La terra dei fuochi in Toscana
Hai mai visto Bormida? Ha l’acqua color del sangue raggrumato, perché porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle rive non cresce più un filo d’erba. Un’acqua più porca e avvelenata, che ti mette freddo nel midollo, specie a vederla di notte sotto la luna
Beppe Fenoglio, Un giorno di fuoco (Einaudi, 1963).
Quando Beppe Fenoglio scrive Un giorno di fuoco, negli anni della sua giovinezza, l’acqua del fiume Bormida è già rossa, porca e avvelenata, ma la parola ambientalismo, in Italia, non esiste o è patrimonio di illuminate minoranze. Non si pronuncia mai, tuttavia, in presenza di un’altra parola: lavoro. Semmai fabbrica, ma lavoro no. Perché, come nella morra cinese, lavoro spazza via ambiente; che, come la carta, avvolge il sasso, la fabbrica. Ma è sempre meno forte della forbice, il lavoro appunto.
Quando Beppe Fenoglio descrive il fiume Bormida, l’Acna di Cengio la conoscono solo i suoi abitanti e gli operai che ogni giorno timbrano il cartellino e producono coloranti e gas tossici, da più di mezzo secolo.
Quando nel 1963 esce Un giorno di fuoco, Beppe Fenoglio è morto di cancro, ed è passato solo un anno dalla sentenza che ha costretto i contadini della val Bormida a risarcire l’Acna, ora di proprietà della Montecatini, per le spese di un processo durato 24 anni nel quale gli abitanti della valle hanno osato far notare che in effetti va bene l’acqua rossa, ma il fatto che nei campi non cresca un filo d’erba non va bene, o no?
La Montecatini è cresciuta negli anni del fascismo, ha allargato la sua attività in vaste aree del Piemonte, della Liguria, della Toscana, dell’Emilia Romagna: risorse da sfruttare, acqua, manodopera a basso costo e sono nate alcune delle industrie più importanti della chimica italiana.
“Montecatini”, scrive Alberto Prunetti Amianto “non è quella famosa delle terme e di Miss Italia, ma la Montecatini aspra delle Colline metallifere della Val di Cecina, in alta Maremma. La Montecatini che diventerà Edison, poi Montedison, poi si smembrerà in altre società, svenderà alcuni stabilimenti (…)”.
La Montecatini, dalla quale sgorgheranno fiumi e fiumi di storie, storie di minerali e di fabbriche, storie di lavoro, scrive ancora Prunetti, “che hanno avvelenato e rovinato i polmoni con la silicosi, per poi impestare di fanghi rossi il mare di fronte all’arcipelago toscano e alla Corsica, smaltire ceneri di pirite nelle miniere scavate decenni prima e intossicare di metalli pesanti i fiumi e il mare”.
Risorse naturali, acqua, manodopera a basso costo: vengono scavate nuove miniere, ampliate quelle esistenti: rame, zolfo, piriti, fino al grande incidente, quello del 1954, quando a Ribolla, vicino Grosseto, esplode il pozzo Camorra e muoiono 43 minatori. La storia è nota. Luciano Bianciardi e Carlo Cassola sulla tragedia pubblicano I minatori della Maremma.
Poi arriva la prima grande crisi industriale dopo gli anni del boom, la crisi che porta l’Eni a rilevare la Montecatini, è il 1966, nasce la Montedison, l’Italia è in fase di “congiuntura”, ma l’industria chimica continua a crescere, a creare centinaia di posti di lavoro.
La parola ambientalismo è sempre poco usata, poco la usa anche Antonio Cederna, pure tra i pochi in Italia a porre all’attenzione della politica il problema della tutela dell’ambiente insieme a quello della qualità della vita dei cittadini. Proprio nel 1966 pubblica su L’Espresso un’inchiesta sulla distruzione delle coste italiane, la sua attenzione è rivolta principalmente alla speculazione edilizia, nessuno ancora si pone il problema di come ben più grave sia la questione dell’inquinamento.
Eppure gli abitanti della val Bormida continuano le loro battaglie, denunciano l’Acna, ancora non esiste l’orrenda espressione nimby (non nel mio giardino) e nessuno si permette di trattarli come dei terroristi, come succederà anni dopo ai loro omologhi della val Susa; ma in quei primi anni settanta lavoro vince su fabbrica che vince su ambiente.
Questo fino al 1976 quando esplode a Seveso un reattore chimico destinato alla produzione di triclorofenolo, parola incomprensibile, ma tutti, dai quarant’anni in su ne ricordano un’altra: diossina. Ascoltatelo Marco Gisotti che racconta quel 10 luglio e la diossina sprigionata nell’aria che ricopre tutta la Brianza.
Bisogna ricordarsele queste tappe, partire da lontano, allargare lo sguardo nel lungo periodo se vogliamo ricucire le tappe che da Seveso e diossina, e Acna e Cengio, portano a un altro luogo della memoria del movimento ambientalista italiano, ovvero l’incidente della Farmoplant che oggi possiamo ricordare attraverso un libro, La terra bianca, chi l’ha scritto si chiama Giulio Milani, la storia che racconta è questa.
17 luglio 1988. Il serbatoio Rogor della Farmoplant esplode. Tutti ricordano la nube nera che si solleva dalla fabbrica e spinge le persone a fuggire dalla città avvelenata. Quasi un anno prima, il 25 ottobre del 1987 il 75 per cento degli aventi diritto aveva votato per il referendum che chiedeva la chiusura immediata della fabbrica. È il primo referendum consultivo d’Europa per chiedere la chiusura di una fabbrica. L’eco ormai attutita di Seveso è appena stata risvegliata dal boato di Cernobyl.
Risponde sì il 71,69 per cento, la fabbrica deve essere chiusa, perché dall’anno della sua apertura, il 1976, ci sono stati quaranta incidenti, il più grave, un incendio nel 1980 al magazzino esterno del Mancozeb – un pesticida cancerogeno tutt’ora impiegato in viticoltura. Segue la revoca immediata delle licenze per la produzione di Rogor e di Cidial, i due insetticidi considerati più pericolosi. Il 2 novembre 1987, scrive Milani, “la gerenza della Farmoplant licenzia in tronco tutti i dipendenti, perché afferma che senza la produzione di queste due richiestissime sostanze non ci sono le condizioni per proseguire l’attività”.
Ma la Farmoplant vince il ricorso e tutti i lavoratori sono di nuovo assunti. Lo stabilimento riprende la produzione. “Naturalmente il Comune di Massa, Lega ambiente e i Verdi fanno ricorso al Consiglio di Stato contro la sospensione del Tar, e a marzo del 1988 il Consiglio di Stato sospende la sospensione”. Seguono mesi di commissioni, ricorsi e controricorsi. Il ministro dell’ambiente è Giorgio Ruffolo, la persona giusta al posto sbagliato, come titolerà il mensile di Legambiente, per la sua inerzia nell’affrontare il disastro che gli si riversa addosso.
E arriva l’estate del 1988: gli ambientalisti propongono di impiegare gli operai, “durante la riconversione dell’impianto, nella bonifica dei 65 ettari di terreno contaminato dal complesso industriale, ma il progetto non viene neppure preso in considerazione dalla Montedison”.
Nessuno si pronuncia, né il sindaco, né il ministero, né il consiglio dell’azienda.
“In questa attesa il 17 luglio esplode proprio il serbatoio dei formulati liquidi che conteneva Rogor e cicloesanone”. L’annuncio del tg diffonde il panico nelle regioni confinanti malgrado il tono pacato al telegiornale di Luigi Frajese. Muoiono i pesci, muoiono le anguille, il divieto di balneazione appare sulle spiagge di Massa. Ma cresce la consapevolezza che senza determinate condizioni di sicurezza lavorare uccide, non stanca, come scrive nel suo libro un altro figlio di queste terre, Marco Rovelli.
Ere geologiche
Un disastro ambientale che riguarda però anche un altro fondamentale settore produttivo, [quello delle cave](http://www.legambientecarrara.it/nuovo/wp-content/uploads/img-articoli/2012/Antimafia-All.04_2011-04-13-Mafia-cave-Gardini-Sam-Imeg-(Dagospia).pdf) e questa è l’altra grande storia che Milani ricostruisce: “È stata Tangentopoli a indicare in che misura anche per il versante ligure-apuano e apuo-versiliese l’infiltrazione mafiosa – insieme all’arrivo della chimica di Raul Gardini – abbia accompagnato la nascita di un’economia di rapina a esclusivo appannaggio delle multinazionali del carbonato di calcio, fondata sul riciclaggio di proventi al nero e il commercio di rifiuti pericolosi”. Salvatore Calleri è il presidente della fondazione Caponnetto e, racconta Milani, ha denunciato come la Toscana, con trentacinque diverse organizzazioni criminali censite, non sembrasse rendersi conto di rappresentare una potenziale terra di conquista delle mafie.
La chiama, Calleri, auto-omertà. Un silenzio indotto dalla paura di andare a incidere negativamente sulla rappresentazione pubblica della Toscana, marchio nel mondo, di buongoverno unito ad assenza di inquinamento del territorio, ma la “terra dei fuochi”, dice uno dei testimoni del libro di Milani “è anche qui, da noi e da ben prima”.
La dismissione
Decidere quale sia la vocazione di un’area non è cosa semplice: polo chimico o cave di marmo, o addirittura turismo, o altro? “La Farmoplant”, scrive Milani, “chiude nel 1988. La Dalmine nel 1990, è l’ultima grande industria ad andarsene dalla zona. Gli operai della Dalmine sono l’aristocrazia. Ma dalla sera alla mattina perdono il lavoro in 1.500”.
A quel punto la vocazione sembra essere una e una solo, quella del marmo: “Adesso i sindaci si stracciano le vesti per i lavoratori del lapideo”, dice a Milani un operaio in pensione, “ma in tutta la provincia è un miracolo se contano ancora duemila occupati con l’indotto e sono disposti a perdere la ricchezza delle montagne e dell’acqua, a sborsare cifre colossali per il continuo ripristino del dissesto prodotto dall’escavazione, dai trasporti su camion e dalla strozzatura della rete fluviale, a mettere a repentaglio la vita delle persone sotto le alluvioni e le frane pur di salvarli: chiediamoci come mai”.
Qualche anno fa Roberto Barocci ha pubblicato un prezioso libretto, ormai esaurito, per Stampa alternativa, si intitolava ArsENIco. Come avvelenare la Maremma fino alla catastrofe ambientale. In questo si faceva la stessa, identica domanda: perché le istituzioni avevano accettato l’inquinamento delle zone minerarie della bassa Toscana, il colpevole ritardo delle bonifiche ambientali, ritardo che aveva finito per avvelenare terreni e corsi d’acqua, e corpi, dalle Colline Metallifere giù fino alla costa?
Si domandava l’autore nell’introduzione: “Chi governa nel nostro paese? Nella Regione Toscana? Dove vengono prese le decisioni importanti che riguardano le risorse strategiche, dalla salute alle risorse idriche, al lavoro, alla qualità dell’ambiente…? Chi sono i mercificatori che si piegano a interessi di pochi e riescono ad imporre queste scelte anche agli onesti? Come può avvenire tutto ciò?”.
Una questione d’amore
“Avevamo bisogno di lavorare e le cose che dicevano sulla pericolosità delle produzioni ci parevano esagerate. Le istituzioni, i partiti, i sindacati, i tecnici: per tutti l’insediamento era sicuro, anzi, una vera benedizione per la zona industriale e per il nostro avvenire. I quadri dell’azienda abitavano nei dintorni della fabbrica, ma anche i politici abitavano non lontano. Se il pericolo c’era, c’era per tutti. Come si poteva pensare di essere ingannati fino a questo punto?”. Alla fine, comunque, questo rimane l’interrogativo più lacerante lasciato aperto dall’inchiesta di Milani, non le mafie, non le morti, non la fine del lavoro, ma questo: se il pericolo c’era, c’era per tutti, perché inquinare, avvelenare, uccidere?
Mi raccontava qualche anno fa Sandro Veronesi una scritta che aveva visto una volta su muro: “Chi inquina l’acqua beve pure lui”. Ci ho pensato tutto il tempo a questa scritta mentre leggevo il libro di Milani, così come ho pensato alle acque rosse del fiume Bormida, all’arsenico della Maremma. Chi inquina la terra ci vive pure lui. Deve essere dunque solo una questione d’amore, senza altre spiegazioni, come suggerisce nella sua recensione a Milani, Annalisa Andreoni, parafrasando Brecht: “Sventurata la terra che non è amata dai suoi”.