“Sembrava un evento come tanti altri, l’apertura di una mostra fotografica sulla Russia. Così quando un uomo vestito con un completo scuro e una cravatta ha estratto una pistola, sono rimasto di stucco e ho pensato che fosse un gesto teatrale”. Il fotografo Burhan Ozbilici, dell’Associated Press, racconta com’è riuscito a scattare le immagini dell’omicidio, il 19 dicembre, dell’ambasciatore russo in Turchia Andrej Karlov. L’assassino, Mevlüt Mert Altıntaş, 22 anni, era un poliziotto attivo nelle unità antisommossa di Ankara. Per entrare nella mostra ha usato il suo tesserino di polizia, anche se non era in servizio.
Quello che si è consumato sotto i suoi occhi, racconta Ozbilici, “è stato un omicidio a sangue freddo. I colpi, almeno otto, sono risuonati nell’immacolata galleria d’arte. È scoppiato un pandemonio. Tutti gridavano, si nascondevano dietro le colonne, sotto i tavoli o si sdraiavano sul pavimento. Avevo paura e mi sentivo confuso, ma sono riuscito a ripararmi dietro un muro e a fare il mio lavoro: scattare foto”.
Ozbilici spiega di essere andato all’inaugurazione della mostra “Da Kaliningrad alla Kamchatka, attraverso gli occhi dei viaggiatori” solo perché la galleria era sulla strada che fa ogni giorno per tornare a casa dal lavoro.
“Quando sono arrivato, avevano già cominciato a parlare. Dopo che l’ambasciatore russo Karlov ha preso la parola, mi sono avvicinato per fotografarlo, pensando che le immagini sarebbero potute servire per qualche articolo sulle relazioni tra Russia e Turchia. Parlava con un tono pacato e – per quanto potevo capire – con grande amore per la sua patria, interrompendosi di tanto in tanto per permettere all’interprete di tradurre le sue parole in turco. Poi sono arrivati i colpi in rapida successione, e hanno scatenato il panico tra i presenti. Il corpo dell’ambasciatore era disteso sul pavimento, a pochi metri da me. Non c’era sangue intorno. Dovevano avergli sparato alla schiena”.
“Mi sono spostato indietro e a sinistra mentre il killer puntava la pistola verso le persone rannicchiate sul lato destro della stanza”. Il reporter dell’Ap non capiva le motivazioni del gesto: “Pensavo fosse un militante ceceno. Ma poi mi hanno detto che stava urlando cose su Aleppo. Ha anche gridato ‘Allahu akbar’, ma non ho capito nient’altro di quello che ha detto in arabo”.
“Avevo paura e sapevo dei pericoli che avrei corso se il killer si fosse voltato nella mia direzione. Ma sono andato un po’ più avanti e l’ho fotografato mentre minacciava gli ostaggi. L’uomo era agitato, ma stranamente aveva il controllo di sé. Urlava a tutti di stare indietro. Le guardie di sicurezza ci hanno ordinato di lasciare la stanza e ce ne siamo andati. Sono arrivate le ambulanze e i veicoli corazzati, ed è stata lanciata l’operazione di polizia in cui l’aggressore è stato ucciso. Quando sono tornato in ufficio per rivedere e selezionare le foto che avevo scattato, sono rimasto sconvolto nello scoprire che il killer era in piedi dietro l’ambasciatore mentre parlava. Come un amico, o una guardia del corpo”.
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