All’apparenza, questo dovrebbe essere un giorno trionfale per la Cina. Ha appena annunciato che nel 2015 la sua economia è cresciuta del 6,9 per cento, appena un po’ meno del 7,3 per cento annuo registrato nel 2014. Si tratta di un buon risultato, dato l’agitazione dei mercati emergenti e le immense dimensioni (diecimila miliardi di dollari) dell’economia (oggi una crescita del 6,9 per cento porta un aumento di ricchezza superiore a quello derivante da una crescita del 14,2 per cento nel 2007).

Ma l’affossamento dei mercati azionari cinesi, il crollo delle materie prime globali e la pressione al ribasso nei confronti dello yuan hanno diffuso l’idea che il quadro economico sia in realtà più fosco. Ma se le statistiche sono così incoraggianti perché così tante persone sono così pessimiste nei confronti della Cina?

La risposta più ovvia è che nessuno si fida troppo dei dati. Per molto tempo la Cina è stata sospettata di manipolare le statistiche per aggiustare le proprie tendenze di crescita, dichiarando valori di pil inferiori quando questo si surriscaldava e gonfiandoli in periodo di stasi economica.

A giudicare dalla strana stabilità degli indicatori principali, sembrerebbe che gli statistici cinesi abbiano fatto proprio questo. Rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, la crescita negli ultimi sei trimestri è stata rispettivamente del 7,2 per cento, 7,2 per cento, 7 per cento, 7 per cento, 6,9 per cento e 6,8 per cento. Cifre simili sono improbabili.

È una magra consolazione per i paesi che avevano fatto affidamento su una domanda cinese in costante crescita

Alcuni studi privati suggeriscono che la crescita sia stata molto più lenta lo scorso anno, con un’economia inizialmente debole e poi in crescita, negli ultimi mesi, grazie alle politiche di stimolo. Usando un insieme di statistiche alternative che vanno dal consumo di energia elettrica alla vendita di automobili, molti analisti stimano che in realtà la crescita dello scorso anno sia stata del 5-6 per cento, un dato discreto ma sicuramente non eccezionale come sostiene il governo.

La crescita tendenziale, tuttavia, è solo uno dei problemi. Se si osservano più da vicino le caratteristiche della crescita cinese, emerge un quadro di estrema debolezza in alcuni settori dell’economia. L’industria pesante è in cattivo stato, segnata dall’eccesso di capacità produttiva e dal calo della domanda. Il settore dei servizi, dalla finanza alla sanità, è molto più solido. Ma i servizi, per loro natura, vengono forniti perlopiù a livello locale. La Cina è in grado di ottenere una parte maggiore di ciò di cui ha bisogno da sola e non attraverso le importazioni.

Le prime crepe

Questa è una magra consolazione per gli altri paesi, e soprattutto per i produttori di materie prime, che avevano fatto sempre più affidamento su una domanda cinese in costante crescita. Le statistiche ufficiali sono estremamente chiare su questa biforcazione dell’economia: nei primi nove mesi del 2015, i servizi sono cresciuti dell’11,6 per cento rispetto all’anno precedente, mentre il settore manifatturiero solo dell’1,2 per cento.

La principale preoccupazione a proposito della crescita cinese è che il peggio debba ancora venire. Il debito totale, che rappresentava circa il 150 per cento del pil prima della crisi finanziaria globale nel 2008, è salito oggi a quasi il 250 per cento. In altri paesi, un simile aumento dell’indebitamento ha fatto da apripista a gravi problemi economici. In Cina cominciano a emergere alcune crepe: le fughe di capitale sono aumentate, i fallimenti sono più frequenti e i prestiti inesigibili sono in crescita. È pressoché certo che il futuro riservi ulteriori problemi, anche se non è ancora chiaro quanto saranno grandi e come andranno esattamente le cose.

Ma se c’è un elemento dell’economia cinese sul quale possiamo essere tutti d’accordo, è il fatto che il divario tra le statistiche ufficiali e la percezione dei mercati è ormai diventato un baratro.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo di S.R. è stato pubblicato su The Economist.

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