Ventuno mesi di detenzione per Meng Han, uno degli attivisti per i diritti dei lavoratori arrestato in un giro di vite alla fine del 2015. La notizia non è nuova, risale al 3 novembre, e ha già suscitato le proteste delle maggiori organizzazioni sindacali internazionali. Ma offre l’occasione per fare il punto sulle lotte dei lavoratori in Cina, cresciute di numero negli ultimi anni.
L’ultimo esempio, raccontato da China Labour Bulletin (Clb), è la vittoria ottenuta dai lavoratori di una fabbrica elettronica di Dongguan – di proprietà hongkonghese – che dopo più di un anno di lotta hanno ottenuto il pagamento di arretrati mai corrisposti: il 2 dicembre 2015 avevano trovato i cancelli della fabbrica chiusi mentre il management era improvvisamente sparito. Clb fa notare che, nell’anno trascorso prima di ottenere soddisfazione, i lavoratori sono stati pestati e arrestati dalla polizia.
Qui ci sono i due estremi delle lotte per il lavoro in Cina: repressione e concessione, concessione e repressione. Le leggi di tutela del lavoro esistono, ma non sempre sono applicate. La casistica è estremamente varia. E poi l’esigenza di “stabilità” viene prima di tutto per le autorità cinesi: guai a creare disordine.
Oggi, a fare il punto su queste storie, cercando di delineare un quadro complessivo, è arrivato Made in China (sottotitolo: “A quarterly on chinese labour, civil society, and rights”, un trimestrale su lavoro, società civile e diritti in Cina), un bollettino online di cui è appena uscita la quarta edizione.
Le lotte di questa classe lavoratrice contemporanea, mobile e flessibile, riguardano i bisogni immediati
C’è un risveglio della classe operaia cinese? All’aumento del numero di “incidenti” corrisponde una maggiore consapevolezza dei propri diritti sul posto di lavoro?
Mi ricordo un’interessante discussione che ho avuto mesi fa a Shenzhen, città simbolo del boom manifatturiero cinese degli ultimi trent’anni, sul cosiddetto delta delle Perle. È la stessa macroarea con circa cinquanta milioni di abitanti dove si trovano anche Dongguan – il luogo della “vittoria” operaia citata sopra – e Guangzhou, dove l’attivista Meng Han è stato processato e condannato.
Jas, il nome in codice di un’attivista cinese per i diritti dei lavoratori, mi spiegava che la seconda generazione della classe operaia migrante non è facilmente organizzabile, perché la sua estrema mobilità la porta a non radicarsi per troppo tempo in un luogo, in una fabbrica. Dotati di tutti i moderni dispositivi elettronici, questi ragazzi sono costantemente in rete, collegati con un parente o un amico, il quale magari gli fa sapere che in una certa fabbrica dall’altra parte del delta pagano un salario migliore rispetto a quella in cui stanno lavorando. E via, se ne vanno dall’oggi al domani. Quindi i loro salari aumentano, perché i datori di lavoro cercano di trattenerli offrendo migliori condizioni.
La terziarizzazione dell’economia cinese
E se per caso la fabbrica chiude, si torna al villaggio d’origine dove non è più il maiale della tradizione contadina a garantirti la sopravvivenza, bensì – sempre più di frequente – l’apertura in leasing di un centro di smistamento ordini per Alibaba o Jingdong, i giganti dell’ecommerce cinese. Ecco la terziarizzazione in corso dell’economia cinese.
E non è un caso che nel terzo quadrimestre del 2016 le lotte nel settore del commercio e dei servizi abbiano superato quelle nel settore manifatturiero (21 per cento contro 20, con le costruzioni che guidano sempre la classifica con il 42 per cento). Tutto ciò non c’entra niente con una coscienza dei propri diritti. Le lotte di questa classe lavoratrice contemporanea estremamente mobile e flessibile riguardano i bisogni immediati: il salario non corrisposto – come a Dongguan – soprattutto prima del capodanno cinese, quando bisogna tornare al paese con i regali per la famiglia (e infatti l’intensità delle lotte aumenta di solito in prossimità delle feste); oppure un condizionatore che non funziona nell’officina. E se il lavoro diventa insopportabile o poco redditizio, si parte a caccia di nuove opportunità
Ivan Franceschini, uno degli autori di Made in China, che studia da tempo il movimento operaio cinese, mi ha confermato questa visione complessiva, anche se – osserva – l’intensità delle lotte varia comunque da settore a settore e da luogo a luogo. Insomma, anche quando aumentano gli “incidenti di massa”, è forse azzardato parlare di un “risveglio” della classe lavoratrice cinese.
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