Il fascino degli impostori
Qualche anno fa lessi la storia di Stephen Glass, giovanissima penna del New Republic che venne sbugiardato dopo una folgorante carriera di inchieste su repubblicani corrotti, giovani hacker avidi, finanzieri canaglieschi. Un articolo di Forbes svelò che la maggior parte della cose che aveva scritto era falsa. A ruota seguì uno sputtanamento progressivo.
Glass prima cercò di giustificarsi arrampicandosi sugli specchi, poi mentendo ancora, e infine ammise che sì effettivamente quello che aveva scritto era una montagna di fandonie, per reggere le quali aveva prodotto pagine e pagine di note apparentemente fondate, falsi biglietti da visita, falsi messaggi, lettere e fax che dichiarava di aver ricevuto dalle sue fonti; creato siti web finti, finte caselle postali, carte di credito personalizzate e intere fanzine.
Fu licenziato dal New Republic, Vanity Fair ne scrisse un lunghissimo ritratto, “Shattered glass”, lui stesso scrisse un libro sulla vicenda intitolato The fabulist. Ci fecero un film, nel 2003, con Hayden Christensen nei suoi panni e Peter Sarsgaard in quelli del direttore che lo licenziò. Perché l’aveva fatto? Perché un ragazzo che tutti definivano “talentuoso, divertente, coraggioso” aveva segato il ramo su cui si era seduto?
Questa è solo una delle decine di storie del genere che potrei citare. Del resto gli impostori sono gli eroi della nostra epoca. Negli anni, nei romanzi, negli articoli dei giornali, ne ho incontrati a mucchi e mi sono sembrati tra i personaggi più affascinanti da poter raccontare.
Anche su Internazionale, ne spuntano ogni tanto alcuni favolosi. In un numero di agosto del 2012 veniva raccontata la parabola di Rudy Kurniawan, per anni uno dei più quotati esperti di vino a livello internazionale, diventato milionario contraffacendo bottiglie e inventandosi un profilo da sommelier tanto sghangherato quanto paradossalmente credibile.
In un numero di qualche mese fa c’era invece la storia magnetica di Francisco Nicolás Gómez-Iglesias: spacciatosi per esponente di rilievo del Partito Popolare spagnolo, infiltratosi senza problemi alle cerimonie del parlamento e a palazzo reale, infine condannato per aver riscosso tangenti in cambio di presunti buoni uffici presso il governo.
La truffa culturale non è un fenomeno tipico solo di una società prestazionale come quella statunitense
Bugiardi incalliti, mentitori seriali, truffatori, artisti del plagio. Alcuni sono finiti in miseria dopo essere stati sbugiardati, altri hanno fatto talmente tanti soldi, convincendo milioni di persone della propria impostura, che ne sono tutto sommato usciti indenni.
Come James Frey, di cui come moltissimi lessi – prima che venisse a galla la verità su come era stato scritto – il bestseller uscito nel 2003 Un milione di piccoli pezzi, ossia il resoconto autobiografico, crudissimo, di un’autodistruzione tra abuso di droghe, alcol e carcere. Nel 2006 il sito Smoking Gun scoprì che molti dettagli erano stati gonfiati, esasperati – cinque ore in galera erano diventati 87 giorni, per dire.
Frey si giustificò: quale autobiografia non è un po’ inventata? Ma la sua agente lo mollò e la sua casa editrice, la Random House, decise nelle ristampe di inserire un’avvertenza e si offrì di rimborsare il costo del libro a tutti i lettori che si fossero sentiti truffati.
Ma l’inventarsi un’altra vita, il millantare, la truffa culturale non sono fenomeni tipici solo di una società prestazionale come quella statunitense. Vi ricordate i casi degli italiani Tommaso Debenedetti e Fabio Filipuzzi?
Il primo, giornalista quarantenne, riuscì a piazzare per varie testate, soprattutto quotidiani locali e di destra, una serie di interviste lunghe e sorprendenti con scrittori e intellettuali di fama internazionale: da Stephen King a Ken Follett.
Capitò che un giorno Paola Zanuttini, firma di Repubblica, stesse facendo un’intervista per Il venerdì a Philip Roth, in uscita col suo ultimo romanzo, e gli chiedesse conto anche della sua disillusione nei confronti di Obama. Quale disillusione?, trasecolò Roth. E allora Zanuttini gli citò l’intervista di qualche mese prima a firma di Tommaso Debenedetti per Libero. Roth a quel punto chiamò la sua agente: non ho mai rilasciato quell’intervista, non ho mai conosciuto questo giornalista.
Nel giro di qualche giorno si scoprì che Debenedetti si era inventato di sana pianta decine di interviste, che spesso le aveva composte intorno a notizie legate a dichiarazioni politiche altrettanto costruite ad arte; il caso rimbalzò sul New Yorker; e Debenedetti un po’ alla volta confessò la truffa, dichiarandosi però prima un situazionista poi una specie di militante politico. Voleva dimostrare come le redazioni sfruttano i freelance per pochi spicci. Recentemente si è riciclato inventando vari account fake su twitter.
Un sacco di scrittori tra gli impostori, quasi come se ad alcuni non bastasse creare dei mondi immaginari
Meno conosciuta è la storia di Fabio Filipuzzi. Un ingegnere di Udine, anche lui quarantenne; proviene da una famiglia di intellettuali e fa una carriera rapida nell’editoria, diventando il vicedirettore editoriale di una casa editrice di qualità, la Mimesis di Padova. Riesce a far pubblicare romanzi e saggi importanti, riedita I sonnambuli di Hermann Broch.
È fulmineo e versatile; chiunque lavori con lui gli riconosce la stoffa. Scrive anche saggi e romanzi suoi, tra il 2006 e il 2010 ne fa uscire sei, per Mimesis e per Campanotto, un altro editore veneto, piccolo ma di ricerca: i romanzi s’intitolano in modo evocativo, La parola smarrita, L’ipotesi della bellezza, e restituiscono un’aria di mitteleuropa. Forse troppo mitteleuropa. Un lettore sente puzza di bruciato e comincia a confrontare i testi di Filipuzzi con quelli di altri scrittori più celebri, e fa una strana scoperta.
Si accorge che per esempio La parola smarrita è – fatte salve un paio di pagine iniziali – la copia anastatica di Pomeriggio di uno scrittore di Peter Handke, mentre L’ipotesi della bellezza ricalca riga per riga un romanzo di Jean-Paul Enthoven, Aurore (ha cambiato solo il nome della protagonista, da Aurore ad Anna). I falsi vengono svelati. Quelli di Mimesis cascano dalle nuvole: si è sempre dimostrato una persona squisita, un intellettuale di vaglia. Filipuzzi non replica, non rilascia dichiarazioni, tutto quello che commenta è che non sa perché l’ha fatto. Anche la sua storia finisce sul New Yorker.
E nell’elenco devo inserire almeno il caso più emblematico di impostura letteraria a cui tantissimi lettori, me compreso, hanno creduto in tempi non troppo lontani, lo scrittore JT Leroy.
Come molti mi ero appassionato a JT, un ragazzino dal volto angelico e dai modi liminali all’autismo che era riuscito in maniera così audace e al tempo stesso fiabesca a raccontare in paio di romanzi-memoir (Ingannevole è il cuore più di ogni cosa e Sarah) le esperienze di violenza pura di cui era stato vittima nella sua infanzia: abusi famigliari, tossicodipendenze, eccetera.
JT è stato per qualche anno la personificazione dell’autenticità. Un angelo nel fango. Come Rimbaud, come Sarah Kane. Per i suoi amici scrittori mentori come Dennis Cooper o Dave Eggers, per registi come Gus Van Sant e Asia Argento, per i suoi referenti italiani, come il suo editor Simone Caltabellota, per Martina Testa (la sua traduttrice) e Valentina Pigmei (la sua biografia, Chiedilo agli angeli), e per tutti i suoi lettori, JT era un amorevole monstrum di sincerità: la dimostrazione che in un mondo culturale dove molto è costruito e indotto dalle regole di mercato, un ragazzino di diciott’anni, ingenuo e genialoide, potesse trovare lo spazio e le attenzioni che meritasse. Un puro.
La realtà però è che JT Leroy non esisteva. I libri li scriveva Laura Albert, un’abile scrittrice di quarant’anni. E per le foto si prestava Savannah Knoop, la figlia del compagno della Albert, una ragazza vestita con abiti larghi da uomo e sempre abbigliata con parrucca bionda e occhiali da sole, che nelle interviste dal vivo farfugliava bizzarrie. La truffa la scoprì il New York Times nel 2005, e la biografia di Valentina Pigmei letto a distanza di un decennio fa un effetto singolare. Perché appunto è un libro onesto. Mi ricordo la dedizione con cui lo scrisse, ogni tanto turbata e irritata per le bizze di JT nelle interviste telefoniche. Del resto il marito di Laura Albert, complice della truffa, sosteneva che lei veramente si sentiva JT, lei era JT.
Un sacco di scrittori nel novero degli impostori. Quasi come se ad alcuni non bastasse creare dei mondi immaginari ma volessero rendere anche la propria esistenza una finzione. Nell’ultimo numero della rivista Nuovi Argomenti (curato da Filippo Bologna e dedicato proprio agli impostori) si ricorda, insieme alla spiritista Eusapia Palladino (Giulio Silvano e Matteo Trevisani) al pittore astratto Arshile Gorky (Manuela Maddamma), all’attore Cary Grant (Filippo Tuena), la vita avventurosa di Frederick Rolfe, sedicente sacerdote, scrittore incompreso, pittore, pederasta, scroccone, impostore incallito, i cui tentativi di convincere gli altri del suo valore artistico furono in vita così fallimentari che forse – scrive Luca Guarnieri, che ne cura il ritratto – potremmo rendergli un pietoso omaggio “portando un tulipano blu alla sua nuda tomba e dire una preghiera per l’eterno riposo della sua anima”.
Abbiamo una forma di attrazione e di malcelata pietà per gli impostori? Ci riflettiamo in loro come in uno specchio nero a cui speriamo di non assomigliare troppo? La biografia modello di tutti gli impostori è sicuramente quella che Emmanuel Carrère scrive nel suo libro L’avversario – la storia di Jean-Claude Romand.
Romand sale all’onore delle cronache il 9 gennaio 1993, perché in un incendio nella bassa Lorena muoiono sua moglie, i suoi figli, i genitori, i suoceri, il suo cane, mentre lui la scampa per un pelo. Subito si scopre che è stato proprio Romand a aver appiccato fuoco alla casa, e a aver sterminato la sua famiglia. Ma questa scoperta atroce non è la più sconvolgente. La verità impensabile che sta dietro alla vicenda è che quest’uomo mentiva sistematicamente da diciotto anni. Come ricostruisce Emmanuel Carrère nel suo romanzo-inchiesta, Romand ha cominciato a fantasticare la propria vita quand’era all’università, vantando con i suoi la buona riuscita di un esame che invece non aveva passato, per poi continuare senza interruzione a mentire fino a quando non poteva più non essere sbugiardato: a quel punto ha dato fuoco al suo mondo, letteralmente.
Nell’ultima pagina dell’Avversario Carrère si pone la domanda scabrosa che ci facciamo di fronte alle seducenti biografie di questi bugiardi olistici: riraccontando la loro vita gli stiamo dando una possibilità di affrancarsi dal loro sistematico inganno o siamo noi piuttosto a cadere preda della loro menzogna vorace?
L’interrogativo etico opposto se lo pone invece Javier Cercas nel suo ultimo libro, appena edito da Guanda, che s’intitola proprio L’impostore ed è un ritratto assai sofferto di Enric Marco, un meccanico, militante politico, che dagli anni settanta comincia a raccontare in conferenze, libri, articoli la sua esperienza di deportato e sopravvissuto ai campi di sterminio a Mauthausen: diventa così un sindacalista a livello nazionale, il presidente di un’associazione di ex-deportati, un testimone invitato in tutte le scuole, un eroe. Finché un giovane storico – insospettito dalla placidità con cui Marco ricorda la sua storia nei lager – indaga e scopre che è praticamente tutto falso.
Ha senso dare clamore a questa storia?, si chiede Cercas.
Conoscevo abbastanza la storia di Marco per sapere che ne uscivano tutti male, e che raccontarla significava diventare un guastafeste, infilare il dito nell’occhio non soltanto di Marco e della sua famiglia, ma dell’intero paese. Volevo davvero farlo? Ero disposto a farlo? Era giusto farlo? […] Non era forse immorale il mio proposito, e non perché avrei fatto il gioco di Marco, avallando o mascherando le sue menzogne (o cercando di redimerlo), ma proprio per la ragione opposta, perché dovevo farla finta con le sue bugie e raccontare la verità? Non era meglio abbandonare, abbandonare il libro, abbandonare Marco nella finzione che per tanti l’aveva salvato, senza portare alla luce la verità che poteva ucciderlo?
Ogni volta che finiamo di indagare una storia d’impostura ci resta una sensazione duplice di delusione addosso: da una parte quella di andare a vedere come si distrugge un sogno – spesso un sogno edificante – e dall’altra quella di non poter sapere fino in fondo se davvero stavolta siamo arrivati alla verità o rimane qualcosa di inesplorato, di ancora ingannevole, di ancora mostruosamente falso. Come possiamo credere a qualcuno che è stato bugiardo vita natural durante? Ma anche: come possiamo essere sicuri senza tema di smentita che la nostra indagine sulla verità abbia più valore della grande bugia a fin di bene di Marco, cioè una bugia che in qualche modo ha tenuto viva la memoria sui crimini nazisti?
Siamo di fronte alla versione non sono logica ma morale del paradosso del mentitore. Un dilemma che se vogliamo attraversare fino in fondo ci porta a domandarci qualcosa di davvero vertiginoso sulla stessa condizione umana. Siamo chi diciamo di essere, ma come facciamo a sapere che quello che sosteniamo di essere è vero? Esserne consapevoli – di essere sempre un po’ degli impostori – ci libera dalla pena che la nostra vita possa essere un semplice castello di menzogne?
Per questo mi ha sempre colpito nelle storie di bugie prolungate quella sorta di richiesta di aiuto subliminale che chi mente lancia nei confronti degli ingannati: piccole defaillance lasciate inconsciamente a bella posta, oppure molto spesso la paradossale e pervicace critica nei confronti di chi mente. Vi ricordate come Daniele Luttazzi, per dire, se la prendeva contro coloro che gli rubavano le battute prima che venisse fuori che buona parte del suo repertorio era copiato dai comici americani? O le tirate sulla meritocrazia di Oscar Giannino, prima che si scoprisse che le sue lauree erano inventate?
Da una certa angolazione, ognuno di noi – anche il più abile dei seduttori, anche il più brillante degli affabulatori – grida: ti prego tu che mi ascolti, che rimani affascinato da me, trova un modo per mostrarmi una verità che nemmeno io conosco, che probabilmente nascondo a me stesso, liberami dal mio autoinganno, dalla mia pretesa di conoscere la verità.
Come è che David Foster Wallace iniziava il suo racconto più struggente, “Caro vecchio neon”, in Oblio?
“Per tutta la vita sono stato un impostore. E non esagero. Ho praticamente passato tutto il tempo a creare un’immagine di me da offrire agli altri. Più che altro piacere o essere ammirato. Forse è un po’ più complicato di così. Ma se andiamo a stringere il succo è quello: piacere, essere amati”.