Il genio senza età di Eleonora Danco
In fondo, l’infanzia sta tutta in quella domanda: “Mamma, mi posso fare il bagno?”
Ossessiva e petulante, la voce della bambina che non vuole aspettare i tempi della digestione tormentava l’apertura di Nessuno ci guarda (1999), atto unico di Eleonora Danco ispirato ai quadri di Pollock. Quindici anni dopo comincia così anche N-Capace, primo film che Danco, prodotta da Angelo Barbagallo, scrive, dirige e cointerpreta.
Come a teatro, anche qui la drammaturgia nasce insieme al viso, al corpo e alla voce di una donna logorroica e senza pace (la protagonista si chiama Anima in pena), così timida da non guardare mai negli occhi l’interlocutore, così arrabbiata da costringere gli altri a raccontarsi pur di evadere da sé.
Eleonora Danco, che prima si prende sul serio esclamando “ho assaggiato lo zucchero della morte” e poco dopo, con la stessa serietà, domanda “ma i giovani stempiati soffrono?”, non ha età, è incastrata nel tempo ovattato di una vasca da bagno piena di biscotti, incapace di alzarsi da un letto disfatto ai bordi della ferrovia. Se si muove, è per andare a capire cosa si nasconde dietro l’impudica vecchiaia e il delirio onnipotente dell’adolescenza, le uniche due età che reputa interessanti.
Gira in pigiama, perché il noioso mondo degli adulti non merita neanche un vestito. Veste il padre e la badante con casco e tuta spaziali costringendoli a confessioni e finzioni extraterrene, come astronauti, e intanto dalla natìa Terracina va in missione a Roma per prendere letteralmente a picconate qualunque novità oltraggi i suoi ricordi. Come una Nanni Moretti turbata dalla bruttezza del mercato di Testaccio, Danco in tenuta da dea vendicativa appare tra i tavolini del marciapiede antistante: urla, protesta, rantola, e infine, principio e conclusione di tutta la sua poetica, si rotola per terra nell’indifferenza generale.
Dunque è questa la vita adulta
Per Eleonora Danco la vita adulta non è interessante. Neanche la prima infanzia lo è. Interessanti sono l’adolescenza, con i sentimenti in bella mostra come brufoli, e la vecchiaia, passata a far finta di non aver bisogno di niente e tantomeno della morte.
In entrambe esplode il sentimento della mancanza: puoi nasconderti quanto vuoi, tanto si vede che soffri. Prima non sei abbastanza adulto da saper fingere, poi lo sei stato per troppo tempo e non ne hai più voglia.
Il padre di Anima in pena è vedovo, ricorda la moglie, dice che non sta piangendo e invece sta piangendo. La vecchia di Terracina torna piccola quando la regista le ordina di chiamare la mamma, le rughe si distendono. Per fortuna c’è il vecchio ateo a ricordare che Cristo è morto, i santi sono morti, sono tutti morti e chi se ne importa. Intanto un adolescente che vuole fare il pizzettaro, o meglio l’idraulico (”così non lavoro di domenica”), dice che il padre gli manca da morire, mica ha capito perché se n’è dovuto andare a vivere con la nuova compagna. Poi certo, l’ha perdonato, però in fondo che gli costava restare a casa con moglie e figlio, ché tanto una famiglia vale l’altra.
E gli adulti, come vivono gli adulti, abituati a farsi una ragione di tutto? Nel film sono ombre, figuranti incappucciati che reggono da soli il cartello con cui si definiscono “professori”. Spariti anche i finti adulti: la persona incatenata a una sedia e a mille obblighi (le bollette, le responsabilità) che sbraitava “Me vojo sarva’!” nell’omonimo monologo del 2001, il tossico che in Ero purissima si disperava tra le panchine. La Danco di N-Capace se n’è sbarazzata oppure li ha fagocitati: anima in pena, e in piena, che trova fastidioso e superfluo essere cresciuta. Tanto valeva invecchiare e basta.
“Sono come rimasta impigliata per molto tempo in quel tempo. I miei personaggi sono spesso incastrati nell’adolescenza”
Oggi che gli adolescenti vanno di moda, oggi che fanno cassa film, libri e fiction che li hanno come pubblico e protagonisti, la presa diretta della Danco è un’altra cosa.
Qui non si raccontano gli adolescenti a loro uso e consumo, affinché si nutrano di una versione patinata di loro stessi; qui si mette in scena l’ultima possibilità di un essere umano di sentirsi vivo.
Che si iscriva a una scuola per parrucchieri o metta da parte i soldi per aprirsi una bisca, che spazzoli il frigorifero e divori patatine perché grassi e colesterolo non sono ancora un problema, che ostenti la certezza scurrile di non voler sposare una ragazza piena di voglie (”perché poi non si sazia”), ogni adolescente tratta la propria convinzione, il proprio desiderio come la sola cosa che conta. Danco lo sa, e il suo sguardo non è morboso. Non li intervista come in un safari, non ne prende in giro le fragilità e neppure li scimmiotta: semplicemente è come loro.
Insieme corrono, girano in tondo e a vuoto, mangiano, si toccano i capelli, parlano di libri di cui non ricordano il titolo, di sesso fatto a dodici anni; cascano per terra e, danchianamente, si rotolano. Però tutti insieme, perché c’è sì una solitudine speciale, ma non somiglia ancora alla sconfitta dell’adulto. C’è il mare sullo sfondo, su cui si può sempre contare, e c’è sempre quella domanda in sospeso: “Mamma, mi posso fare il bagno?”.
Andiamo in giro con la faccia di noi stessi bambini
La mamma di Eleonora Danco è morta molti anni fa, come la mamma di Anima in pena (ora possiamo smettere di far finta che siano due persone diverse, e che N-Capace sia un film: se dovessimo giudicarlo per la sceneggiatura non andremmo da nessuna parte).
Eleonora in pena porta il padre al cimitero, o forse viceversa. Entrambi si coprono la faccia con una vecchia foto: il padre da giovane, Eleonora da ragazzina.
Al cimitero niente piedi puntati verso il mare, nessuna fretta nervosa. “Mi posso fare il bagno?” è ormai una domanda senza interlocutore, ridicola come la consapevolezza che era proprio quel divieto a renderci più liberi, più folli. La vita adulta coincide con il tempo severo della digestione, passato ad aspettare che qualcuno ci dia il permesso di esistere e finalmente di buttarci in acqua. Intanto, quelli che ci sembravano grandi quando eravamo bambini invecchiano e muoiono.
“Mi posso fare il bagno?”.
No. Però intanto puoi cambiare i fiori sulla tomba di tua madre.
“I miei personaggi hanno la mia stessa impazienza, ecco, come me si annoiano velocemente se si allontanano da quel centro violento e doloroso”
Eleonora in pena lo dice chiaro: “Non m’importa degli altri”, tanto ognuno si aggiusta la vita come può. Un io martellante che si circonda di persone e maschere per interrogarle fino allo stremo, selezionando le parole più feroci dall’italiano e dal romano (”Il dialetto ha una sua arroganza poetica”, spiegava Danco a Marco Lodoli in un’intervista che chiudeva una sua raccolta di testi per il palcoscenico pubblicata da Minimumfax nel 2009).
All’epoca, il letto matrimoniale che oggi prende sole e vento sul set se ne stava chiuso in un teatro e si surriscaldava “da quanto mi ci giro dentro”. All’epoca il mare di Terracina potevi solo sospettarlo tra le battute di personaggi nevrotici, prigionieri di un parco e una panchina, incapaci di lavorare, anche solo di uscire di casa. Forse proprio quella distesa azzurra, increspata e prepotente come i colori di Pollock, differenzia N-Capace dalla produzione teatrale di Eleonora Danco.
Oggi c’è un orizzonte definito, come definita appare la scelta di non fare neanche un passo, restare per sempre in quell’età di mezzo. Si può vivere senza crescere, scopre la Danco: certo, si paga pegno, bisogna passare per matta, ti tocca urlare, dimenarti, spogliarti, prenderti a schiaffi, sfidare il ridicolo, e nonostante tutto non è detto che tu riesca a scollarti di dosso una paralisi. Anzi, forse ti stai immobilizzando per sempre. Non puoi più correre verso il mare. Almeno finché non arriva la voce che aspettavi da sempre.
Sono le undici, Eleonora, puoi fare il bagno.
Luce in sala.