Il 21 maggio del 2014 Maria Baratto, operaia di 47 anni, si uccide nel piccolo appartamento in cui vive da sola ad Acerra, colpendosi più volte con un coltello all’addome. Il suo corpo rimane riverso sul pavimento per quattro giorni. Nessuno la cerca, nessuno la chiama. Sono i vicini a dare l’allarme, insospettiti dall’odore sempre più acre che proviene dall’abitazione.
Maria Baratto è in cassa integrazione da sei anni, vive con 800 euro al mese. Ma non è una cassintegrata qualunque. Maria è una dei 316 lavoratori spediti dalla Fiat nel reparto confino dell’interporto di Nola, un capannone desolato a venti chilometri dallo stabilimento di Pomigliano d’Arco, totalmente slegato dal cuore della produzione. A partire dalla fine del 2008, qui sono stati trasferiti tutti quegli operai che per militanza sindacale o per “ridotte capacità lavorative” (cioè anche quando malati) non reggevano o non volevano reggere i ritmi della innovazione tecnologica.
Benché se ne parli poco, in Italia esistono ancora i reparti confino, proprio come nella Fiat degli anni cinquanta, quella di Vittorio Valletta. Sono i reparti in cui vengono relegati, spesso dopo essere stati demansionati, i dipendenti ritenuti “facinorosi”, “ingovernabili”, “ingestibili”. Hanno la forma di palazzine non ristrutturate, o di spogli magazzini, o di uffici fino ad allora disadorni e che tali rimangono.
Ai lavoratori “confinati” non è chiesto di produrre, ma di passare le giornate senza fare niente, guardando il soffitto o girandosi i pollici, fino a quando quel lento, prolungato stato di inazione non diventa una forma estrema di violenza contro la propria mente e il proprio corpo. Il confinato vive in una condizione di perenne sospensione in cui la fabbrica finisce per apparirgli come un mondo a parte, che può essere osservato solo attraverso uno spioncino. In breve, il confinato diventa monito per tutti gli altri, per tutti quelli cioè che continuano a lavorare alla catena. Se non ti comporti bene, ecco cosa ti aspetta… Allo stesso tempo, chi è spedito in un reparto confino è costantemente esposto al ricatto di passare dal confinamento al licenziamento, di cadere dalla padella nella brace.
Un caso che ne racchiude molti è quello di Mimmo Mignano, dipendente iscritto ai Cobas e trasferito a Nola. Per tre volte è stato licenziato dalla Fiat senza giusta causa e per tre volte è stato reintegrato, grazie a una sentenza del tribunale del lavoro, che ha obbligato l’azienda a riassumerlo.
Negli ultimi anni, tre operai confinati all’interporto di Nola si sono suicidati. Ma queste morti sono solo la spia di un malessere e di una collera molto più diffusi. Nel 2012 era stata proprio Maria Baratto a scrivere sul sito del Comitato mogli operai di Pomigliano che “non si può continuare a vivere per anni sul ciglio del burrone dei licenziamenti”. Riletto ora, il suo appare tanto uno sfogo, quanto un mesto parlare al vento: “Il tentato suicidio di oggi di Carmine P., cui auguriamo di tutto cuore di farcela, il suicidio di Agostino Bova dei giorni scorsi, che dopo aver avuto la lettera di licenziamento dalla Fiat per futili motivi è impazzito dalla disperazione ammazzando la moglie e tentando di ammazzare la figlia prima di togliersi la vita, sono solo la punta dell’iceberg della barbarie industriale e sociale in cui la Fiat sta precipitando i lavoratori”.
Di Maria ci sono solo poche foto in rete, quasi tutte legate agli articoli che parlano del suo suicidio. In tutte il suo volto appare stanco, gli occhi celesti segnati da occhiaie gonfie, i capelli castani lunghi. Le labbra tirate accennano appena un sorriso. In molte dimostra meno dei suoi anni. Nel 2009 era stata intervistata per un documentario di Luca Rossomando, La fabbrica incerta. A un certo punto, guardando appena la telecamera, diceva: “A 22 anni montavo il tergilunotto sull’Alfa 33 da sola, oggi prendo psicofarmaci”.
Dopo la sua morte, sono stati licenziati cinque operai che hanno protestato contro la dirigenza aziendale a Pomigliano. Si erano finti cadaveri, imbrattandosi di sangue e stendendosi sull’asfalto, dopo aver appeso a un palo della luce un manichino con la faccia di Marchionne.
Tre mesi prima della morte di Maria, Giuseppe De Crescenzo, attivista sindacale dello SlaiCobas confinato a Nola, si era impiccato nella sua casa di Afragola. Aveva 43 anni.
La storia dei reparti confino parte da lontano. Il più noto è il caso della Osr (Officina sussidiaria ricambi) di corso Peschiera a Torino. A partire dal dicembre del 1952, la Fiat di Valletta vi destinò 130 lavoratori per motivi politici e sindacali. Erano quasi tutti comunisti, più qualche socialista. Nel gergo aziendale erano stati catalogati come “facinorosi”. Nel 1957 il reparto fu chiuso, e gli operai licenziati, ma per tutto quel lasso di tempo, nel pieno dei bui anni cinquanta, la Osr (chiamata dai confinati Officina stella rossa) era stata una pietra di paragone dei rapporti di lavoro.
Il sociologo Aris Accornero ha raccolto trenta testimonianze di operai finiti a corso Peschiera in Fiat confino, un vecchio libro delle Edizioni Avanti del 1959. Più di recente Ornella Bellucci e Danilo Licciardello hanno realizzato un documentario, Democrazia sconfinata, in cui provano a individuare le tracce del passato dell’Officina stella rossa nel presente del polo logistico di Nola.
Nel mezzo andrebbe citato un altro libro, Le schedature Fiat di Bianca Guidetti Serra, che Einaudi non volle pubblicare e che uscì per Rosenberg nel 1984. L’avvocata ed ex partigiana Guidetti Serra racconta l’incredibile caso, emerso solo nel 1970, delle decine di migliaia di schedature realizzate dai vertici Fiat ai danni dei suoi dipendenti e fatte fare da una struttura di spionaggio interno costruita ad hoc. Nelle schede erano appuntati i dettagli della vita privata, le abitudini, i costumi, la fede religiosa, quella politica, di tantissimi operai.
La vicenda, scrive Bianca Guidetti Serra, venne fuori in modo del tutto casuale, quando nel settembre del 1970 un tale di nome Caterino Ceresa intentò una causa alla Fiat sostenendo di aver lavorato per anni con una qualifica diversa da quella corrispondente alle sue mansioni. Benché assunto come fattorino, le sue mansioni consistevano in realtà nell’informare l’azienda con “ampie relazioni scritte in ordine alle qualità morali, ai trascorsi penali, alla rispettabilità delle persone con le quali la società stessa era o doveva entrare in relazione”.
Ceresa perse la causa, ma fu avviato un procedimento contro quei funzionari della Fiat che, alle dipendenze dell’ex colonnello Mario Cellerino, avevano organizzato l’ufficio affari generali incaricato di indagare sugli operai. Quando l’allora pretore Raffaele Guariniello si presentò nei locali della Fiat per sequestrare il materiale necessario all’indagine, si trovò davanti 354.077 schede personali raccolte su lunghi scaffali.
Schedature e confino, nella storia della grande industria italiana, paiono essere andate sempre di pari passo. Eppure non sono il prodotto di un colpo di testa o dell’efferatezza parafantozziana di qualche dirigente. Né si tratta semplicemente di casi isolati di mobbing. Al contrario, appaiono il frutto di un’operazione costruita nei minimi dettagli e applicata su larga scala.
Come ricorda Antonio Montella, operaio specializzato Fiat iscritto ai Cobas, finito anche lui al polo logistico di Nola, “alla fine del 2008 ci hanno fatto fare dei corsi di formazione Inail. Dei professori ci hanno interrogato a lungo, volevano sapere tutto delle nostre vite, delle nostre famiglie e del nostro lavoro, del sindacato cui appartenevamo e delle attività che svolgevamo, e poi tante altre domande… Hanno fatto il nostro curriculum psicologico e lavorativo, e lo hanno presentato all’azienda per vedere chi era idoneo e chi no”.
I non idonei sono finiti a Nola. Non solo chi, come nella Fiat di Valletta, era definito “facinoroso”. Anche, in alcuni casi, chi si è ammalato o soffre delle patologie da lavoro alla catena di montaggio, e questo anche se all’interno del polo logistico, raggiungibile da Pomigliano solo con un pullman aziendale, non c’è un’infermeria.
Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, il confinato è costantemente portato a pensare: perché io, e non altri? O meglio, come dice Nello Pacifico nel documentario Democrazia sconfinata, “il problema non sono i militanti. Quelli lo sanno perché sono finiti là dentro e non hanno paura. Il problema sono gli altri, quelli che vivono nel terrore di poterci finire o che ci sono finiti non capendone bene il motivo”. A Nola, per esempio, il “problema” riguarda quelli finiti nel limbo costituito dai dipendenti a “ridotte capacità lavorative”. Per loro, spesso, il confino risulta molto più duro.
A prima vista, i reparti confino possono sembrare un fossile ottocentesco, eppure negli ultimi anni sono stati creati all’interno di alcuni colossi del nostro sistema industriale. Non solo alla Fiat, ma anche all’Ilva.
Nel 1997, due anni dopo la privatizzazione dell’Italsider di Taranto, Riva fece confinare nella Palazzina Laf (Laminatoio a freddo) 79 dipendenti che non avevano accettato di essere demansionati da impiegati a operai. Molti di loro erano iscritti al sindacato. Altri no, si sono avvicinati solo in seguito, dopo essere finiti in quello che hanno definito “una specie di manicomio”. Con Riva, che a Taranto è stato percepito immediatamente come la reincarnazione del padrone delle ferriere, la torsione disciplinare della fabbrica si è accentuata in poco tempo. Agli occhi delle migliaia di giovani operai assunti con i contratti di formazione lavoro al posto dei cinquantenni usciti con i prepensionamenti, la Palazzina Laf ha rappresentato il vertice di un sistema di controllo, premio e punizione che ha attraversato longitudinalmente ogni reparto della più grande acciaieria del paese.
Nel 2001 Emilio Riva e Luigi Capogrosso, allora direttore dello stabilimento jonico, sono stati condannati a due anni e tre mesi. La tesi avanzata dalla procura ha retto fino alla cassazione: per la prima volta il confino in fabbrica è stato associato a una forma sottile di violenza privata.
Tuttavia quella della Palazzina Laf non è solo una storia del recente passato. Costituisce, invece, un precedente che si è ripetuto in forme più raffinate negli anni successivi. Tra le migliaia di pagine dell’inchiesta “Ambiente svenduto”, in cui sono indagati i vertici del gruppo siderurgico per “disastro ambientale”, la parte più inquietante è quella riservata ai cosiddetti “fiduciari”, cioè i dirigenti-ombra che avrebbero avuto il compito di controllare i dipendenti, e gli stessi dirigenti ufficiali, al fine di non arrestare una produzione concepita come refrattaria a ogni norma. “Una sorta di Gladio interna”, l’ha definita un sindacalista della Fiom, Rosario Rappa. Una piramide dedita allo spionaggio e al mantenimento della disciplina, e quindi della cappa di silenzio, non molto diversa dal laboratorio delle schedature di quarant’anni prima alla Fiat.
Fiat, Ilva… I suicidi di Maria Baratto e Giuseppe De Crescenzo, le storie dei confinati caduti in depressione o costretti a fare uso pesante di psicofarmaci, le storie di militanti sindacali di base che per anni si ritrovano a lottare contro i Golia dell’industria come contro i mulini a vento, fanno emergere tutte le pieghe sdrucite del sistema industriale italiano. È spesso un’Italia di periferia, quella dei paesoni campani, come quella delle periferie di Taranto, che affonda nella crisi lontano dai riflettori. Eppure queste storie non sono il prodotto del non-lavoro o di un sistema di microimprese. Sono avvenute nel cuore dei due più grandi gruppi industriali del paese. Quelli che nell’immaginario collettivo rimandano ancora all’idea di fabbrica. Cambia l’epoca, cambia il linguaggio. Al terrore dei “facinorosi” di ieri, si è sostituito il mito attuale della “governabilità” della fabbrica. Tutto ciò che è governabile può essere mantenuto in Italia. Tutto ciò che è “ingovernabile” dovrà necessariamente far posto ad altri stabilimenti, magari aperti in altri lidi e paesi. Nell’attesa, si creano delle falle: la lotta sotterranea tra governabilità e ingovernabilità passa attraverso l’antica tradizione dei reparti confino.
Maila Iacovelli e Fabio Zayed collaborano dal 2000 nell’ambito della fotografia di scena nel teatro e nel cinema. A questa esperienza affiancano progetti di ricerca a lungo termine in ambito sociale e antropologico tra cui “The empty tombs” che è stato esposto al Festival internazionale di fotografia di Roma, “Revolutionary petunias” e “Confino-exil units”.
Alessandro Leogrande è vicedirettore del mensile Lo straniero. Tra i suoi
libri: “Uomini e caporali” (Mondadori 2008), “Il naufragio” (Feltrinelli 2011, da cui è tratta l’opera “Kater i Rades. Il naufragio”) e “Fumo sulla città” (Fandango 2013).
Foto scattate tra il 2010 e il 2012 da Maila Iacovelli-Fabio Zayed (Spot the Difference).
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