Pioniere della semiotica, la scienza dei segni, e teorico del linguaggio (in particolare della ricezione), tema che percorre in filigrana tutta la sua opera di romanziere, lo scrittore e saggista italiano Umberto Eco è morto il 19 febbraio 2016, nella sua abitazione di Milano, all’età di 84 anni, come confermato dalla famiglia al quotidiano italiano la Repubblica.

Semiologo di fama internazionale, autore di numerosi saggi sull’estetica e i mezzi di comunicazione di massa, si è avvicinato tardi al romanzo, ma è il notevole successo della sua prima opera, Il nome della rosa, che gli ha garantito una notorietà quasi universale.

Nato in Piemonte, ad Alessandria, il 5 gennaio 1932, in una famiglia della piccolissima borghesia (suo nonno è un trovatello e suo padre, più grande di tredici fratelli, è il primo della famiglia a passare dal proletariato al ceto impiegatizio), Eco cresce in un ambiente segnato dalla guerra e dalla resistenza. “Tra gli 11 e i 13 anni, ho imparato a schivare le pallottole”, ha raccontato una volta il professore, di solito restio a qualsiasi confidenza intima. Dopo aver concluso gli studi universitari in filosofia ed estetica a Torino, nel 1954 discute, sotto la guida del filosofo antifascista Luigi Pareyson, una tesi sull’estetica di Tommaso d’Aquino, pubblicata nel 1956 con il titolo Il problema estetico in San Tommaso.

Ma Eco non si limita agli studi teorici. Dal 1955 è assistente alla Rai e collabora ai programmi culturali. Mentre stringe amicizia con il musicista Luciano Berio, aderisce alla neoavanguardia che, per quanto “di sinistra”, rifiuta la letteratura “impegnata”. Eco collabora così, a partire dal 1956, con Il Verri e la Rivista di Estetica. Dirige nel 1960 una collana di saggi filosofici per l’editore milanese Bompiani e prolunga quest’avventura collettiva partecipando nel 1963, con alcuni giovani intellettuali e artisti della sua generazione, tra cui Nanni Balestrini e Alberto Arbasino, alla fondazione del Gruppo 63, nel quale la riflessione su una nuova estetica segue il solco tracciato da Joyce, Pound, Borges e Gadda, tutti autori fondamentali per Eco.

Prima dell’austero mensile Quindici, lanciato nel giugno del 1967 e futuro laboratorio dei movimenti del 1968, lo stesso gruppo lancia nel 1963 Marcatré, una rivista di cultura contemporanea (arte, letteratura, architettura, musica) che vivrà fino al 1970. Nel frattempo il giovane filosofo, attratto dal giornalismo, avvia una duratura collaborazione con la carta stampata: con The Times Literary Supplement, dal 1963, e con l’Espresso dal 1965.

L’esperienza alla Rai

Non abbandona l’insegnamento: dal 1966 al 1970 è docente alle facoltà d’architettura di Firenze e di Milano, ed è invitato alle università di São Paulo (1966), New York (1969) e Buenos Aires (1970).
Nel 1971, lo stesso anno in cui fonda Versus, rivista internazionale di studi semio­tici, Eco insegna semiotica alla facoltà di lettere e filosofia di Bologna, dove ottiene la cattedra nel 1975. Per Eco questa scienza sperimentale inaugurata dal semiologo francese Roland Barthes è, più che un metodo, un punto di connessione tra riflessione e pratica letteraria, cultura dotta e popolare. Lo dimostra in maniera magistrale nelle sue lezioni al Collège de France, dove è titolare della cattedra europea nel 1992.

Forte della sua notorietà e spinto da un’incredibile energia, Eco dirige inoltre l’Istituto di discipline della comunicazione e dello spettacolo (Dams) presso l’Università di Bologna e presiede l’International association for semiotic studies.

I suoi primi passi nella televisione italiana mettono Eco in contatto con la comunicazione di massa e le nuove forme espressive, come le serie tv o il mondo del varietà. Qui scopre il kitsch e le celebrità del piccolo schermo, tutti aspetti della cultura popolare che affronta in Apocalittici e integrati (1964), La Guerre du faux (La guerra del falso), raccolta di articoli scritti tra il 1973 e il 1983 pubblicata in Francia nel 1985, Il superuomo di massa. Studi sul romanzo popolare (1976), che raccoglie studi sul romanzo popolare.

In Apocalittici e integrati, in particolare, distingue, all’interno della ricezione dei mass media, un atteggiamento “apocalittico”, che deriva da una visione elitaria e nostalgica della cultura, e uno “integrato”, che privilegia il libero accesso ai prodotti culturali senza interrogarsi sulle loro modalità di produzione. A partire da questo punto, Eco invita a un impegno critico nei confronti dei mass media. In seguito le sue ricerche lo portano a soffermarsi sui generi considerati minori, come il romanzo poliziesco o quello d’appendice, dei quali analizza i processi e le strutture, ma anche su fenomeni tipici della civiltà contemporanea, come il calcio, il divismo, la pubblicità, la moda o il terrorismo. Da questo deriva la sua partecipazione al dibattito pubblico, che sia su scala locale o internazionale.

La curiosità e il campo d’indagine di Umberto Eco conoscono pochi limiti, ma la costante della sua analisi rimane la volontà di “vedere un senso dove saremmo tentati di vedere solamente dei fatti”. È in quest’ottica che ha cercato di elaborare una semiotica generale, spiegata in testi come La struttura assente (1968), Il segno (1973) e il Trattato di semiotica generale (1975). Eco contribuisce così allo sviluppo di un’estetica dell’interpretazione.

Il lettore modello

Si preoccupa della definizione dell’arte, che tenta di formulare fin dal suo libro Opera aperta (1962). Qui getta le basi della sua teoria mostrando, attraverso una serie di articoli dedicati in particolare alla letteratura e alla musica, che l’opera d’arte è un messaggio ambiguo, aperto a un’infinità d’interpretazioni, dove diversi significati convivono all’interno d’un solo significante. Il testo non è dunque un oggetto finito, ma al contrario un oggetto “aperto” che il lettore non può limitarsi a ricevere passivamente e che implica, a sua volta, un lavoro d’invenzione e interpretazione. L’idea centrale di Umberto Eco, ripresa e sviluppata in Lector in fabula (1979), è che il testo, non spiegando tutto, richiede la cooperazione del lettore.

In questo modo il semiologo elabora il concetto di “lettore modello”, un lettore ideale che risponde a norme previste dall’autore e che non solo dispone delle competenze necessarie a cogliere delle intenzioni, ma sa anche “interpretare i non-detti del testo”. Il testo si presenta come un campo interattivo dove lo scritto, per associazione semantica, stimola il lettore, la cui cooperazione è parte integrante della strategia attuata dall’autore.

In I limiti dell’interpretazione (1990) Umberto Eco si sofferma nuovamente su questa relazione tra l’autore e il suo lettore. S’interroga sulla definizione dell’interpretazione e sulla sua stessa possibilità. Se un testo può sostenere qualsiasi tipo di senso, allora dice tutto e niente. Affinché l’interpretazione sia possibile occorre definire i suoi limiti, poiché l’interpretazione deve essere finita per poter produrre senso. Eco s’interessa qui alle applicazioni dei sistemi critici e ai rischi di appiattimento del testo, tipici di qualsiasi sforzo interpretativo. In La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea (1993) studia i progetti che hanno dato il via alla ricerca di una lingua ideale. Una lingua universale che non è una lingua a parte, lingua originale e utopica o lingua artificiale, ma una lingua costituita idealmente da tutte le lingue.

Fama inattesa

Professore, giornalista e ricercatore, per tutta la sua carriera Eco ha raccolto in volume molte delle sue conferenze e dei suoi interventi, dai più umoristici (Diario minimo, 1963, e Il secondo diario minimo, 1992) ai più polemici (In cosa crede chi non crede?, 1996, e Cinque scritti morali, 1997). Riprendendo la sfida raccolta per Bompiani alla fine degli anni cinquanta, quando aveva curato la serie Storia figurata delle invenzioni, una sorta di summa illustrata, si dedica tardivamente a delle personali sintesi sulla Storia della bellezza (2004) e la Storia della bruttezza (2007) o la Storia delle terre e dei luoghi leggendari (2013), oltre a un sorprendente Vertigine della lista (2009) il cui tono combina il sapere dell’erudito con la libertà dello scrittore. Ma Eco è anche un romanziere.

Le sue opere di finzione sono, in un certo senso, l’applicazione delle teorie proposte in Opera aperta o Lector in fabula. I suoi due primi romanzi, Il nome della rosa (1980) e Il pendolo di Foucault (1988) riscuotono, contro ogni attesa, un fenomenale successo, e si presentano come romanzi nei quali si mescolano esoterismo, umorismo e indagine poliziesca.

A ogni pagina l’erudizione e la sagacia del lettore vengono sollecitate da un enigma, un’allusione, un pastiche o una citazione. Il primo romanzo, ambientato nel 1327, un’epoca segnata da crisi politiche e religiose, da eresie e inquisizioni, si svolge in un’abbazia dove un monaco francescano, una sorta di Sherlock Holmes, cerca di risolvere una serie d’oscuri crimini. Il libro offre tre possibili letture, a seconda che il lettore s’appassioni all’intrigo, al dibattito sulle idee o alla dimensione allegorica che presenta, attraverso il multiplo gioco di citazioni, “un libro fatto di libri”.

L’Umberto Eco lettore di Jorge Luis Borges e di Tommaso d’Aquino è più che mai presente in questo romanzo che ha ottenuto un successo mondiale ed è stato adattato al cinema da Jean-Jacques Annaud. Il pendolo di Foucault mescola storia e attualità, attraverso un’indagine condotta nell’arco di più secoli, da parte dei templari, all’interno di varie sette esoteriche.

Il più giocoso degli eruditi

Terzo gioco romanzesco, L’isola del giorno prima (1994) è un’evocazione della piccola nobiltà terriera del diciassettesimo secolo. È il racconto di un’educazione sentimentale ma anche, attraverso una descrizione dell’identità piemontese, un romanzo nostalgico e in parte autobiografico: l’autore si sofferma sulle proprie radici, come farà più tardi nel suo libro più personale, La misteriosa fiamma della regina Loana (1994), una sorta di autoritratto mascherato in cui il racconto si fonde a immagini illustrate dell’infanzia. Il protagonista Yambo, alter ego di Eco, è uno smemorato che ricostruisce la sua identità appoggiandosi sulle letture d’infanzia degli anni trenta, quando i romanzi d’avventura francesi e i fumetti statunitensi rivaleggiavano con la propaganda fascista. Questa “evasione” intima, eccezionale in un uomo in cui il pudore è la regola, è unica nella sua carriera.

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Da Baudolino (2000), straordinaria cronaca dei tempi di Federico Barbarossa narrata da un geniale falsario, a Numero zero (2015), favola tanto nera quanto feroce sui fallimenti dell’informazione contemporanea, passando da Il cimitero di Praga (2010), nel quale il tema del complotto, così presente nella sua opera, è al centro di una terribile finzione, Eco affronta più ampiamente alcuni interrogativi di natura etica, mettendosi alla prova in un gioco d’erudizione e malizia, tra verità e menzogna, ma anche forma, poiché lo scrittore si diverte a mescolare i registri e a moltiplicare le sfide.

Eco è uno dei nomi dati ai bambini orfani, acronimo latino che fa riferimento alla provvidenza (ex coelis oblatus, dono del cielo, in un certo senso). Una strizzata d’occhio che ben si adatta al più scherzoso degli eruditi, il più colto dei sognatori. Se a 12 anni, quando sognava di diventare tranviere, parodiava Dante, Umberto Eco continua a spiazzare i commentatori.

Filosofo destinato a integrare l’esclusiva serie Library of Living Philosophers, sembra anche destinato a passare alla storia come romanziere. Sorta di Pico della Mirandola convertito all’Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle, officina di letteratura potenziale), definito “il grande alchimista” da Jacques Le Goff, che fece da consulente al regista del Nome della rosa, Umberto Eco è certamente, se non altro, l’ideale dell’intellettuale poliedrico, del maniaco testuale, del lettore innamorato.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Le date di Umberto Eco

  • 5 gennaio 1932: nasce ad Alessandria
  • 1955-1958: assistente in Rai
  • 1962: Opera aperta, testo fondatore della sua opera di semiologo
  • 1975: ottiene la cattedra di semiotica all’Università di Bologna
  • 1980: Il nome della rosa, adattato al cinema nel 1986 da Jean-Jacques Annaud
  • 1992-1993: cattedra europea al Collège de France
  • 2000: Baudolino
  • 2015: esce il suo ultimo romanzo, Numero zero
  • Muore all’età di 84 anni, il 19 febbraio 2016

Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Le Monde.

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