Mentre l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza entra nel decimo mese e il bilancio ha superato le 38mila vittime palestinesi, è difficile trovare ancora le parole per raccontare la distruzione del territorio. Al Jazeera prova a metterle in fila in un articolo intitolato “Come parlare della guerra d’Israele a Gaza”. Oltre a genocidio, con cui si fa riferimento all’uccisione deliberata di un grande numero di persone di una nazione o di un gruppo etnico particolare con l’obiettivo di distruggerli, ci sono altre parole per descrivere la devastazione in corso.

Il 9 luglio 2024 un bombardamento israeliano ha colpito una scuola che ospitava degli sfollati a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, uccidendo 29 persone. È la quarta scuola a essere colpita in quattro giorni. Il 6 luglio sedici persone erano morte nel bombardamento di un istituto gestito dall’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi, nel campo profughi di Nuseirat, nel centro del territorio, dove erano radunati migliaia di sfollati. Il giorno dopo ne era stato colpito uno gestito da una chiesa a Gaza ed era stato ucciso un alto funzionario governativo di Hamas insieme ad altre tre persone. La notte successiva c’erano stati diversi feriti nel bombardamento di un’altra scuola gestita dall’Onu a Nuseirat. In tutti questi casi Israele si è giustificato dicendo che Hamas usava le strutture come basi operative.

Scolasticidio è un termine coniato da Karma Nabulsi, che insegna scienze politiche all’università di Oxford, durante l’operazione israeliana nella Striscia di Gaza del 2008-2009. Fa riferimento alla distruzione sistematica del settore dell’istruzione palestinese nel contesto del progetto israeliano decennale di colonizzazione e occupazione. Dopo l’inizio dell’offensiva israeliana nel territorio palestinese il 7 ottobre, un gruppo di esperti riunito nell’organizzazione Scholars against the war on Palestine ha ampliato la definizione per includere la distruzione intenzionale del patrimonio culturale – archivi, biblioteche, musei – l’uccisione o la detenzione di educatori, studenti e professori, la chiusura o la demolizione degli edifici scolastici e l’uso delle strutture come basi militari. L’enormità della devastazione di Gaza li ha portati a concludere: “La politica coloniale israeliana a Gaza è ora passata da un focus sulla distruzione sistematica all’annientamento totale dell’istruzione”.

Secondo le Nazioni Unite almeno il 90 per cento delle scuole della Striscia di Gaza è stato danneggiato o distrutto e 600mila studenti sono stati privati dell’istruzione. Nessuna delle dodici università e nessuno degli istituti di istruzione superiore esiste più e migliaia di alunni e insegnanti sono morti: secondo i dati di aprile almeno 5.479 bambini e ragazzi, 261 maestri e 95 professori universitari. Un articolo del Guardian denuncia che lo scolasticidio si è intensificato anche in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, dove i militari israeliani conducono spesso raid in scuole e università, arrestano studenti e professori, limitano la loro libertà di movimento e impediscono la libertà accademica.

Al Jazeera parla anche di culturicidio, “la distruzione di una cultura che appartiene a uno specifico gruppo etnico, politico, religioso o sociale”. Israele ha distrutto o danneggiato circa duecento luoghi culturali storici della Striscia di Gaza, compresi siti archeologici, moschee che custodivano rari manoscritti, uno dei più antichi monasteri cristiani e un porto risalente all’800 aC.

I palestinesi di Gaza, della Cisgiordania e della diaspora hanno sempre dato molta importanza all’istruzione e alla tutela del loro patrimonio culturale. In un’intervista al Guardian Karma Nabulsi spiega che l’istruzione e la cultura fanno parte “della vita della famiglia, dell’identità e della ribellione” dei palestinesi. Anche coltivare la terra è uno strumento di affermazione e di resistenza per i palestinesi. Negli ultimi anni il blocco israeliano e il deterioramento delle condizioni di vita hanno reso sempre più difficile quest’attività nella Striscia di Gaza. Eppure anni di duro lavoro hanno permesso di riabilitare il wadi Gaza, la più grande zona umida del territorio. Per contrastare le continue interruzioni di corrente i contadini hanno fatto affidamento sui pannelli solari e su metodi alternativi di depurazione dell’acqua. Tutti questi sforzi sono stati annientati negli ultimi mesi dalla catastrofe ambientale che si è abbattuta sulla Striscia.

Vittima silenziosa

Ecocodio è il termine coniato dal biologo Arthur W. Galston per protestare contro l’uso in Vietnam del cosiddetto agente arancio, il defoliante tossico versato dall’esercito statunitense sugli alberi sotto cui si nascondevano i vietcong. Più di metà delle terre coltivabili e un terzo delle serre di Gaza sono state bombardate. Due terzi del bestiame sono morti sotto le bombe o sono stati abbattuti. Il wadi Gaza è in gran parte distrutto, così come l’ecosistema che ne dipendeva. L’aria e i terreni sono pieni di sostanze tossiche, tra cui almeno 800mila tonnellate di amianto. Come scrive Jean-Pierre Filiu su Le Monde “è impossibile valutare precisamente il grado d’inquinamento della Striscia di Gaza, ma tutti gli indicatori sono drammatici, per quanto riguarda sia l’inquinamento atmosferico sia la contaminazione della falda acquifera, a causa dell’infiltrazione dei rifiuti tossici in un suolo molto poroso”. Per Farah el Hattab, avvocata di Greenpeace Medio Oriente e Nordafrica, l’ambiente è “una vittima silenziosa della guerra”.

La distruzione delle terre è accompagnata da quella dei luoghi abitati. Il termine urbicidio ha cominciato a essere usato negli anni sessanta, ma si è diffuso soprattutto durante la guerra in Bosnia Erzegovina tra il 1992 e il 1996. Si riferisce alla distruzione dell’ambiente urbano, non solo le abitazioni, ma anche le infrastrutture e il tessuto cittadino in senso più ampio. Martin Coward, capo della scuola di politica e relazioni internazionali della Queen Mary university di Londra, ha spiegato all’Afp che l’urbicidio “è deliberato e non proporzionale agli obiettivi strategici del conflitto, quindi viola le leggi della guerra. Implica che questa violenza distrugge qualcosa di specifico della città, la sua natura plurale e condivisa. È un modo per rendere impossibile alle persone diverse da te vivere in uno spazio urbano”.

Negli ultimi decenni ci sono stati urbicidi a Sarajevo in Bosnia Erzegovina, Grozny in Cecenia, Aleppo in Siria, Mosul in Iraq, Mariupol e Buča in Ucraina. E ora nella Striscia di Gaza, dove secondo un rapporto dell’operazione satellitare delle Nazioni Unite (Unosat) tra il 7 ottobre 2023 e il 31 maggio di quest’anno sono state demolite o danneggiate 137.297 strutture, pari al 55 per cento di tutte quelle del territorio. In un articolo su The Conversation Yousif al Daffaie, ricercatore della Nottingham Trent university, nel Regno Unito, spiega che “da anni i ricercatori hanno dimostrato che gli edifici, i ricordi delle persone e la vita quotidiana sono elementi legati tra loro che formano il nostro attaccamento a un luogo e creano la relazione con la nostra ‘casa’”. Questo è vero in particolare a Gaza, che Al Daffaie definisce “santuario della sperimentazione creativa”, un luogo in cui le persone cercano di sfidare la violenza della colonizzazione “aggrappandosi a un concetto di ‘casa’ che vada oltre un riparo effimero che potrebbe svanire con la prossima campagna di bombardamenti”.

Legato al concetto di urbicidio c’è quello di domicidio, la distruzione deliberata e sistematica degli spazi abitativi, che mira a eliminare i luoghi intimi e privati in modo che qualunque forma di stabilità, fisica o emotiva, sia sostituita da una sensazione costante di incertezza e precarietà. Secondo Unosat sono state danneggiate 135.142 abitazioni, soprattutto a Gaza, Khan Yunis e nel nord del territorio. Senza più una casa e con i legami tra le persone distrutti molti abitanti pensano che, se sopravviveranno fino alla fine dell’offensiva militare israeliana, non avranno altra possibilità che abbandonare il territorio.

Tanto più che l’ultima forma di devastazione in corso nella Striscia di Gaza elencata da Al Jazeera è il politicidio, l’eliminazione della sfera pubblica e di quella privata di un gruppo di persone che condivide un’identità politica. Non è una novità. Come scrive Rabea Eghbariah su The Nation, “lo sterminio del corpo politico palestinese in Palestina, cioè il sistematico sradicamento della capacità palestinese di conservare una comunità politica organizzata” va avanti da un secolo. Il politicidio comprende l’uccisione dei leader politici e la distruzione delle strutture che consentono alle entità politiche di esistere.

In questo contesto sono stati rilanciati gli sforzi diplomatici per arrivare a un cessate il fuoco a Gaza e alla liberazione degli ostaggi israeliani ancora in mano a Hamas. Ieri la delegazione statunitense e quella israeliana si sono incontrate al Cairo, in Egitto, e ora che Hamas sembra aver rinunciato alla condizione di un cessate il fuoco permanente per negoziare la seconda fase dell’accordo potrebbero esserci più spiragli per una conclusione favorevole della trattativa. Ma se anche l’offensiva israeliana si fermasse domani la Striscia di Gaza resterà inabitabile per le generazioni future. Case, scuole, infrastrutture, terreni, campi, persone: tutto è stato distrutto. E le conseguenze di questa devastazione sono ancora incalcolabili.

Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.

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