Dopo che si sarà insediato alla Casa Bianca il 20 gennaio, Donald Trump procederà, come ha annunciato, a “smantellare” l’accordo raggiunto con Teheran sul programma nucleare iraniano? Non è un segreto che il futuro presidente degli Stati Uniti consideri il patto raggiunto nel luglio del 2015 un “disastro”, o quantomeno l’accordo “più stupido” di sempre. Molti dei collaboratori che ha recentemente nominato, da James Mattis come ministro della difesa a Michael Flynn come consigliere per la sicurezza nazionale a Mike Pompeo come direttore della Cia, sono noti per il loro atteggiamento molto duro verso l’Iran. Tuttavia vanificare i termini dell’accordo con Teheran potrebbe essere più difficile di quanto si pensi, per l’opposizione del mondo industriale e, soprattutto, della comunità internazionale.

Le reazioni iraniane
In Iran non sono mancate le reazioni alle provocazioni di Trump. In un discorso tenuto il 6 dicembre all’università di Teheran e ritrasmesso dalla tv nazionale, il presidente iraniano Hassan Rohani ha condannato ogni tentativo di mettere mano all’intesa. “Se vuole indebolire o mettere in discussione il testo, pensate che glielo lasceremo fare?”, ha dichiarato Rohani. Per mettersi al riparo dall’eventualità che gli Stati Uniti violino il patto, il leader iraniano ha chiesto al capo dell’organizzazione per l’energia atomica nazionale di cominciare a progettare un sottomarino a propulsione nucleare.

Nel suo discorso all’università Rohani, che molto probabilmente si ricandiderà per un secondo mandato nel maggio del 2017, ha ugualmente insistito sul fatto che il suo paese non è una minaccia per la pace internazionale e che, se il resto del mondo è convinto del contrario, è probabilmente colpa delle manipolazioni di Stati Uniti e Israele. I dirigenti dello stato ebraico, e in particolare il primo ministro Benjamin Netanyahu, non hanno mai accettato l’intesa raggiunta dal gruppo dei 5+1 (i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu e la Germania) e la repubblica islamica. Per Israele l’Iran è una delle peggiori minacce alla pace mondiale e l’accordo è controproducente perché permetta a Teheran di prendere tempo e di assicurarsi nuove risorse economiche grazie alla fine delle sanzioni internazionali, pur continuando a sviluppare l’arma atomica.

Non sono solo le parole di Trump a preoccupare le autorità di Teheran: recentemente il congresso statunitense, dominato dai repubblicani, ha approvato un’estensione decennale dell’Iran sanctions act, la legge che impone sanzioni contro la repubblica islamica, che permetterà di reintrodurre immediatamente l’embargo se gli iraniani non rispetteranno i termini dell’accordo di Vienna. La mossa chiaramente ha suscitato scontento a Teheran, dove la guida suprema Ali Khamenei ha denunciato una violazione del patto sul nucleare.

La corsa ai contratti
La paura che la nuova politica estera di Trump possa compromettere il clima di apertura dell’Iran ai mercati internazionali ha spinto molte aziende straniere ad accelerare i tempi dei contratti commerciali. L’11 dicembre la Boeing ha firmato un accordo per la vendita di 80 aerei a Iran air, la compagnia di bandiera iraniana, un affare da 16,6 miliardi di dollari. Si prevede che il rapporto tra i due partner duri a lungo, visto che le prime consegne sono previste per il 2018 e che l’ordine sarà completato nell’arco di una decina d’anni. L’affare è stato possibile grazie all’autorizzazione del dipartimento del tesoro statunitense che lo scorso settembre ha dato l’ok alla vendita di aerei all’Iran da parte di Boeing e della sua concorrente europea Airbus. Il 13 dicembre anche Airbus ha annunciato che concluderà entro due settimane l’accordo per vendere altri aerei a Iran air e che le prime consegne sono previste per il marzo del 2017.

Lo stesso discorso vale per altri settori, tra cui quello petrolifero, un’industria vitale per l’economia iraniana e che ha molto sofferto negli ultimi anni di sanzioni che hanno dimezzato la produzione di greggio locale. Oltre a un’intesa provvisoria con la multinazionale Royal Dutch Shell e con la francese Total, Teheran si è affrettata a stringere accordi preliminari con aziende del settore cinesi, norvegesi, tailandesi e polacche. “L’Iran”, spiega il New York Times, “ha bisogno di capitali stranieri e di nuove competenze tecnologiche per raggiungere l’obiettivo di tornare ai livelli di produzione di petrolio del 2011 quando pompava 4,3 milioni di barili al giorno”. Dalla sospensione delle sanzioni, la produzione di greggio è aumentata di circa un terzo, ma Teheran mira più in alto.

Senza alternative
Oltre alle pressioni del mondo economico, la futura amministrazione Trump potrebbe essere ostacolata anche dalla comunità internazionale. Come spiega Bloomberg, stralciare l’accordo è più difficile di quanto sembra. Innanzitutto perché rovinerebbe i rapporti con l’Europa, la Cina e forse anche la Russia. Ma la questione è anche strategica, perché se sconfessasse l’accordo Washington non avrebbe altra opzione che il ricorso alla forza per ottenere concessioni da Teheran.

Come fa notare Al Jazeera, altri paesi coinvolti dal patto potrebbero rifiutarsi di reimporre le sanzioni, dal momento che hanno già ricominciato a commerciare con l’Iran. Inoltre bisogna ammettere che gli anni di embargo non sono serviti a fermare le ambizioni dell’Iran, che ha continuato a sviluppare nuove centrifughe, il cui numero è aumentato dalle 164 del 2003 a 19mila all’inizio del 2013.

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