Milano, 1 maggio 2015. (Massimo Percossi, Ansa)

La manifestazione No Expo del primo maggio, tra i vari effetti uno di sicuro l’ha avuto: ha creato un fronte compatto contro se stessa e contro l’intero movimento di protesta. Le devastazioni del cosiddetto blocco nero hanno coperto quella piccola porzione dei mezzi di informazione che non era occupata dall’immensa campagna promozionale dell’Expo, e hanno fatto sì che i temi della contestazione – cittadinanza, lavoro, critica alla corruzione e alla finanza, accesso alle risorse – fossero completamente oscurati.

Al netto degli scontri (qui una cronaca puntuale di Leonardo Bianchi), le immagini emblematiche della giornata, quelle che sono andate a ripetizione sulle bacheche dei social network, sono l’intervista al sedicente casseur fatta dalla troupe del TgCom e la foto scattata dallo scrittore Ivan Carozzi subito dopo la fine della manifestazione.

Visto che queste immagini non sanno dirci nulla dei motivi della protesta, la domanda che potremmo farci è se ci raccontano qualcosa almeno degli scontri. La risposta per molti versi è no, nonostante siano state viste e commentate da milioni di persone. Per quale motivo? Perché di fatto cercano un effetto pornografico.

Il cul de sac in cui i movimenti di protesta globali si sono infilati ormai da anni è quello di essere inconsapevoli produttori di riot porn: una pornografia della devastazione.

I cortei organizzati, spesso male organizzati, spesso involontariamente o addirittura colpevolmente male organizzati, spesso inorganizzabili, ma soprattutto senza una coscienza di come gestire la rappresentazione del conflitto, lasciano spazio ai desideri individuali e solitarissimi: spaccare tutto, farsi una foto con la macchina bruciata o – appena dopo per contrappasso – commentare su Facebook quanto sia idiota quel ragazzo incappucciato o questa ragazza sorridente, o addirittura a invocare manganellate, mamme di Baltimora, interventi à la Diaz. Il clicktivism è l’altra faccia del riot porn.

Il conflitto diventa un consumo come un altro. Ognuno si può scegliere la sua categoria, come su un sito porno. Ed è molto difficile, per chi invece crede alle ragioni di questa protesta e al bisogno di radicalità, provare a uscire dal vicolo cieco.

La MayDay ha una bellissima storia (venerdì scorso era la quindicesima edizione) ed è stata per i movimenti, in Italia e non solo, uno strumento capace di mettere insieme i precari, i nuovi sfruttati, i non rappresentati dai sindacati, strappandoli alle favole della flessibilità e dell’innovazione. Ma ha anche incarnato un modello diverso di stare in piazza.

Il primo maggio 2015 questo modello ha mostrato i suoi limiti.

Non è un caso se a differenza delle manifestazioni del 14 dicembre 2010 o del 15 ottobre 2011, nessuno stavolta abbia rivendicato gli scontri. La ragione di questa difficoltà è che la piazza è ormai davvero imprevedibile, e non è più nemmeno governabile dai movimenti, ma è anche vero che, a vedere le immagini degli scontri, perfino chi aveva il buongusto di non trasformarsi in un perbenista del commento da Facebook, non poteva non commentare con un moto di stanchezza: ancora?

La crisi della sinistra è anche una crisi performativa. Una crisi ideale su quale racconto del conflitto provare a tessere, che non sia maniacale, depressivo, consumistico o pornografico.

Dall’altra parte, invece, il modello spettacolare dello show dell’inaugurazione dell’Expo è coerente, funzionante, sinistramente efficace: una brandizzazione della città, la celebrazione di un tempo e di un luogo dove – come è scritto nel sito – non si è cittadini, ma si può diventare, pagando 30 euro, protagonisti o – per dirla meglio –testimonial.

La sfida dei movimenti nel prossimo futuro sarà quella di inventarsi una visione del conflitto che sia spiazzante, passionale, erotica, gioiosa e liberatoria. Cercando di avere a cuore la propria rabbia ma anche la propria immaginazione.

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