La Cgil ha proposto tre referendum abrogativi sulla riforma del lavoro, il cosiddetto jobs act, promossa dal governo di Matteo Renzi e varata con diversi provvedimenti tra il 2014 e il 2015. L’11 gennaio 2017 la corte costituzionale si esprimerà sulla legittimità dei referendum che, se avessero il via libera della consulta, potrebbero svolgersi nella primavera del 2017. I referendum hanno già superato il vaglio della cassazione il 9 dicembre. A differenza del referendum costituzionale che si è svolto il 4 dicembre 2016, queste consultazioni sono abrogative e prevedono un quorum, cioè dovrà andare a votare il 50 per cento più uno degli aventi diritto perché i risultati siano validi. Ecco cosa prevedono i referendum contro il jobs act e perché se ne discute in questi giorni.

I referendum sul jobs act
È definito jobs act un insieme di norme sulla riforma del lavoro approvate tra il 2014 e il 2015. Tra queste ci sono il cosiddetto decreto Poletti (dal nome di Giuliano Poletti, attuale ministro del lavoro e delle politiche sociali) – cioè il decreto legge 34 del 20 marzo 2014 – e la legge 183 del 10 dicembre 2014, che conteneva numerose deleghe da attuare con decreti legislativi, emanati dal governo nel corso del 2015. I cardini della riforma del lavoro sono: il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, la modifica dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, la riforma degli ammortizzatori sociali e dell’indennità di disoccupazione e l’estensione dell’uso dei voucher per la retribuzione del lavoro accessorio.

Nel luglio del 2016 la Cgil, il principale sindacato italiano, ha depositato 3,3 milioni di firme per proporre tre referendum abrogativi che riguardano in particolare la modifica dell’articolo 18 e l’uso dei cosiddetti voucher (buoni lavoro). Un terzo referendum chiede di ripristinare la responsabilità in solido dell’azienda appaltatrice, oltre a quella che prende l’appalto, in caso di violazioni subite dai lavoratori. I tre quesiti referendari sono accompagnati da una proposta di legge d’iniziativa popolare: l’introduzione della carta dei diritti universali del lavoro, che è praticamente la proposta di un nuovo statuto delle lavoratrici e dei lavoratori, messa a punto dal sindacato.

L’abolizione dei voucher
Il primo referendum presentato dalla Cgil riguarda l’abolizione dei cosiddetti voucher, ossia la retribuzione del lavoro accessorio attraverso dei buoni. Nel quesito referendario sarà chiesto agli elettori: “Volete l’abrogazione degli articoli 48, 49 e 50 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, recante Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’art. 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183?”.

Il pagamento attraverso i voucher in alcuni tipi di lavori era stato introdotto già nel 2003 per far emergere dall’irregolarità alcune forme di lavoro occasionale come le ripetizioni o le pulizie, ma negli anni ne è stato legittimato l’uso per quasi tutti i tipi di lavoro. Il jobs act ha esteso da cinquemila a settemila euro la cifra netta che è possibile guadagnare in un anno con i voucher. Questo fattore, insieme ad altre misure del jobs act che hanno ridotto altre forme di lavoro precario, ha determinato un aumento dell’uso dei voucher da parte dei datori di lavoro.

Questo incremento ha sollevato parecchie critiche perché è stato giudicato un tentativo di rendere il mercato del lavoro sempre più precario e deregolamentato a scapito dei lavoratori. Secondo alcuni analisti e secondo il sindacato, infatti, molti datori di lavoro usano i voucher per retribuire una parte delle ore di lavoro svolte, pagando in nero il resto delle ore. In questo modo i datori di lavoro si sottrarrebbero ai controlli e alle sanzioni. Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Inps, l’uso di voucher è aumentato del 32 per cento nei primi dieci mesi del 2016, mentre nei primi dieci mesi del 2015 era aumentato del 67 per cento rispetto allo stesso periodo del 2014.

Il ripristino dell’articolo 18
Il secondo referendum proposto dalla Cgil riguarda il ripristino dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, cioè l’articolo che sancisce il diritto al reintegro da parte del lavoratore licenziato senza una giusta causa. L’articolo 18 fa parte dello statuto dei lavoratori, cioè della legge numero 300 del 20 maggio 1970, che contiene le norme “sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro”.

L’articolo 18, in particolare, regola i licenziamenti che avvengono senza giusta causa e ha subìto una sostanziale modifica nel 2012 con la riforma della ministra del lavoro Elsa Fornero, che complicava l’applicabilità della tutela del reintegro nella maggior parte dei casi di licenziamento che arrivano in tribunale. Il jobs act ha superato definitivamente l’articolo 18 e ha sostituito il diritto al reintegro con un indennizzo economico in caso di licenziamento senza giusta causa. La riforma si applica ai contratti di lavoro stipulati dopo il 7 marzo 2015 e non riguarda gli statali, come chiarito da una sentenza della corte di cassazione. Il referendum della Cgil propone di abolire il decreto legislativo del 4 marzo 2015 e di fatto ripristinare l’articolo 18.

La responsabilità delle imprese appaltatrici
Il terzo referendum chiede l’abolizione dell’articolo 29 del decreto legislativo
10 settembre 2003, cioè il ripristino della responsabilità dell’azienda appaltatrice, oltre a quella che prende l’appalto, in caso di violazioni subite dai lavoratori, norma che era stata cancellata dalla legge Biagi, in seguito modificata dalla legge Fornero. Se il referendum fosse approvato sarebbe chiamato a rispondere anche il committente per eventuali violazioni compiute dall’impresa appaltatrice nei confronti del lavoratore. Di conseguenza, l’azienda che appalta sarà tenuta a esercitare un controllo più rigoroso su quella a cui affida un appalto.

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