L’11 marzo del 2011 un terremoto sottomarino di magnitudo 9 ha colpito la costa orientale della regione di Tōhoku, in Giappone, scatenando uno tsunami alto fino a 40 metri che ha devastato l’entroterra fino a 10 chilometri dal mare. Secondo le autorità giapponesi le vittime accertate sono state 15.884, mentre 2.633 persone risultano ancora disperse.
Lo tsunami ha danneggiato il sistema di raffreddamento della centrale nucleare di Fukushima Daiichi, causando la fusione di tre reattori. Circa trecentomila persone sono state sfollate dalle aree circostanti, ma secondo l’Organizzazione mondiale della sanità la quantità di radiazioni emessa è stata troppo bassa per avere gravi conseguenze sulla salute.
A tre anni dall’incidente l’emergenza non è ancora finita. I lavori di decontaminazione del suolo dureranno ancora molti anni e alcune zone potrebbero non essere mai più dichiarate abitabili. La centrale continua a rilasciare acqua radioattiva, contaminando il suolo e l’oceano.
Secondo l’Asahi Shimbun però il pericolo più grave non è rappresentato dalle radiazioni, ma dalle condizioni degli sfollati, che sono stati trasferiti in media sette volte dopo l’incidente. Lo stress fisico e psicologico e il mancato accesso all’assistenza sanitaria hanno provocato 1.660 vittime e continuano a uccidere circa trenta persone al mese. Le autorità locali hanno organizzato un servizio di consulenza psicologica per alleviare l’ansia e i problemi mentali tra i rifugiati.
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