A volte le parole si consumano, come persone che camminano nel deserto con la borraccia vuota. In Medio Oriente la soluzione a due stati per Israele e Palestina è stata a lungo sinonimo di speranza e intesa come una sorta di ricompensa. Un modo per correggere la sorte dei palestinesi, privati dei loro diritti fondamentali da un’occupazione israeliana che dura da quasi mezzo secolo. Quanti comunicati, conferenze, carte cancellate, promesse non mantenute, appuntamenti mancati e accuse reciproche. Quanti attentati e attacchi, pianificati o improvvisati, compiuti dai palestinesi, che rafforzano la convinzione degli israeliani che sia impossibile negoziare.

Ventitré anni dopo gli accordi di Oslo, che definivano le tappe per la creazione di uno stato palestinese, qualcuno ci crede ancora, rifiutando di ammettere uno dei più grandi fallimenti diplomatici dalla fine della seconda guerra mondiale. La Francia cerca di promuovere un gruppo di mediazione che convinca le parti a riprendere le discussioni, arrivate a un punto morto dopo il tentativo fallito del segretario di stato americano John Kerry nel marzo del 2014.

I paesi della Lega araba vorrebbero uscire dal tradizionale antagonismo con Israele e concentrarsi su minacce più urgenti come il jihadismo o le velleità egemoniche dell’Iran nella regione. Anche la Russia, tornata in Medio Oriente con l’intervento militare in Siria, ha cercato di riunire a Mosca il presidente palestinese Abu Mazen e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Secondo un politico di Ramallah “questi tentativi non sono altro che il riciclo di iniziative precedenti. I palestinesi non ne possono più”.

La ruota della diplomazia
E poi ci sono gli Stati Uniti. L’elezione di Donald Trump apre scenari imprevedibili. Trump sostiene di voler arrivare “all’accordo definitivo” nella “guerra che non finisce mai”, ma i suoi collaboratori sono vicini alla destra israeliana. Il programma repubblicano presentato a luglio non fa riferimento alla necessità di uno stato palestinese. Per quanto riguarda il presidente uscente Barack Obama, due numeri dicono tutto: nel discorso all’assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2010 Obama aveva dedicato al conflitto 1.083 parole, nel 2016 solo 31.

Nel 1995 in Cis­giordania vivevano circa 150mila coloni. Oggi sono quasi 400mila

La grande ruota della diplomazia continua a girare, perché l’alternativa sarebbe mettere da parte in modo definitivo la possibilità di creare uno stato palestinese, riconosciuto da 138 paesi. Intanto però la situazione sta degenerando. Quando il primo ministro Yitzhak Rabin fu ucciso da un estremista ebreo nel 1995, in Cis­giordania vivevano circa 150mila coloni. Oggi sono quasi 400mila, senza contare i 250mila di Gerusalemme Est. Non si tratta più di occupazione ma di un’annessione di fatto di gran parte della Cisgiordania.

Il 15 settembre 2016 l’ex segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha ricordato che “esattamente 23 anni fa venivano firmati i primi accordi di Oslo tra Israele e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Purtroppo ci siamo sempre più allontanati dai loro obiettivi. La soluzione a due stati rischia di essere sostituita da una realtà composta di uno stato solo, fatta di continua violenza e di occupazione”.

Pubblicato il 1 luglio 2016, il rapporto del quartetto per il Medio Oriente – che riunisce l’Onu, l’Unione europea, gli Stati Uniti e la Russia – non ha usato l’espressione “annessione di fatto”, ma è quello che descrive. “L’area C [sotto il controllo esclusivo dell’esercito israeliano] rappresenta il 60 per cento della Cisgiordania e comprende la maggior parte dei terreni agricoli, delle risorse naturali e delle terre disponibili. Quasi il 70 per cento dell’area C è stato preso in modo unilaterale per uso esclusivo da parte degli israeliani, per lo più attraverso l’inclusione delle colonie nei consigli locali e regionali o la loro designazione come ‘terre di stato’”.

Questo dato, messo per la prima volta nero su bianco, mostra la progressiva espansione israeliana, nella più completa impunità. La volontà dei deputati della maggioranza di far passare nel parlamento israeliano (knesset) una sanatoria senza precedenti, che regolarizzerebbe un centinaio di avamposti in Cisgiordania – illegali anche per la legge israeliana – dà un’idea delle priorità.

La divisione della Cisgiordania.

In Israele l’espressione “schieramento per la pace” è scomparsa dal dibattito pubblico ed è riservata solo a pochi intellettuali o militanti bollati come “estremisti di sinistra”. Durante la campagna per le elezioni del 2015 l’opposizione laburista, pressata sul problema della sicurezza, aveva raccomandato una “separazione” dai palestinesi. E i circa centomila palestinesi che vanno a lavorare in Israele?

Il 15 settembre 2016 Ari Shavit, un giornalista di Haaretz che poi si sarebbe dimesso perché accusato di molestie sessuali, ha cercato di difendere l’idea di una “terza via”. “Prima di tutto ammettiamo che gli accordi di Oslo sono falliti. Poi cambiamo la vecchia campagna per la pace con una campagna per un nuovo sionismo”. In altre parole, “proponiamo un lungo e graduale processo di divisione della terra, che non dovrebbe fondarsi su accordi esaustivi ma parziali, e di costruzione della nazione”.

Nella società civile c’è chi continua a mobilitarsi ma senza avere un vero sostegno. Un’iniziativa nata il 14 settembre, Save Israel, stop the occupation (Siso), punta a creare un ponte tra la società e una diaspora sempre più critica nei confronti dell’orientamento nazionalista e religioso dello stato ebraico. L’iniziativa riunisce 470 firmatari, tra cui scrittori come David Grossman e Amos Oz, ex militari e diplomatici, deputati e scienziati. Per loro l’occupazione “mette in pericolo l’edificazione morale e democratica di Israele, così come il suo posto nella comunità delle nazioni”.

La direttrice del progetto Jessica Montel, che ha guidato per dodici anni B’Tselem, una delle più famose ong israeliane, spera che “il 50° anniversario dell’occupazione, nel giugno 2017, obblighi tutti a una presa di coscienza”. Per lei il principale ostacolo alla soluzione a due stati non è tanto la situazione sul terreno, quanto “l’apatia e la disperazione che regnano nell’opinione pubblica. La costante retorica sull’assenza di interlocutori ha fatto molti danni”.

Mossa unilaterale
Qualcun altro spinge perché il governo agisca in modo unilaterale, senza limitarsi a una semplice gestione permanente della crisi. A maggio quasi duecento generali in pensione dell’esercito, dello Shin bet (il servizio di sicurezza interno) e del Mossad (i servizi segreti israeliani) hanno presentato un piano per migliorare la sicurezza del paese. Questo piano pragmatico e dettagliato, che ha l’obiettivo di “cambiare le regole del gioco”, parte dal presupposto che la soluzione a due stati “non è attualmente realizzabile” ed elenca varie misure, di sicurezza o economiche, per ridurre le tensioni. In particolare raccomanda l’approvazione di una legge che preveda incentivi finanziari per spingere i coloni che vivono al di là della “barriera di sicurezza” a trasferirsi nei grandi blocchi di colonie – che tornerebbero a Israele in una divisione finale – o all’interno di Israele. Ma questa proposta non è molto conosciuta dall’opinione pubblica.

Netanyahu afferma di essere ancora a favore di uno stato palestinese “smilitarizzato”, che riconosca Israele “come stato ebraico”. In realtà il clima di lassismo prodotto dal conflitto gli fa comodo. Accostando il jihadismo internazionale e le violenze palestinesi, Netanyahu gestisce gli attacchi con estrema abilità: fa concessioni misurate ai suoi alleati di estrema destra e ai coloni, ma non si lancia in progetti a lungo termine.

Sappiamo che i palestinesi vogliono come minimo il rispetto dei confini del 1967. Ma cosa vuole Israele?

“Questa situazione ti cambia dentro”, sottolinea Dan Meridor, ex vice primo ministro, che incarnava la linea moderata del Likud, il partito di destra di Netanyahu, prima di lasciarlo. “Stravolge i valori di uguaglianza, di democrazia e di libertà su cui abbiamo costruito il nostro paese. Sappiamo che i palestinesi vogliono come minimo il rispetto dei confini del 1967. Ma cosa vuole Israele?”. Anche se è uscito dalla politica, Meridor appoggia l’idea di uno stato israeliano sulla base dei confini del 1967, con delle correzioni per tener conto dei grandi blocchi di colonie. Il progetto prevede che i profughi palestinesi abbiano diritto a tornare nelle loro terre, ma solo in Palestina. “Sarebbe una rivoluzione”, afferma Meridor.

Poco spazio a disposizione
Nel governo israeliano alcuni non accettano la vaghezza della situazione attuale. Il ministro dell’istruzione, Naftali Bennett, pensa che l’elezione di Trump offra una grande possibilità per seppellire definitivamente gli accordi di Oslo. Da decenni il leader del partito religioso Casa ebraica reclama l’annessione dell’area C, cioè l’ufficializzazione del processo in corso.

In un’intervista rilasciata a fine settembre, Bennett citava come esempio le alture del Golan e Gerusalemme Est, già annessi da Israele senza il riconoscimento internazionale: “Ci sono meno di centomila palestinesi che vivono nell’area C, potremmo proporgli la piena cittadinanza o una carta di residenza. Il processo di annessione sarebbe graduale, cominciando dalle grandi colonie come Ariel, Maale Adumin e Gush Etzion. Invece nelle aree A e B dove c’è già un’autonomia palestinese di fatto, li aiuteremmo attraverso un nuovo piano Marshall”. Bennett evoca grandi investimenti in ponti, tunnel e strade, uno sviluppo del turismo verde e così via. La presenza dell’esercito israeliano nella zona autonoma palestinese – dove la popolazione potrebbe organizzare le elezioni – dipenderebbe dalla sicurezza.

A destra questo progetto è accolto con sempre più interesse. Secondo Bennett nel governo quelli a favore di una soluzione a due stati sono meno della metà: “È il riflesso del cambiamento nell’opinione pubblica. Ventitré anni fa una ridotta maggioranza di israeliani sosteneva uno stato palestinese. Ma la seconda intifada e il ritiro israeliano da Gaza con la conseguente pioggia di missili palestinesi ha spostato a destra il 10 per cento dell’opinione pubblica”. L’analisi del ministro è discutibile. Secondo un sondaggio pubblicato ad agosto, il 51 per cento dei palestinesi e il 59 per cento degli israeliani sono ancora favorevoli alla soluzione a due stati. Probabilmente tra gli israeliani i numeri sarebbero più alti se ci fosse la certezza che un accordo di pace porterebbe al riconoscimento di Israele da parte dei paesi arabi. Purtroppo siamo lontani da questo.

Da parte palestinese la strategia adottata da Abu Mazen – la non violenza e l’internazionalizzazione del conflitto per fare pressione su Israele – non ha dato risultati tangibili. Le lotte intestine tra i partiti Al Fatah e Hamas sembrano insuperabili e hanno portato alla creazione di due minientità palestinesi, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Al di là della denuncia degli abusi dell’occupazione, sono state individuate poche alternative alla soluzione a due stati. A volte si accenna all’ipotesi di una confederazione con la Giordania, già evocata in molte occasioni all’epoca di Yasser Arafat.

Le ragioni dei veterani del negoziato
Mohammad Shtayyeh, negoziatore e alto dirigente di Al Fatah, è contrario a progetti del genere: “Non possiamo permetterci il lusso della fantasia. Proporre idee come una confederazione è un diversivo. Le uniche due strade sono la creazione di uno stato palestinese o l’affermazione di uno stato israeliano basato sull’apartheid”. Shtayyeh incarna la scuola di Oslo e la linea di Abu Mazen e non può sconfessare se stesso. Così si aggrappa alle carte e alle cifre per continuare a credere a una separazione negoziata, l’unica opzione favorevole per tutti. “In Cisgiordania ci sono in tutto 650mila coloni, cioè il 22 per cento della popolazione. Il progetto di Netanyahu è arrivare a un milione nel 2020. In questo modo i due stati sarebbero nella stessa Cisgiordania: uno per i coloni e l’altro per i palestinesi. Ma questa via sarebbe fallimentare per tutti. In quel momento tra il Giordano e il mare i palestinesi rappresenteranno circa il 52 per cento della popolazione e Israele perderà il suo carattere ebraico e democratico”.

Le macerie di una casa distrutta dalle truppe israeliane nel campo profughi di Qalandia, vicino alla città di Ramallah, in Cisgiordania, il 4 luglio 2016. (Mohamad Torokman, Reuters/Contrasto)

Bisogna capire i veterani del negoziato, che per decenni si sono battuti per il riconoscimento della Palestina. Come possono accettare un cambiamento in peggio delle loro ambizioni? Eppure c’è chi vuole a tutti i costi uscire da questo marasma. “Lo spazio a disposizione è troppo poco per due stati”, sospira Omar Shaban, uno degli analisti più rispettati di Gaza. “È impossibile tracciare una frontiera: la rete di trasporto, il sistema fognario, è tutto collegato. Se si potessero avere tutti i diritti che dà uno stato senza uno stato, non direi di no. Bisogna trovare una formula, forse una confederazione. Non si lavora abbastanza su questa ipotesi. Nessuno propone delle alternative mentre la soluzione a due stati sta scomparendo”.

L’idea di una confederazione ha trent’anni. In origine era stata formulata per riunire la Giordania con i palestinesi. Negli ultimi anni è tornata nelle discussioni politiche. A lungo ostile a uno stato palestinese, il presidente israeliano Reuven Rivlin, proveniente dal Likud, ha accettato l’idea alla fine del 2015. Qualche mese prima in un articolo pubblicato sul New York Times anche il laburista Yossi Beilin, veterano dei negoziati, aveva difeso l’idea di una confederazione israelo-palestinese, in cui i due stati avrebbero conservato il proprio governo ma con delle istituzioni comuni.

“Da allora lavoriamo per far avanzare questa idea, ma ci vorrà tempo”, dice Beilin. “Anche Netanyahu ha capito che se non sarà possibile avere due stati, ce ne sarà solo uno in cui gli ebrei non saranno più la maggioranza”. L’idea di una confederazione non è respinta da tutta la destra. Meridor dice di tenerla in considerazione, ma solo dopo la creazione di uno stato palestinese: “In un secondo tempo sarei favorevole a una confederazione tripartita con la Giordania. Dobbiamo guardare a modelli come il Benelux o l’Unione europea”.

A volte un divorzio richiede una gran dose di coraggio

A giugno è nata un’iniziativa chiamata Due stati, una patria, sostenuta da palestinesi e israeliani, militanti di sinistra e coloni. Per loro la confederazione è l’unica soluzione possibile visto l’intreccio degli interessi e delle popolazioni. Le sue implicazioni sarebbero immense: nessuna frontiera né muri, solo due entità. Nessuno spostamento di popolazioni e quindi nessun ritiro dei coloni, che avrebbero il diritto di vivere dove vogliono votando alle elezioni israeliane. Libertà di circolazione, libertà di naturalizzazione (che significherebbe diritto al ritorno per i profughi palestinesi, in numero uguale a quello dei coloni), coesistenza delle religioni nelle due entità. Ma anche istituzioni comuni per sfruttare equamente le risorse naturali e rimediare agli espropri.

La debolezza principale di questo programma, per ora solo teorico, è psicologica. Vista la sfiducia che regna tra i due schieramenti, l’atmosfera è più favorevole a un divorzio che a una convivenza. Ma a volte un divorzio richiede una gran dose di coraggio per permettere di vivere autonomamente. Un coraggio di cui oggi entrambe le parti sembrano sprovviste.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Quest’articolo è stato pubblicato sul quotidiano francese Le Monde e a pagina 56 di Internazionale il 6 gennaio 2017. Compra questo numero| Abbonati

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