Il 2016 si è aperto con forti turbolenze nelle borse mondiali e l’epicentro, come in più occasioni nella seconda metà del 2015, è stato di nuovo la Cina.
Già due volte questa settimana, il 4 e il 7 gennaio, le autorità del paese asiatico hanno interrotto gli scambi alla borse di Shanghai e in quella di Shenzhen per eccesso di ribasso. In entrambi i casi sono ricorse a una delle misure introdotte lo scorso anno che, nel tentativo di fermare i ripetuti crolli, prevede la possibilità di bloccare le contrattazioni appena l’indice di una borsa perde più del 7 per cento.
Come spiega il New York Times, il 7 gennaio il blocco è scattato appena 29 minuti dopo l’apertura degli scambi. Le cause dei crolli in borsa, continua il quotidiano statunitense, sono riconducibili alle difficoltà dell’economia cinese, che spingono gli investitori (molti dei quali cinesi) a portare i loro soldi fuori dal paese. Da tempo la crescita del pil è in frenata e le esportazioni – il motore del miracolo economico degli anni scorsi – sono in netto declino, in parte perché la domanda di beni dall’occidente è diminuita, ma anche perché i costi di produzione del paese (compresi quelli del lavoro) ora sono più alti.
La Cina cerca di passare
da un’economia delle esportazioni
a un modello che punta sui consumi interni
A questo occorre aggiungere che negli ultimi anni Pechino ha cercato di salvare la situazione finanziando enormi investimenti in opere che si sono rivelate tutt’altro che utili e redditizie e hanno fatto solo lievitare l’indebitamento di enti pubblici, aziende e banche di stato. Secondo molti esperti, la Cina sta cercando di passare dal modello di economia basato sulle esportazioni a un modello “più maturo” che punta anche sui consumi interni. In attesa di questa transizione, che richiederà tempo e il superamento di notevoli ostacoli politici e tensioni sociali, Pechino ha deciso di svalutare la sua moneta, lo yuan, per far ripartire le esportazioni. Ma a quanto pare il costante declino della moneta cinese è solo il segno che sempre più investitori e aziende non hanno fiducia negli interventi di Pechino.
In realtà molte delle misure introdotte per fermare il caos finanziario avrebbero solo peggiorato la situazione. Questo è il caso di un provvedimento introdotto l’8 luglio 2015, spiega la Neue Zürcher Zeitung, con il quale si vietava agli investitori in possesso di almeno il 5 per cento del capitale di una società quotata di vendere le loro azioni per sei mesi, cioè fino all’8 gennaio 2016. “Evidentemente, all’inizio dell’anno molti investitori si sono affrettati a vendere, prevedendo che l’8 gennaio gli azionisti bloccati dal divieto si sarebbero subito liberati dei loro titoli facendone scendere il prezzo vertiginosamente”. Proprio per evitare un nuovo crollo domani, le autorità hanno deciso di prolungare il divieto di tre mesi.
I leader dei paesi autoritari sono a loro agio quando le cose vanno bene, ma gestiscono con difficoltà i problemi
Un’altra misura “boomerang”, continua il quotidiano svizzero, è stato il cosiddetto “circuit breaker”, cioè la possibilità di sospendere le contrattazioni per quindici minuti quando la perdita arriva al 5 per cento. Ma come hanno dimostrato le giornate del 4 e del 7 gennaio, “la sospensione ha solo accelerato la tendenza al ribasso: man mano che la perdita si avvicinava alla soglia, gli investitori si affrettavano a vendere. E dopo i quindici minuti di sospensione le perdite sono aumentate ulteriormente arrivando rapidamente al 7 per cento. Con il circuit breaker, in sostanza, gli investitori si sono comportati come le pecore di un gregge che corrono tutte nella stessa direzione”.
In effetti, come osserva la Bbc, la reazione delle autorità cinesi ai crolli in borsa “dimostra che i cosiddetti ‘masters of the universe cinesi’ potrebbero aver perso il polso della situazione e, peggio ancora, il controllo dei loro mercati finanziari”. Più volte in passato è stata vantata l’efficienza dei paesi autoritari, i cui leader sembrano molto più sicuri e capaci dei loro colleghi alla guida di regimi democratici. Ma come dimostra il caso delle borse cinesi, spesso i governanti dei paesi autoritari sono a loro agio solo quando le cose vanno bene, mentre entrano in seria difficoltà quando sorgono problemi gravi, perché non osano mostrarsi deboli di fronte ai cittadini facendo esplodere uno scandalo né ricorrere al dialogo e alla mediazione per la ricerca di una soluzione.
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