L’accoglienza dei migranti è un business. E non solo per chi sulla pelle dei profughi fa affari illeciti. Assistere le persone che ogni giorno arrivano sulle coste italiane, ospitare nelle strutture i richiedenti asilo e i titolari di protezione internazionale muove introiti che favoriscono innanzitutto gli enti territoriali e aumentano le entrate a livello locale. Profitti che in alcuni casi sono una vera e propria manna dal cielo, soprattutto per le zone in cui si soffre più la crisi.

Secondo gli ultimi dati forniti dal ministro dell’interno Angelino Alfano, a giugno erano 78mila i migranti ospitati nei centri italiani, tra strutture temporanee (48mila), strutture di accoglienza per richiedenti asilo (20mila) e centri governativi (10mila). Per la loro assistenza lo stato stanzia ai centri convenzionati una somma media giornaliera di circa 35 euro al giorno a migrante (in cui rientrano anche i 2,5 euro al giorno del pocket money che spetta agli ospiti per le piccole spese giornaliere).

“Quello dei 35 euro è il costo calcolato mediamente per i progetti del Sistema di protezione per rifugiati e richiedenti asilo (Sprar). Ma nel tempo si è attestato come costo medio anche per l’accoglienza straordinaria messa in pratica dalle prefetture”, spiega Daniela Di Capua, direttrice dello servizio centrale Sprar. “Il costo viene calcolato in base al progetto che l’ente titolare presenta al momento in cui partecipa al bando. Nel presentare il budget ci si adegua anche al costo della vita locale, ci sono infatti territori in cui i servizi sono assenti e devono essere attivati, mentre in altri già esistono. Di tutto questo si tiene conto nel calcolare la spesa”. Stando alle cifre dichiarate dal ministero, dunque, la spesa massima quotidiana per l’accoglienza è di 2,73 milioni di euro, circa 82 milioni al mese, oltre 980 all’anno.

I soldi restano nei comuni

“Sono soldi che non vanno assolutamente in mano ai migranti ma che rappresentano il costo del loro mantenimento”, continua Di Capua. “Se togliamo i 2,5 euro circa di pocket money, restano più di 32 euro (il 92 per cento del totale) a migrante che servono, prima di tutto, per coprire la spesa del personale: cioè per pagare gli stipendi, i contributi e i contratti degli operatori che lavorano nei centri, e che sono soprattutto giovani italiani. Una parte è spesa per l’alloggio e per il mantenimento delle strutture, che alcune volte sono di proprietà dei comuni e vengono ristrutturate e altre volte sono prese in affitto da privati della zona. Infine, una parte serve a pagare i fornitori, da quelli di generi alimentari alle farmacie fino alle cartolerie”.

L’accoglienza è vantaggiosa da diversi punti di vista, quello culturale sicuramente, ma anche quello economico

Si tratta di una spesa che sostanzialmente rimane nei comuni, spiega ancora la direttrice del servizio Sprar, non solo quelli vincitori dei bandi per l’accoglienza ma anche quelli limitrofi: “L’accoglienza è vantaggiosa da diversi punti di vista, quello culturale sicuramente, ma anche quello economico”, dice Di Capua. “Nel caso dello Sprar sono 400 circa i comuni direttamente coinvolti nei progetti, ma secondo i nostri calcoli a beneficiarne sono almeno il triplo, cioè oltre mille. Questo perché spesso gli enti territoriali fanno accordi con comuni limitrofi per gestire meglio l’accoglienza. Stiamo portando avanti un monitoraggio proprio su questo e dai primi risultati emerge che il flusso finanziario ha un impatto positivo su un territorio ampio”.

Dal cibo ai vestiti

Per la ripartizione dei fondi erogati per l’accoglienza, fa fede la convenzione che il gestore del centro stipula con la prefettura di riferimento: dentro quei 35 euro pro capite pro die ci devono rientrare l’acquisto e l’erogazione dei pasti, i servizi, il pocket money, la manutenzione delle strutture e in alcuni casi anche i progetti di integrazione.

In una convenzione standard, per esempio, viene messo nero su bianco che i pasti al giorno devono essere tre – colazione, pranzo e cena – sette giorni alla settimana. Nella scelta delle pietanze (che devono essere genuine e di qualità) si chiede di prestare attenzione a cibi “non in contrasto con i princìpi e le abitudini dei richiedenti asilo”, in particolare rispettando i vincoli religiosi. Inoltra ai migranti va fornita una carta ricaricabile da 15 euro, prodotti per l’igiene personale, vestiti, un posto letto adeguato, un servizio di lavanderia, assistenza nel caso di nuclei familiari con bambini. Infine gli ambienti devono essere puliti assicurando un “comfort igienico e ambientale”.

“Tolti i 2,5 euro di pocket money e il cibo che mangiano, ai migranti non va nient’altro”, sottolinea don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco e della fondazione Caritas in veritate, che a Fermo ospita cento rifugiati in un progetto di prima accoglienza. “Il resto viene speso sul territorio. Bisogna assicurare personale adeguato: educatori, mediatori culturali, uno psicologo e una cuoca. E questi sono posti di lavoro. Il cibo poi viene comprato sempre in zona, così come le medicine e i vestiti”.

Quando c’è stato il terremoto all’Aquila lo stato pagava per l’accoglienza ai terremotati 64 euro al giorno

“L’accoglienza è chiaramente un vantaggio, questo nessuno lo dice”, aggiunge Albanesi. “Al sud in particolare è un modo anche per sistemare le persone, il caso più eclatante è il Cara di Mineo, dove il consorzio dei comuni, titolare del progetto, era interessato non tanto alla speculazione finanziaria quanto ai 500 posti di lavoro per le persone del luogo”.

Ovviamente, spiega ancora Albanesi, sono in tanti quelli che continuano a lucrare sull’accoglienza, perché il ritorno economico è sostanzioso, soprattutto in un momento di crisi. Il presidente della Comunità di Capodarco sottolinea infine il paradosso di chi continua a parlare di costi enormi per l’accoglienza: “Quando c’è stato il terremoto all’Aquila lo stato pagava per l’accoglienza ai terremotati 64 euro al giorno. Molti erano sistemati negli alberghi della costiera adriatica, ma nessuno ha protestato. Perché oggi 35 euro ci sembrano così tanti? Solo perché queste persone sono nere?”.

Dopo l’inchiesta Mafia capitale, su tutti coloro che lavorano nell’ambito dell’accoglienza si è abbattuta un’ondata di disprezzo

Ad Asti, la onlus Piam, che da anni si occupa di tratta ma anche di accoglienza ai richiedenti asilo e rifugiati, ha lanciato addirittura una campagna mediatica dal titolo “L’accoglienza fa bene”. “Le regioni guadagnano (l’iva), l’Inps sta meglio (con i contributi versati ai lavoratori dell’accoglienza ), noi ne beneficiamo (una buona accoglienza è più salutare per tutti, le malattie si prevengono con un tetto, qualche pasto e una buona doccia)”, si legge in uno dei suoi spot.

“Gestiamo uno Sprar con 60 persone, ma nell’ultimo anno abbiamo ampliato il numero dell’accoglienza attraverso una convenzione con la prefettura, e in totale struttura ospitiamo 140 migranti”, spiega Alberto Mossino, presidente di Piam. “Una parte dei fondi Sprar sono destinati alla comunicazione, e normalmente le organizzazioni li spendono in occasione della Giornata mondiale del rifugiato. Noi abbiamo pensato di lanciare questa campagna per rispondere ai tanti pugni che ci arrivano da ogni parte”, spiega.

“Dopo l’inchiesta Mafia capitale, su tutti coloro che lavorano nell’ambito dell’accoglienza si è abbattuta un’ondata di disprezzo. E perciò volevamo chiarire alcune cose: innanzitutto che l’accoglienza fa bene perché ne beneficia chi lavora nei luoghi in cui essa viene messa in pratica. Un esempio? Questa mattina ho speso 500 euro in vestiti per i migranti che sono arrivati nel nostro centro, li ho comprati in un negozio qui vicino. Sempre qui compriamo gli alimenti, e quando abbiamo qualche lavoretto da fare ci rivolgiamo in zona. A Natale abbiamo speso quattromila euro per comprare delle biciclette ai migranti da un artigiano che lavora poco distante da noi. Questo va detto, bisogna chiarire che le ricadute ci sono”.

Mossino invita però anche a fare i giusti distinguo: “C’è chi lavora bene e chi specula. Purtroppo i controlli, soprattutto nei casi dell’accoglienza straordinaria sono troppo pochi. Ci sono centri riempiti all’inverosimile, dove gli standard sono totalmente inadeguati ma nessuno se ne preoccupa. C’è chi si mette in questo giro solo per speculare, perché in questo momento è un guadagno che fa gola a tanti”.

Questo articolo è stato pubblicato su Redattore Sociale.

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