“Metà dei lavori di oggi spariranno nel giro di vent’anni”. A dirlo è una multinazionale dei mass media come Aol, e non è un’affermazione estemporanea: già nel 1999 il Department of labor statunitense sosteneva che il 65 per cento degli studenti delle scuole superiori si sarebbe ritrovato a fare lavori che ancora non c’erano. È la Mit Technology Review a spiegare come nei prossimi vent’anni verrà automatizzato il 45 per cento dei lavori oggi esistenti negli Stati Uniti, cominciando da trasporti, logistica e amministrazione.

I lavori nuovi saranno quelli che “richiedono empatia, creatività, capacità di negoziazione. Tutti campi che un’intelligenza artificiale, per quanto sofisticata, non riesce a padroneggiare”, scrive Massimo Gaggi su La Lettura del Corriere della Sera. E aggiunge che la transizione sarà lunga e dolorosa.

Gaggi segnala tre altre cose interessanti. La prima: i computer svolgono bene compiti anche complessi ma ripetitivi, e dunque si salveranno i lavori manuali, dall’infermiere all’idraulico, che prevedono alti livelli di imprevedibilità e di variabilità ambientale (invece, per esempio, le case potrebbero essere stampate in un giorno da una macchina invece che costruite mattone sopra mattone da esseri umani).

La seconda: dovrebbe riuscire a cavarsela mediamente meglio chi ha un titolo di studio superiore. Tuttavia, dei mestieri intellettuali, sono a rischio quelli di livello intermedio, basati su routine ricorrenti: è il tipo di attività che i computer possono replicare più facilmente.

La terza: il cambiamento è gigantesco, e avrà un grande impatto anche sulla classe media (sentite quel che dice l’economista Andrew McAfee). Per affrontarlo dovremo rivoluzionare molte cose, dal modo in cui misuriamo il benessere a quello in cui organizziamo l’educazione.

E, a proposito di educazione, è proprio Ocse-Pisa a segnalare quanto drastico sia già oggi il cambiamento delle competenze richieste (guardate la tabella).

Se pensiamo, con Ocse-Pisa, che il futuro appartenga a chi sa svolgere lavori non di routine, potremmo sentirci rassicurati perché il dna nazionale ci regala capacità preziose e apprezzate in tutto il mondo: noi italiani siamo flessibili, empatici, ingegnosi. L’imprevisto e l’ambiguità (due cose che i computer non sanno affrontare) non ci spaventano. Abbiamo un talento per inventare.

E poi sappiamo produrre gusto, piacere e bellezza, tutta roba difficile da informatizzare. E poi, grazie alla diffusione delle stampanti 3d la tecnologia potrebbe anche dare impulso alla nostra straordinaria vocazione di artigiani. Anzi, per dirla alla nuova maniera, di makers.

C’è un problema, però. Oggi in questo paese sembra strano retribuire il lavoro intellettuale creativo: cioè l’unico non automatizzabile. E l’unico importante per il futuro.

Il fenomeno della retribuzione negata riguarda i giovani che fanno mestieri creativi (fotografi, registi, grafici, web designer) e l’hanno segnalato Stefano De Marco, Niccolò Falsetti e Alessandro Grespan con la recente campagna #coglioneno.

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Ma riguarda anche chi scrive, chi si occupa di comunicazione, di produzione o di editoria, chi organizza iniziative culturali, chi fa teatro o musica.Riguarda illustratori, industrial designer e progettisti, architetti, gente che opera nel terzo settore e tanti altri.Riguarda professioni che sono intrinsecamente intellettuali e creative anche se non ne hanno l ‘etichetta: per esempio i ricercatori, che sopravvivono con compensi irrisori. Riguarda – perché anche questo è un lavoro che va valorizzato come intellettuale e creativo – chi insegna, e lo fa bene e con passione.

E(credetemi: lo dico per esperienza diretta e ripetuta) il fenomeno non riguarda solo i giovani.”A differenza che in altri paesi, in Italia la fase progettuale è raramente remunerata. Eppure è lì che si concentra il valore aggiunto in termini di innovazione”: le idee si pagano, scrive Guido Guerzoni sul Sole 24 Ore. Dovrebbe essere ovvio ma non lo è per niente e a nessuno, a partire dalle pubbliche amministrazioni. Paradossalmente, trent’anni fa lo era di più.

Il danno di sistema è, lo sappiamo, grande: il comparto delle imprese creative, che già oggi potrebbe sviluppare valore per il paese,

[stenta][10]. Le menti migliori, più coraggiose e produttive, se ne vanno all’estero, a creare valore in altri paesi. Gli insegnanti, alla cui energia è appesa la formazione delle prossime generazioni, vivono in un limbo.

Ma il danno maggiore è ancora invisibile. Nella misura in cui adesso ci rifiutiamo di riconoscere e retribuire adeguatamente come “lavoro” il lavoro intellettuale, stiamo negando l’essenza stessa di tutti i lavori che verranno. E stiamo squalificando e cancellando i lavori del futuro che già oggi esistono: quelli che riguardano la cura e la crescita delle persone, la sperimentazione, la ricerca, la creatività, la progettazione e l’innovazione.

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