L’Esc, un centro sociale romano, uno dei posti più inventivi, più interessanti, più belli di questa città, è sotto minaccia di sgombero. La delibera 140, approvata ad aprile 2015 dalla giunta Marino, e una determinazione dirigenziale di fine 2015 hanno deciso di ignorare la sua importanza, la funzione centrale che ha avuto da quando fu occupato a metà degli anni duemila e l’energia che hanno generato questo e altri spazi. E di trattarlo come un qualsiasi locale da mettere a bando (leggi: affittare, leggi: snaturare) per fare cassa in qualche modo. E soprattutto per soffocare quei pochi, flebilissimi, aliti di vita politica e culturale che ancora esistono nel contesto smorto, depressivo, asfittico della città di Roma.

Ieri, all’assemblea indetta contro la minaccia di sgombero, c’erano un migliaio di persone. Non la marmaglia centrosocialara descritta dai denigratori ottusi, ma davvero una comunità, se non una generazione, alcune delle migliori intelligenze sopravvissute all’inerzia mortifera della politica cittadina: è sembrato veramente un segnale in controtendenza.

Una visione condivisa del futuro della città

In quattr’ore hanno parlato personaggi di riferimento dell’attivismo romano, come Nunzio D’Erme o Amedeo Chiacchieri, e politici istituzionali, come Roberta Lombardi del Movimento cinque stelle (che ha sostituito all’ultimo Alessandro Di Battista) o Stefano Fassina di Sinistra italiana.

La domanda immediata nel vedere tutta questa gente insieme era: perché per ritrovare, per riaccumulare quest’energia, questa volontà di fare politica, di cambiare le cose, di unire le forze c’è bisogno di un’intimidazione così incombente? Perché tutte le proposte, le analisi, i desideri, che si sono ascoltati devono venire fuori solo quando ci si sente sotto attacco?

Roma non è una città vittima della violenza, della criminalità, del degrado: è preda della noia

Perché l’aspetto significativo che accomunava le mille persone che sono accorse a sostegno di Esc non era solo il sacrosanto riconoscimento del suo ruolo sociale e culturale (l’aver animato centinaia di dibattiti, assemblee, festival, seminari, in questi avvilenti anni di Alemanno e Marino) e del suo ruolo politico (l’aver continuato a immaginare un luogo che non diventasse l’ennesimo spaccio commerciale della movida peciona di Roma). E non si è risolto nemmeno nella generica rivendicazione di una giustizia sociale contro un’amministrazione legalitaria, prefettizia, che per governare ogni forma di dissenso macina multe per morosità e sgomberi.

Si trattava invece, in maniera molto evidente, di affermare una visione condivisa del futuro di questa città: a Esc in questi dieci anni molte persone hanno scoperto le parole per parlare dei nostri tempi di passioni tristi e se ne sono inventate altre per tentare di rovesciare il tavolo.

Senza un fantomatico decoro da contrapporre a un fantomatico degrado, senza una retorica della sicurezza da far valere contro i fantasmi della paura.

Roma – diciamoci la verità – non è una città vittima della violenza, della criminalità, del degrado: Roma è una città preda della noia. Dove i cinema si spengono: il 31 gennaio prossimo sarà l’ultimo giorno di programmazione dell’Alcazar, una delle pochissime sale storiche del centro, una delle tre che proiettava film in lingua originale.

In cui i centri sociali e le occupazioni (abitative e non) si sgomberano: prima della minaccia a Esc è toccato allo Scup, a Casale Falchetti, a Degage, al Teatro Valle, al Rialto, a decine di posti, a decine di migliaia di persone, giusto stamattina a villa Lauricella, domattina via Prenestina 1391. E tutto per cosa? In nome di un’idea di legalismo che confonde il governo con la vigilanza, e fa terra bruciata di tutto quello che non si conforma a quest’andazzo.

Non si può immaginare lo sviluppo di una città legandolo alla rendita immobiliare

A metà degli anni novanta ci fu una delibera comunale importante, la 26 (qui il testo) che regolarizzò occupazioni storiche e più recenti. Grazie a quel provvedimento, a Roma è potuta esistere per vent’anni una vita culturale degna di questo nome, un’associazionismo dal basso che ha fatto scudo contro la crisi: dal Brancaleone al Podere Rosa, dal Corto Circuito alla Strada, la giunta Rutelli riuscì a valorizzare molti di questi spazi senza i quali oggi molti quartieri di Roma sarebbero semplicemente inimmaginabili.

Ora, forti di quella premiante scelta politica, che senso ha invertire la rotta e colpire a casaccio il mondo delle occupazioni? Perché non prendere esempio da Luigi de Magistris, che a Napoli ha capito che era fondamentale preservare queste esperienze e ha deciso di sostenere l’Asilo Filangieri? Oppure dalla neosindaca Ada Colau, a Barcellona? La storica attivista dei movimenti per la casa ha semplicemente compreso che non si può immaginare lo sviluppo di una città legandolo alla rendita immobiliare, alle concessioni al ribasso dedicate ai potenziali costruttori, a un’economia parassitaria di giovani trentenni che per campare mettono la casa dei nonni in affitto su airbnb.

E poi, davvero, quando è cominciata questa moda di delegittimare i centri culturali e sociali, indicati come realtà fanfarone, eterodosse, ribelli? Una moda che al tempo stesso esalta prefetti, superpoliziotti e commissari come se fossero dei padri autoritari ai quali affidare una gestione emergenziale.

Chi fa politica tra centri sociali e movimenti per la casa ha spesso quarant’anni, cinquanta, sessanta. E non è più un ragazzo intemperante, ma un maturo signore che ha imparato a mettere a frutto pratiche di amministrazione differente, che non è per nulla refrattario alle regole, ma vuole più responsabilità non meno, più coordinamento politico non meno (quanta parte di Roma vive – e bene – di autogestione per esempio?).

Quel signore magari di mezz’età, disincantato senza essere cinico, visionario senza essere velletario, siamo anche noi. Quelli che percepiscono un’insidia anche se non riescono a metterla a fuoco: una specie di Tav invisibile, incarnata in tutte le speculazioni, in tutte le forme di spoliazione di questa città, contro le quali resistere non significa solo un atto di difensivo boicottaggio, ma potrebbe segnare una specie di battesimo di un movimento trasversale, multigenerazionale che riesca a ottenere una moratoria su questi spazi, capitalizzi l’intelligente radicalismo di questi anni, e s’immagini una Roma inedita sul serio.

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