numerosi affluenti del suo Mistero napoletano), “in una bella giornata di sole che entrava trionfante attraverso il balcone del soggiorno aperto sul golfo” che ricorda tanto il mito della “bella giornata” con cui un altro grande vecchio della letteratura napoletana del novecento, Raffaele La Capria, apre il suo romanzo più famoso, Ferito a morte.
Cercando di risolvere il giallo della follia che colse il fondatore del gruppo Gramsci dopo la sua espulsione dal Partito comunista italiano (Pci) nel 1954, Rea dice di essersi imbattuto nel “caso Marotta” e racconta come “l’avvocato di viale Calascione” gli abbia mostrato alcune pagine di un “testamento” che è “una requisitoria senza mezzi termini contro le forze che stanno mettendo in ginocchio l’Istituto italiano per gli studi filosofici” e che l’autore non è autorizzato a divulgare.
Ricostruendo le vicende dell’istituto dalla nascita a oggi, si può solo ragionare per ipotesi su quali siano i destinatari dell’invettiva rivolta ai posteri: il ministro dell’economia Giulio Tremonti che, pronunciando “con la cultura non si mangia”, nel 2009 tagliò senza pietà le sovvenzioni di stato che erano state assegnate dal presidente del consiglio Carlo Azeglio Ciampi nel 1993 attraverso i fondi dell’8 per mille?
La sinistra erede del Pci che, dopo aver espulso gli eretici del gruppo Gramsci nel 1954, ha lasciato morire d’inedia un’istituzione che non è mai riuscita a controllare? I politici napoletani, comprese le ultime generazioni, che non hanno mosso un dito per salvare un patrimonio così rilevante?
Di sicuro, nulla sarà imputato a tutte quelle università e strutture scientifiche, anche internazionali, che stanno ricambiando il sostegno ricevuto in passato e garantiscono ancora oggi all’istituto la possibilità di continuare a organizzare convegni e seminari.
Ho venduto tutto, anche le proprietà di mia moglie. Ora ho debiti con tutti, perfino con il salumiere
Da casa Marotta si gode sempre la stessa veduta, ma il panorama culturale che la circonda non è più lo stesso e il patrimonio dell’istituto rischia seriamente di finire disperso e, cosa peggiore, di essere consegnato all’oblio, in una città distratta e impoverita.
Nonostante un appello per evitare la chiusura abbia raccolto finora 25mila firme (a partire da quelle di Salvatore Settis, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelski) e Roberto Saviano abbia contribuito di recente a rilanciare la campagna, la preziosa biblioteca dell’istituto è lasciata ad ammuffire in scantinati e capannoni di periferia, trasformando la storia di successo dell’avvocato di viale Calascione in quella di un uomo portato alla rovina dalla sua magnifica ossessione militante per la filosofia.
“Ho venduto tutto, anche le proprietà di mia moglie, un attico a Roma e una villa qui a Napoli. Ora ho debiti con tutti, perfino con il salumiere”.
La figura dell’avvocato sembra ancora più piccola ed esile, mentre si aggira a passettini lenti tra le cataste di libri poggiate su ogni dove e annate intere di quotidiani impilate in maniera solo apparentemente anarchica. Occupano ogni centimetro libero quasi a sopraffarlo, ma lui dà mostra di governare con disciplina il caos che lo circonda e ordina al suo assistente di prendergli un testo o l’altro, aprendolo a una pagina precisa e mostrando un messaggio del presidente della repubblica Sandro Pertini (“che il buon seme fruttifichi a lungo ancora per molti anni”), uno scambio di lettere con Giovanni Spadolini o l’ultima dichiarazione alle agenzie di stampa del sottosegretario alla presidenza del consiglio Claudio de Vincenti, che annuncia l’utilizzo di fondi europei “per realizzare una nuova politica meridionalista all’altezza della sfida della crescita che il paese ha davanti”.
La biblioteca di casa Marotta rappresenta solo una minima parte della sterminata raccolta di testi quasi introvabili, pubblicazioni dell’istituto e riviste complete dal primo all’ultimo numero, fino a qualche tempo fa ospitate su due piani del palazzo di viale Calascione, oltre che nel palazzo Serra di Cassano, e messe a disposizione di studenti e ricercatori universitari.
Valerio Cacace ha calcolato in circa trecentomila i volumi, con il “beneficio dell’inventario” perché i libri sono sparpagliati in luoghi diversi ed è difficile fare calcoli precisi: la casa goethiana di vicolo Calascione, residenza dell’avvocato e sede originaria dell’Istituto per gli studi filosofici, la biblioteca murattiana riacquistata da un rigatterie, “un pezzavecchiaio, come si dice a Napoli”, fatta restaurare e sistemata nel palazzo Serra di Cassano, dove si svolgono le attività pubbliche dell’istituto.
In tutto sono circa 30mila i volumi catalogati e a disposizione di studenti e ricercatori, solo su appuntamento per “mancanza di personale”. Ma, proseguendo sulle tracce delle edizioni originali delle opere di Giordano Bruno, Giambattista Vico e Benedetto Croce, si sprofonda nell’umidità delle catacombe del palazzo di proprietà di un dentista che ha intimato lo sfratto per morosità ai blasonati ospiti e ora inaccessibili perché sotto sequestro giudiziario, si continua vagando tra gli scatoloni accatastati in un capannone di periferia a Casoria e si finisce negli stanzoni deserti dell’ex manicomio Leonardo Bianchi. È qui che sono lasciati a marcire i restanti 270 mila libri.
“Se non arrivano i soldi, a settembre gli ufficiali giudiziari metteranno in vendita i miei libri”, dice allarmato Marotta. L’Istituto italiano per gli studi filosofici ha appena superato lo scoglio dei quarant’anni di vita e la sua sopravvivenza è a forte rischio: in cassa non c’è un centesimo, i dipendenti non vedono un euro da quindici mesi ed Equitalia bussa alle porte per contributi arretrati e ritenute d’acconto da versare.
La questione è politica
Cesare Scarano, contabile dell’istituto, spiega che tutto potrebbe essere risolto se il ministero della pubblica istruzione si risolvesse a “ottemperare” a una sentenza del consiglio di stato che ha dichiarato illegittima la bocciatura, da parte dello stesso ministero, di un progetto su “Umanesimo e scienze nella formazione dell’identità europea” risalente all’anno 2002-2003. Si tratta di dodici milioni e mezzo di euro, “più la rivalutazione”, che metterebbero a posto i conti dell’istituto, insieme al milione previsto nella legge di stabilità per il triennio 2014-2016 (contro i 3,5 milioni dell’8 per mille tagliato da Tremonti), di cui finora è arrivata solo la prima tranche del 2014.
Tutto è fermo pure sul fronte dei locali acquistati dalla regione, già al tempo di Bassolino, per la nuova biblioteca: ancora si aspetta la gara d’appalto, con il risultato che i libri ammuffiscono e non sono consultabili, i proprietari dei depositi chiedono lo sgombero per morosità e il debito dell’istituto aumenta di giorno in giorno.
Ma la questione è in tutta evidenza politica, prima ancora che contabile: cosa farne di un istituto non universitario, messo in piedi da un appassionato visionario, che in quarant’anni è riuscito a diventare un polo culturale riconosciuto a livello internazionale? E della sua preziosa, e per molti aspetti unica, collezione di libri?
Marcella Chiaro lavora a palazzo Serra di Cassano dal 1983. A 51 anni e con due figli a carico, sa bene che difficilmente troverebbe lavoro altrove, ma non dispera: “È dal 2006 che siamo con l’acqua alla gola, ma alla fine ce la facciamo sempre. Chissà, sarà lo spirito dei martiri del 1799”. Nella sua stessa situazione ci sono una trentina tra dipendenti e collaboratori a vario titolo. Antonio Gargano, professore di filosofia all’Università Federico II e segretario generale dell’istituto, rifugge dal vittimismo e afferma di non aspettarsi molto, perché “sappiamo di abitare il luogo di una sconfitta, quella del 1799 quando nel Mezzogiorno fu sancita la separazione definitiva tra cultura e potere e si aprì la strada a un nuovo medioevo”.
All’Istituto italiano per gli studi filosofici si sentono gli eredi di “quell’altra Napoli” illuminista, giacobina, progressista, che non è più riuscita a risollevarsi da quella batosta storica, di quella borghesia illuminata cancellata dalla mannaia del boia e non di quelli che sono venuti dopo, i piccolo borghesi che, secondo Raffaele La Capria, si sono inventati il concetto identitario della “napoletanità” per il timore storico di finire ghigliottinati o impiccati ancora una volta.
Si immaginano come i superstiti di quella “rivoluzione dei filosofi”, unica nel mondo occidentale moderno, che fu stroncata nel sangue dalle forze della reazione, attraverso la condanna a morte di un’intera generazione di intellettuali.
Il portone chiuso di palazzo Serra di Cassano è come se avesse contribuito a non disperdere l’atmosfera che vi si respirava alla fine del settecento, forse anche perché tra le sue stanze e nei discorsi dei frequentatori i protagonisti di quella stagione vengono fatti continuamente rivivere.
Europeisti fin dal primo giorno, sono fieri di aver contribuito a sprovincializzare la cultura napoletana e allo stesso tempo ritengono di poter mettere a disposizione del vecchio continente una cassetta degli attrezzi utile a riportarla sulla giusta rotta. “L’istituto ha creato una rete di umanisti e scienziati. Si può riattivare un trust di studiosi che possano fornire strumenti di comprensione su come uscire dalla crisi”, dice Gargano.
Lo pensa, e non da oggi, pure l’avvocato di viale Calascione. Seduto su una poltrona del suo soggiorno, con l’odore dei libri stagionati che si mescola a quello del legno, Gerardo Marotta lancia un appello simile a quello che lo portò nel 1992 a varcare la soglia del parlamento europeo di Strasburgo e il Palazzo di vetro dell’Onu a New York: “C’è necessità della filosofia per orientare le scelte politiche, di uno spirito umanistico, specie ora che l’Europa è in crisi, ci disse il segretario generale delle Nazioni Unite, un pezzo d’uomo enorme, e poi ci abbracciò”.
Invece, accade che la filosofia sia esclusa o ridimensionata in licei e università, al punto che sulla piattaforma Change.org è ancora possibile firmare l’appello alla ministra dell’istruzione Stefania Giannini in “difesa del pensiero critico” promosso dai filosofi Roberto Esposito, Adriano Fabris e Giovanni Reale.
Marotta è convinto che la grande tradizione dell’umanesimo meridionale, quella che va da Giordano Bruno a Telesio e Campanella, fino a Genovesi, Filangieri e Pagano, possa tornare utile a vincere la dittatura dell’homo oeconomicus che regge le scelte europee. Poi ricorda il messaggio di Benedetto Croce che la figlia Elena portò con sé il giorno in cui lo convinse a fondare, a spese proprie, l’istituto:
Quando le forze barbare prendono il sopravvento e distruggono le biblioteche e i grandi monumenti, gli uomini, vedendosi privati delle risorse per continuare le loro opere, devono rassegnarsi alla morte.
Gli sembra particolarmente attuale ed è ciò che lo spinge a non arrendersi proprio ora che è arrivato alla soglia dei novant’anni.
Ps. In calce a una pubblicazione dell’istituto trovo una battuta di Jacques Derrida su Gerardo Marotta: “Un giorno gli si darà ragione e più che mai si capirà che molto prima degli altri ha visto lontano, in anticipo sui tempi”.