Un secolo fa, nella primavera del 1924, la sinistra tedesca si lanciò in una difficile battaglia per redistribuire la ricchezza degli Hohenzollern, la famiglia regnante che aveva da poco perso il potere in Germania dopo l’abdicazione di Guglielmo II e la creazione della Repubblica di Weimar. Questo episodio ci offre molte lezioni per la contemporaneità e merita di essere ricordato, perché illustra la capacità delle élite di usare il linguaggio del diritto per difendere i propri privilegi, indipendentemente dalla loro ricchezza o dai bisogni collettivi: ieri era la ricostruzione delle società europee martoriate dalla prima guerra mondiale, oggi si tratta delle nuove sfide sociali e climatiche.

L’episodio è particolarmente interessante perché la costituzione di Weimar è considerata tra le più avanzate sul piano sociale e democratico. In particolare, sia la costituzione del 1919 (detta di Weimar) sia la legge fondamentale della Repubblica Federale di Germania del 1949 hanno dato una definizione innovativa della proprietà, considerata nella sua finalità sociale. Il testo del 1919 prevedeva che la legge stabilisse il regime di proprietà immobiliare e la ripartizione del suolo in funzione di obiettivi come assicurare “un’abitazione sana a tutte le famiglie” e “un patrimonio economico corrispondente ai loro bisogni”. Adottata in un contesto quasi insurrezionale, quella costituzione consentì una redistribuzione delle terre e introdusse nuovi diritti.

Il fallimento della riforma voluta dalla sinistra tedesca nel 1924 va ricordato, perché illustra la capacità delle élite di usare il linguaggio del diritto per difendere i suoi privilegi

La costituzione tedesca del 1949 afferma a sua volta che il diritto di proprietà è legittimo solo nella misura in cui “contribuisce al benessere generale della collettività”. Inoltre specifica che la socializzazione dei mezzi di produzione e la ridefinizione del regime di proprietà rientrano nell’ambito della legge. Queste espressioni hanno aperto alla possibilità di riforme strutturali. Nel 1951 si stabiliva che i rappresentanti dei lavoratori avessero il 50 per cento dei posti nei consigli di amministrazione o di sorveglianza delle grandi aziende dell’acciaio e del carbone, indipendentemente dalla quota di capitale controllato. Nel 1952 questo sistema veniva esteso a tutti i settori economici. La legge del 1976 definisce il regime in vigore oggi, che assegna un terzo dei seggi ai lavoratori nelle imprese che impiegano tra i cinquecento e i duemila dipendenti, e la metà dei seggi in quelle più grandi.

Sempre in questo contesto il parlamento tedesco adottava nel 1952 un meccanismo di “ripartizione degli oneri”, consistente in un prelievo che poteva arrivare al 50 per cento sui grandi patrimoni. Questo ha permesso di riscuotere somme notevoli (circa il 60 per cento delle entrate nazionali tedesche del 1952) e che avrebbero finanziato importanti sostegni per i piccoli e medi patrimoni penalizzati dalle distruzioni della guerra e dalla riforma monetaria del 1948, e inoltre avrebbe reso politicamente accettabile questa misura per ridare respiro alle finanze pubbliche.

Tuttavia, nel contesto delle lotte politiche tra il 1924 e il 1926, questa modernità non bastò. In Austria i beni imperiali degli Asburgo diventarono beni collettivi. In Germania invece gli Hohenzollern riuscirono a mantenere le loro proprietà (più centomila ettari di terra, una decina di castelli, opere d’arte e altro). Non fu adottata alcuna misura di redistribuzione. Numerose sentenze invalidarono inoltre alcune decisioni prese dai governi regionali che limitavano l’uso privato e aprivano l’accesso pubblico ai castelli e alle opere d’arte. Dopo l’iperinflazione del 1924 i principi Hohenzollern, con il paese in ginocchio, pretesero una revisione delle loro pensioni.

I comunisti del Kpd, seguiti dai socialdemocratici (Spd), depositarono allora una proposta di legge per espropriare i beni dei nobili a beneficio dei più poveri. Raccolsero più di dodici milioni di firme nel 1925, nella più grande petizione della storia tedesca. La legge stava per essere approvata, ma la vaghezza delle formule costituzionali sulle compensazioni permise al presidente Paul von Hindenburg d’imporre preventivamente una revisione costituzionale. Il referendum del giugno 1926 richiamò 16 milioni di elettori (di cui il 90 per cento a favore dell’espropriazione). Ma la partecipazione fu di poco inferiore alla soglia del 50 per cento richiesta per cambiare la costituzione.

Invitando all’astensione e denunciando i rischi che una vittoria comunista avrebbe comportato per la piccola e media proprietà, la destra tedesca e i grandi proprietari terrieri, alleati con il centro e con i nazisti (che si opponevano alla lotta di classe e caldeggiavano l’espropriazione dei beni degli ebrei entrati nel paese dopo il 1914) riuscirono a bloccare quel processo e a impedire una possibile unione della sinistra.

Questo episodio è fondamentale, perché illustra l’importanza delle battaglie costituzionali nella marcia verso l’uguaglianza. Un processo ancora in corso che senza dubbio conoscerà nuovi sviluppi nei prossimi anni. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1556 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati