06 maggio 2024 13:40

Dopo l’inizio di ogni protesta c’è un momento spartiacque, quello in cui le autorità decidono come rispondere. Quando scelgono la repressione o il rifiuto netto delle ragioni dei manifestanti, di solito alimentano la contestazione invece di spegnerla, e possono contribuire a trasformare una rivendicazione circoscritta in un movimento sociale più ampio. Potrebbe succedere anche stavolta con le proteste degli studenti nei campus di decine di università degli Stati Uniti a sostegno del popolo palestinese.

Ci sono stati casi, come quello della Brown university, in Rhode Island, in cui i manifestanti hanno raggiunto un accordo con gli amministratori dell’università, che si sono impegnati a discutere e a mettere ai voti la proposta di cancellare gli investimenti nelle aziende legate all’apparato bellico israeliano. Ma la repressione alla Columbia university di New York, epicentro della protesta, ha fatto crescere l’attivismo in tutto il paese. A questo punto è possibile che il movimento studentesco finisca al centro del dibattito e arrivi a condizionare le dinamiche politiche a vari livelli.

Un primo livello, quello più visibile, riguarda gli equilibri in vista delle elezioni presidenziali. Sondaggi condotti prima dell’inizio delle proteste mostrano che la guerra israeliana nella Striscia di Gaza non è in cima alle preoccupazioni della maggior parte degli statunitensi, nemmeno di quelli più giovani. Ma gli sviluppi degli ultimi giorni – l’arresto di più di duemila persone e la repressione violenta della polizia in alcuni campus – potrebbero far crescere la solidarietà per la causa dei manifestanti.

Di sicuro mettono in una posizione molto complicata l’amministrazione Biden, che già da mesi è preoccupata per la perdita di consensi tra gli elettori più giovani e quelli delle minoranze. Il 2 maggio il presidente ha fatto la sua prima dichiarazione pubblica sulle proteste, dicendo che nei campus “l’ordine deve prevalere”, per poi aggiungere: “Ma non siamo un paese autoritario che mette a tacere le persone”. Negli ultimi anni i democratici si sono presentati come i garanti della stabilità di fronte alla china distruttiva dei repubblicani (un ribaltamento notevole rispetto alla tradizione dei due partiti), e anche per questo sono andati bene in tutte le ultime tre elezioni. Ora i repubblicani hanno gioco facile nel ribaltare questa narrazione: accusano la sinistra di aver cresciuto una generazione di estremisti intolleranti che ora fatica a tenere a bada (mettendo l’accento sui tanti episodi di antisemitismo nei campus) e chiedono l’intervento della guardia nazionale negli atenei per riportare l’ordine.

Le difficoltà della Casa Bianca sul fronte interno si intrecciano a quelle in politica estera, e si alimentano a vicenda. L’accordo per un cessate il fuoco a Gaza è in stallo, e Israele dice ancora di voler invadere Rafah, dove si sono rifugiati circa 1,4 milioni di civili palestinesi. Il New York Times ha scritto che il presidente non è particolarmente allarmato dalla situazione: “I consiglieri di Biden ritengono improbabile che la questione possa danneggiare in modo significativo il presidente alle elezioni. La situazione a Gaza rimane molto fluida, poiché i funzionari statunitensi continuano a lavorare per un accordo di cessate il fuoco tra Hamas e Israele, e la guerra potrebbe non avere la stessa risonanza politica quando gli elettori si recheranno alle urne a novembre. Nelle prossime settimane gli studenti lasceranno il campus per le vacanze estive, il che, secondo molti, contribuirà a smorzare l’intensità delle proteste”.

Ma c’è un altro livello, più profondo, che riguarda l’orientamento dell’opinione pubblica sui rapporti con Israele. Da mesi si discute della possibilità che la guerra israeliana nella Striscia di Gaza, che ha causato finora la morte di più di trentamila civili, possa modificare i rapporti tra i due paesi, e ora ci si chiede se le proteste nei campus possano contribuire a questa dinamica.

L’alleanza con Israele è stata per quasi settant’anni uno dei capisaldi della politica estera statunitense, per via anche del ruolo che gli ebrei americani hanno avuto nel costruire gli Stati Uniti del dopoguerra. Oggi i sondaggi mostrano che la simpatia verso Israele è in calo tra gli americani che hanno meno di trent’anni. Si tratta di una parte abbastanza piccola dell’elettorato, che probabilmente non è in grado di condizionare l’esito delle prossime elezioni. Ma lo spostamento potrebbe produrre degli effetti nel lungo periodo, man mano che ci sarà un ricambio generazionale nelle istituzioni e nella politica.

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it