Cosa si nasconde dietro le nostre rabbie quotidiane
“Dovresti finire in galera”. “Sei un cane!”. “Pezzo di merda”. “Peggio della camorra”. “Si vergogni! Sono una professoressa e so quanto soffrono i ragazzi sovrappeso quando vengono sfottuti dai compagni, e lei merita di essere rinchiuso qualche anno in un centro di rieducazione mentale”. “Ti auguro la morte”.
Molti di quelli che fino al mese scorso piazzavano l’icona Je suis Charlie sulle foto del loro profilo Twitter o Facebook non si sono fatti problemi a scagliarsi qualche giorno fa contro Alessandro Siani. Il comico, in nome di un cattivo gusto che non arriva ai talloni di quello sfoderato dal settimanale satirico francese, ha canzonato in diretta nazionale un ragazzino obeso.
Non amo la comicità di Siani, mi sembra morda poco e grossolanamente. Ma non posso non notare la contraddizione in chi, sentendosi ferito da un’offesa rivolta ad altri (”ma ci entri nella poltrona?”, che se volete è la versione moscia del Benigni prebeatificazione, quando diceva di Giuliano Ferrara “pensa che vita senza toccarselo mai, non ci arriva mica!”) non vede l’ora di ferire a sua volta augurando il decesso o la reclusione coatta all’autore dell’offesa. Non è la riprovazione di per sé a sembrarmi rivelatoria, ma la violenza con cui è espressa. Il caso di Siani è solo l’ennesimo in cui, crepato il vaso di Pandora del politicamente corretto, ne vengono fuori strani spettri.
“Perché tanto odio?”, era il motto del disegnatore francese Édika. Ma soprattutto: cosa nasconde, oltre la sua parte legittima, tutta questa furia?
Conduco periodicamente una rassegna stampa radiofonica delle pagine culturali dei giornali, e grazie ai nuovi strumenti di comunicazione (tra social e sms) il confronto con chi segue la trasmissione è diventato continuo. Si tratta di un’opportunità preziosa per tenere il polso della situazione. Nel corso degli anni, sempre più frequentemente, arrivano in redazione messaggi di ascoltatori furibondi. Protestano perché l’articolo di cui hanno appena ascoltato il contenuto violerebbe, a loro dire, dei diritti inalienabili. Quasi sempre, si tratta dei diritti di una minoranza. Il lato più delicato del politicamente corretto.
Mi capita di commentare in diretta l’articolo di un editorialista che accusa una senatrice di avere “un tono da maestrina”? Ecco che sarebbe stata lesa la dignità di chi ogni giorno lavora nella scuola per un tozzo di pane. Il brano di un noto romanzo citato in un articolo definisce qualcuno “un nano del pensiero”? C’è subito chi si scandalizza perché i diversamente alti sarebbero stati insultati. Qualche giorno fa, dopo aver letto un pezzo di Dacia Maraini e uno di Lea Melandri sui problemi della prostituzione (lo spunto era la proposta di istituire a Roma una zona rossa nei pressi dell’Eur), due ascoltatori si sono lamentati perché “si parla sempre delle puttane”, mentre le sofferenze “terribili” a cui sono sottoposti i gigolo “non interessano a nessuno”.
Nella maggior parte dei casi, non si tratta di semplici doglianze attraverso cui si cerca di aprire un dibattito. Sono sassi lanciati con violenza, messaggi furiosi, gonfi di rabbia, sarcasmo, incontenibile risentimento. Perché tanto odio?
Vegetariani, disoccupati, lesbiche, omosessuali, portatori d’handicap, persone che hanno subìto violenza, donne e uomini divorziati, nullatenenti, sfrattati, malati, calvi, obesi, tossicodipendenti, vittime di mobbing… o chi per loro. Ognuno di noi può appartenere a una minoranza. Almeno una porzione della vita di chiunque può specchiarsi in una fascia debole. Abbiamo un buon lavoro ma un nostro parente è su una sedia a rotelle. E così via. Ovviamente, all’interno di ogni minoranza, c’è un’altra minoranza a rischio discriminazione. Ognuno ha la sua occasione quotidiana per sentirsi offeso. Il problema è quando quell’occasione incominciamo a leggerla come un’opportunità. Che cosa sta accadendo?
È giusto difendere i diritti delle minoranze. E tuttavia vedo in giro una ipersensibilità sul tema che, oltre una certa soglia, suona sospetta. Mi sembra che ci si indigni sempre più spesso a causa di qualcosa per partito preso perché arrabbiarsi per qualcos’altro (che forse ci sta più a cuore) risulterebbe troppo doloroso.
Non mi interessa, in questo discorso, la parte sana e ragionevole dell’indignazione, che pure c’è. Mi rendo conto, tuttavia, che per indagare il patologico devo abbandonare la geometria euclidea dei diritti e delle loro violazioni, e affidarmi solo alla mia sensibilità, avendo come controparte la lingua degli arrabbiati. Eccole le macchie di Rorschach del disagio sociale. Addentrandosi nel pozzo di quel disagio, facendosi investire linguisticamente dalla rabbia, dagli insulti, dalla violenza che spesso sono tutt’uno con la presunta difesa dei diritti violati, io sento a volte non la tristezza ma il piacere di chi ha appena scagliato la propria accusa. Peggio ancora, sento il desiderio (soddisfatto) di sapere che il diritto è stato violato, perché questo offre l’opportunità di scatenare la reazione. E, in certi momenti di relativa bonaccia, sento l’aspettativa (una crescente aspettativa popolare) che l’Alessandro Siani di turno – come si dice in gergo – pesti una merda ancora più grossa.
Per rimanere sullo stesso registro, si potrebbe dire (come spesso si fa negli scontri telematici) che la gente reagisce così violentemente perché è frustrata e fa una vita di merda. La faccenda è più complessa. Dopo aver seguito centinaia di episodi analoghi, sono arrivato alla conclusione che molte persone non vedono l’ora di difendere in maniera scomposta un diritto appena violato (spesso un diritto altrui, e meglio se si tratta di diritti di minoranze) perché quei diritti, e non altri, stanno avendo cittadinanza nel discorso pubblico. Potrei dire che questa gente si sente spesso ferita in qualcosa di ancora più grave e profondo del diritto che si mette a difendere, ma aspetta con ansia che sia violato proprio quello perché, a sua volta, solo quello è pienamente riconosciuto come suscettibile del diritto a protestare. Sto dicendo che anche i diritti delle minoranze stanno diventando loro malgrado uno strumento del potere?
Gli ultimi quindici anni, non solo in Italia, sono stati difficilissimi per ciò che riguarda temi quali l’uguaglianza sociale, il diritto al lavoro, la redistribuzione delle risorse. È di qualche settimana fa la notizia che le dieci famiglie italiane più ricche possiedono un patrimonio pari a quello dei venti milioni meno ricchi. I primi 80 miliardari del pianeta detengono una ricchezza pari a quella posseduta da 3,5 miliardi di persone. Nel 2016 la ricchezza detenuta dall’1 per cento della popolazione mondiale supererà quella del restante 99 per cento. La forbice continua ad allargarsi. È il ventunesimo secolo.
Si può discutere sul fatto che una disuguaglianza colmabile con la concorrenza contribuisca a tenere viva (anche sul piano creativo) una società. Ma quando la disuguaglianza supera un certo limite, la violazione dei diritti umani non è lontana. Più una società è violentemente squilibrata, più una porzione via via maggiore dei suoi componenti vede ridursi le possibilità di istruirsi, realizzarsi, partecipare al gioco democratico, sentirsi parte di una comunità, difendere la sua dignità e, infine, sopravvivere. Parlare di disastro alle porte non mi pare insensato.
Ma dove sono questi diritti, nel discorso pubblico? Perché non sono mai davvero seriamente al centro del dibattito politico? Chi li difende? Come mai, quando scoppiano le rivolte nelle periferie delle metropoli, i rivoltosi incendiano le utilitarie del loro stesso quartiere anziché minacciare le Mercedes dei ricchi centri storici? Perché se l’amministratore delegato di una multinazionale licenzia qualche migliaio di dipendenti non è suscettibile di un biasimo generalizzato talmente intenso da minacciarne la posizione, mentre se definisce “frocio” un sottoposto potrebbe rischiare (giustamente) di doversi dimettere? Soprattutto, riusciamo sempre a percepire come tale la feroce e ingiusta spoliazione di risorse di cui stiamo parlando? Non la sentiamo piuttosto come un’oscura forza senza nome che schiaccia sempre più le nostre vite?
In questo video di qualche anno fa, basato su un lavoro di Michael Norton della Harvard business school e Dan Ariely della Duke university, vengono incrociati tre parametri: 1) il modo in cui il 92 per cento dei cittadini degli Stati Uniti (compresi quelli che votano repubblicano) vorrebbe che fosse distribuita la ricchezza nel paese; 2) ciò che, secondo la stessa percentuale, accade nella realtà; 3) ciò che realmente accade. Il risultato del confronto è sorprendente. Oltre nove decimi degli interpellati vorrebbero che il 20 per cento dei più ricchi avesse una ricchezza non molto superiore a quella del 40 per cento dei più poveri e al di sotto di quella della classe media. Gli stessi interpellati sono convinti che quel 20 per cento possieda invece poco più della metà dell’intera ricchezza del paese. La situazione reale è decisamente peggiore. Il discorso non è diverso in altri paesi del capitalismo avanzato.
Com’è possibile che la percezione su una cosa così importante come la distribuzione della ricchezza (e dunque del potere) sia talmente falsata come si vede nel video? E perché, una volta capito come stanno le cose, ci sembra che il problema sollevato sia allo stesso tempo onnipresente e inafferrabile? Che cosa sto cercando di dire, infine, incrociando elementi in apparenza così lontani come la battuta poco felice di un comico dal talento resistibile, la rabbia che viaggia sulla rete e il problema della redistribuzione di ricchezza e opportunità nel mondo in cui viviamo?
Voglio dire che il tema politico ed economico probabilmente più importante di questi anni, nella sostanza è continuamente rimosso. Ci sentiamo sempre meno protetti e tutelati, più instabili e ricattati, umiliati nelle nostre aspettative, insicuri circa le nostre capacità e minacciati in quelli che (ci avevano raccontato) erano i nostri diritti acquisiti. La nostra vita quotidiana (la vita lavorativa, affettiva, relazionale, perfino spirituale) ne risente. Eppure, non esiste una griglia linguistica o culturale (e dunque un contrafforte politico) abbastanza solida per reagire o anche solo nominare in modo certo tutto questo.
Abbiamo speranza (e non è detto che accada, come nel recente caso di Cécile Kyenge davanti agli insulti di Calderoli) di ricevere soddisfazione quando sono violati i nostri diritti di obesi o omosessuali, portatori di handicap o appartenenti a un determinato gruppo etnico o religioso. Ma non abbiamo alcun modo di reagire al fatto che, allargandosi in modo abnorme il fossato che separa chi è sempre più forte da tutti gli altri, le nostre esistenze sono ogni giorno depredate di qualcosa di fondamentale. Sentiamo che ci stanno fregando, ma non abbiamo (o ci siamo fatti strappare) gli strumenti per mettere a fuoco la dinamica attraverso cui ciò accade. È come se una mano invisibile ci prendesse a schiaffi di continuo. Allora speriamo, in maniera perversa, che almeno quella visibile si alzi contro di noi per poter vantare (in una sorta di plusvalore della rabbia) quantomeno il diritto residuale che ci viene riconosciuto. Dammi del frocio, dammi del negro, dammi del terrone, dammi della puttana, dammi del mongoloide! Così almeno potrò reagire centrando un bersaglio reale. Un riflesso condizionato scambiato con un altro rischia di metterci nell’angolo.
Così, la prossima volta che protestiamo con violenza perché l’Alessandro Siani di turno offende un bambino sovrappeso, dovremmo essere talmente bravi da indagare a fondo la natura del nostro risentimento. Una porzione di quella rabbia lotta giustamente per i diritti dei bambini obesi. Ma la parte residua forse agita i suoi artigli nel vuoto, protesta per qualcos’altro. Ecco, sarebbe bene che quell’energia ritorni all’alveo a cui appartiene. O, se volete, sarebbe bene che ogni ferita sia ricondotta al suo reale aggressore. Fare ordine nella propria giungla interiore è il primo passo. Un fantasma si aggira confusamente nel mare delle nostre rabbie quotidiane, e bisogna collocarlo nella griglia linguistica (e subito dopo politica) alla quale appartiene prima che sia troppo tardi. Altrimenti, agitare i sacrosanti diritti delle minoranze sarà l’unica consolazione di un 99 per cento (a cui quelle minoranze stesse appartengono) sempre più offeso e calpestato.