All’inizio di House of Cards, prima serie seconda puntata, il malvagio Francis Underwood chiude un gruppetto di giovani geni della comunicazione in una stanza del Congresso perché scrivano un programma di riassetto dell’educazione scolastica: sarà la prima proposta di legge del neopresidente degli Stati Uniti. Alla fine del lavoro, uno dei membri del gruppo chiede a Underwood: “History?”, cioè “Abbiamo fatto la storia?”. “History”, risponde Underwood.
Qualche mese fa, la ministra Giannini ha fatto qualcosa del genere. Ha chiuso un gruppo di esperti, per lo più giuristi, in una stanza del ministero e ha chiesto loro di pensare e scrivere un dossier sulla scuola italiana: su com’è e su come va cambiata. Il risultato è un documento di 136 pagine che è stato messo online all’inizio di settembre. Contestualmente, il primo ministro Renzi ha chiesto ai cittadini di leggere e di dire la loro sul sito La buona scuola.
Domenica 16 novembre questa Grande Consultazione Popolare si è chiusa, e sul sito si possono leggere, oltre al testo del documento, i messaggi di centinaia di “gruppi di discussione” sparsi per il paese, con i relativi like (uno potrebbe obiettare che la consultazione andava fatta prima di scrivere il documento, solo che sarebbe stato impossibile, e forse anche inutile se in testa alle proposte avanzate dai gruppi di discussione, a quota 467 like, c’è un capolavoro di concretezza come il seguente: “La scuola oltre la cultura deve formare la persona. Il voto deve comprendere anche una valutazione della persona, dell’impegno, della costanza e passione che impiega”).
E dunque: “hanno fatto la storia?”. Sono cose che si scoprono dopo. Ma è un fatto che il documento contiene varie novità di rilievo, e proposte normative che, se attuate, influenzeranno senz’altro la vita degli insegnanti nei prossimi anni, e anche un po’ la vita degli studenti. I settori in cui le novità mi sembrano più rilevanti sono:
Il reclutamento degli insegnanti Intanto, recependo una direttiva europea, il governo s’impegna ad assumere tutti i circa 150mila insegnanti precari che riempiono le graduatorie ad esaurimento. Dopodiché si prospetta un piano di assunzioni che, a regime, dovrebbe permettere di inserire nei ruoli scolastici circa 13mila nuovi insegnanti ogni anno (il documento parla di un bando per circa 40mila posti per la copertura del triennio 2016-2019). Il che introduce al punto successivo.
La formazione degli insegnanti La strada è quella già segnata da tempo, cioè dalle decisioni dei precedenti governi: dopo la laurea triennale, gli aspiranti insegnanti accedono (per concorso) a un corso di studi biennale specificamente pensato per la loro formazione, e dunque centrato sulla didattica; al termine di questo corso di studi, gli aspiranti insegnanti fanno un tirocinio a scuola di sei mesi, dopodiché vanno in cattedra.
La carriera degli insegnanti Gli stipendi degli insegnanti aumentavano e aumentano in ragione della anzianità di servizio. Stando al documento, non sarà più così. Gli insegnanti verranno valutati dal dirigente scolastico e da un Nucleo di Valutazione formato da altri insegnanti e da “un membro esterno”: i due terzi degli insegnanti potranno avere, ogni tre anni, un aumento di circa 60 euro; un terzo di loro no (la percentuale, che mi pare enorme, è indicata nel documento: “Ogni tre anni, due terzi (66 per cento) di tutti i docenti di ogni scuola avranno diritto ad uno scatto di retribuzione”). In questo modo, gli insegnanti migliori (cioè quelli che avranno sempre ottenuto il premio triennale) potranno guadagnare, dopo 36 anni di servizio, circa 720 euro in più rispetto ai peggiori (cioè quelli che non avranno mai ottenuto il premio triennale).
Il potenziamento dell’autonomia Ogni dirigente scolastico potrà consultare il portfolio di ciascun insegnante e, “a certe condizioni e nel rispetto della continuità didattica […], scegliere le migliori professionalità per potenziare la propria scuola”. Proposta interessante, a mio avviso, salvo il fatto che, come ha osservato Mauro Piras, “questo punto non è per niente chiaro, dal momento che il documento conferma il reclutamento per concorso, e non per chiamata diretta; quindi non si capisce chi possono scegliere i dirigenti e per cosa”.
Meno importanti mi sembrano altri capitoli che, più che esprimere un programma, formulano auspici e buoni propositi molto molto vicini al wishful thinking: è un mondo digitale, quindi ci vuole più digitalizzazione; è un mondo globalizzato, quindi ci vogliono più lingue straniere, soprattutto l’inglese; è un mondo pieno di disoccupati, quindi ci vuole un migliore collegamento scuola-lavoro; è un mondo senza soldi, quindi bisogna che i privati siano invogliati a finanziare le scuole, grazie a una politica che va dagli sgravi fiscali al crowdfunding (vulgo “colletta”); è un mondo in continua evoluzione, quindi bisogna che gli insegnanti si aggiornino nel corso di tutta la loro carriera; è un mondo creativo, quindi bisogna che tutti studino più storia dell’arte e più musica (e ciò non si potrà fare senza l’attivo coinvolgimento di “tutte le istituzioni musicali del paese, in primo luogo i conservatori, ma anche gli enti lirici e sinfonici, bande militari e civili”: balena sullo sfondo la figura cara del maestro Scannagatti, alias Totò); è un mondo in cui essere magri è importante, quindi bisogna che i ragazzini facciano attività fisica: “Devono rialzarsi, correre, sudare”. Ma certo. Eccetera.
La buona scuola parla di molte cose, molto a lungo. Troppo a lungo: si poteva condensare tutto in metà spazio, o in un terzo, e il documento avrebbe avuto il doppio o il triplo dei lettori. Lo dico per il futuro: poche persone dispongono delle 3-4 ore che ci vogliono per leggere le 136 pagine di un documento ministeriale, per quanto colorato e user friendly.
La buona scuola sembra scritta precisamente da bravi “tecnici” che hanno vissuto poco: questo è un bene da un lato, perché i vecchi sono spesso dei piagnoni senza fantasia; ma è un male dall’altro
Il fatto è che i dati, che pure ci sono, affogano in un discorsone il cui tono propagandistico-motivazionale ricorda molto quello delle interviste di Renzi, abbastanza quello di Le chiavi del pensiero positivo di Napoleon Hill, e un pochino anche il dai dai dai di René Ferretti in Boris. “… ricucire il tessuto educativo del Paese… rete di intersezioni preziose… ogni scuola deve poter schierare la migliore squadra possibile… riscatto e protagonismo Civico… filo forte di un tessuto sociale da rammendare… essere centro inclusivo e gravitazionale di scambi culturali, creativi, intergenerazionali, produttivi” (qui anche René Ferretti si ritira in buon ordine e scivoliamo decisamente nella supercazzola). È vero che un po’ di entusiasmo e un po’ di fiducia in se stessi, in queste cose, non fa male; ma si doveva essere più asciutti.
Con l’asciuttezza, forse, sarebbe venuta anche una maggiore aderenza alla realtà. Come tutti gli scritti motivazionali, infatti, anche il documento La buona scuola espelle dal suo raggio d’attenzione il Negativo, che è poi un altro nome del Reale: valuteremo le scuole, ma senza fare classifiche (il sistema di valutazione “non mira, semplicisticamente, a ‘premiare la scuola migliore’, quanto piuttosto a ‘sostenere la scuola che si impegna di più per migliorare’”: eeeeh?); premieremo i docenti migliori, senza però umiliare i non-migliori; faremo in modo che gli studenti più bravi coltivino i loro talenti, ma senza lasciare indietro i meno bravi. Basta aver vissuto un po’, e aver vissuto un po’ la scuola, per sapere che le cose non possono andare così.
Ma il documento La buona scuola sembra scritto precisamente da bravi “tecnici” che hanno vissuto poco: questo è un bene da un lato, perché i vecchi sono spesso dei piagnoni senza fantasia; ma è un male dall’altro, perché l’idealismo senza esperienza porta spesso, anche involontariamente, alla mistificazione.
Enrico Rebuffat ha spiegato, con molta pazienza, perché i calcoli sugli stipendi dei futuri docenti sono irrealistici e mendaci. E qualsiasi lettore sensato chiude gli occhi per lo strazio quando La buona scuola disegna il profilo di insegnanti-MaxWeber versati in ogni settore dello scibile – “… gestiscano classi sempre più multiculturali, integrino gli studenti con bisogni speciali, utilizzino efficacemente le tecnologie per la didattica, coinvolgano i genitori […], non insegnino solo un sapere codificato (più facile da trasmettere e valutare), ma modi di pensare (creatività, pensiero critico, problem-solving, decision-making, capacità di apprendere), metodi di lavoro (tecnologie per la comunicazione e collaborazione) e abilità per la vita e per lo sviluppo professionale nelle democrazie moderne” – o quando ai piccoli Kevin, Samantah e Mohammed, gli spensierati abitanti di classi nelle quali è quasi impossibile anche solo mantenere la disciplina, si propone un curriculum fatto, oltre che di problem-solving e decision-making (nonché, si spera, italiano e matematica), di storia dell’arte e disegno, musica, inglese, economia, programmazione informatica, tecniche di stampa in 3D e body-building.
Naturalmente, è facile criticare. È anche facile dire (in rete è una sassaiola) che nessuno dei giuristi o esperti di comunicazione o scienze politiche convocati dal ministro per scrivere La buona scuola ha mai passato un giorno come insegnante in un’aula scolastica. La risposta a questa ragionevole obiezione è che gli esperti di pedagogia avrebbero fatto peggio (cioè, hanno già fatto peggio); e che sentire i pareri di settecentomila insegnanti, o anche di una loro frazione, non è né possibile né augurabile. Nel migliore libro sulla scuola che io conosca, Scuola sotto inchiesta, Guido Calogero scrive, un po’ sul serio un po’ scherzando, che la riforma della scuola, per avere chances di successo, dovrebbe farla il ministro, a casa sua, dopo aver ascoltato per un po’ (ma non per troppo) le opinioni di due o tre persone delle quali si fida. Più invecchio, più mi avvicino a pensarla così.
La mia opinione è che le due cose fondamentali, per la scuola, tanto fondamentali da rendere le altre quasi irrilevanti, siano la formazione e la selezione degli insegnanti: un bravo insegnante funziona anche in una scuola fatiscente, senza computer, con classi sovraffollate; mentre un cattivo insegnante fa disastri anche, e forse soprattutto, se equipaggiato di banchi, libri, lavagne elettroniche e connessioni superveloci. Stiamo formando e selezionando bene gli insegnanti? Non credo. Lo faremo grazie al nuovo sistema prospettato da La buona scuola? Non credo.
Intanto, l’assunzione in ruolo di 150mila precari è una buona notizia per i 150mila precari, ma una notizia ferale per gli altri cittadini: perché non sappiamo nulla della qualità di questi precari: la battaglia per il merito comincia cioè con una gigantesca immissione di persone il cui merito, in molti casi, non è mai stato verificato. Temo anche che la spesa necessaria a sostenere queste assunzioni costringerà ad assumere di meno (molto meno di quanto il documento prospetti) negli anni a venire, riducendo di molto i posti per i giovani che adesso, nelle università, si stanno formando come insegnanti.
Quanto al percorso biennale “professionalizzante” “improntato alla didattica”, credo che sia un errore (non di questo governo, ma anche di questo): perché sopravvaluta l’importanza della didattica e della pedagogia (dire questo non significa dire che didattica e pedagogia non sono importanti: significa dire che sono il contorno, non il piatto di portata, e per il contorno sono sufficienti alcuni mesi di lezioni, e non anni, buone letture e, soprattutto, l’esperienza in classe); e perché sottovaluta l’importanza delle competenze disciplinari, competenze che coloro che escono dalla triennale molto spesso non posseggono. Per essere più chiari: chi oggi prende una laurea triennale in letteratura o in filosofia, nella grande maggioranza dei casi non è in grado di insegnare né letteratura né filosofia non perché non sa come insegnare la letteratura o la filosofia ma perché sa troppo poco di letteratura o di filosofia.
Che fare, dunque? Ne so – tutti ne sappiamo, anche gli esperti del ministero – più o meno tanto quanto ne sa chi mi sta leggendo. Mi sembra chiaro che per avere ottimi insegnanti bisognerebbe che questa carriera attirasse gli studenti migliori. Questo oggi non accade, in sostanza per tre ragioni. La prima è che gli insegnanti sono pagati poco. La seconda è che diventare insegnanti ed entrare in ruolo era, almeno fino ad oggi, una gimkana tra norme incomprensibili, lungaggini estenuanti, occasioni prese o perse per puro caso, botte di fortuna o di sfortuna: bisognava essere matti per affidare il proprio destino a una cabala del genere. La terza è che la carriera a scuola non è una carriera: non si progredisce nella gerarchia, s’invecchia, e tra fare il proprio lavoro bene e fare il proprio lavoro male non c’è questa gran differenza (salvo che per la propria coscienza, si capisce: ma anche la coscienza cede, coll’età).
Mi sembra assurdo (e pericolosissimo) che dell’anzianità non si tenga alcun conto. Solo che io non so quello che gli esperti del ministero sembrano sapere alla perfezione (mantenendo però il segreto su questo punto), e cioè come effettivamente si misura il merito di un insegnante
Può darsi che le nuove norme correggeranno la seconda stortura; dubito molto che correggeranno la terza; sono certo che non correggeranno la prima: vale a dire che gli insegnanti continueranno ad essere pagati poco anche se dovesse entrare a regime la riforma delineata nel documento del governo. L’amara verità è che gli insegnanti sono pagati poco in tutto il mondo: perché la scolarizzazione aumenta, si diversifica, si complica (è interessante il fatto che nel documento la parola immigrati o immigrazione non compaia mai: dicano gli insegnanti quante volte al giorno, invece, loro sono obbligati a pensarci), e il numero degli insegnanti cresce, mentre i soldi per l’istruzione restano gli stessi, e anzi – invecchiando la popolazione – diminuiscono. Non c’è cura per questa malattia: salvo misure radicali che nessuno ha il coraggio o la forza di prendere (meno scuola? Alcuni l’hanno proposto, e non tra i meno intelligenti).
Gli stipendi resteranno bassi, dunque. Ma ci sono un mucchio di giovani bravi e intelligenti che non danno troppo peso al denaro e alla carriera, e a cui piacerebbe insegnare. L’università dovrebbe incoraggiarli a farlo, e aiutarli nel loro percorso. È un nobile intento. Ma è un nobile intento anche fare in modo che chi non è adatto a insegnare non finisca in classe. Le scuole sono piene (piene) di insegnanti inadeguati; così come le università, specie le facoltà “deboli” come Scienze della Formazione e Lettere, sono piene di aspiranti insegnanti del tutto inadatti a questo ruolo. Sarebbe opportuno poter licenziare quegli insegnanti in ruolo (anziché spostarli di classe in classe, perché il danno venga distribuito); e sarebbe ancora più opportuno fermare in tempo quegli insegnanti in pectore, per il loro bene e per quello degli altri. Forse l’esame per accedere al biennio specialistico servirà a questa selezione: se è così – purché l’esame sia davvero rigoroso, e impostato sulle conoscenze disciplinari più che sulle competenze pedagogiche – ben venga il biennio specialistico, o qualsiasi dispositivo atto a tenere ben lontano dalla scuola, poniamo, l’aspirante docente di lettere che risponda “1948” alla domanda “Quando è finita la seconda guerra mondiale?” (exemplum non fictum, dato che è successo a me la scorsa settimana: salvo il fatto che non di un aspirante docente si trattava, ma di un docente in servizio, iscritto ai Pas).
Dopodiché, resta il problema degli scatti stipendiali, e della carriera, che sono due cose diverse. Ben vengano scatti stipendiali legati al merito: solo che mi sembra assurdo (e pericolosissimo) che dell’anzianità non si tenga alcun conto, per ragioni troppo evidenti perché vadano spiegate; e solo che io non so quello che gli esperti del ministero sembrano sapere alla perfezione (mantenendo però il segreto su questo punto), e cioè come effettivamente si misura il merito di un insegnante. Leggendo il documento mi è parso che questo merito sia legato soprattutto ad attività extra-curricolari: incarichi amministrativi, “svolgimento di ore e attività aggiuntive ovvero progetti legati alle funzioni obiettivo o per competenze specifiche (Bes, Valutazione, Pof, Orientamento, Innovazione tecnologica)”.
Se è così (e mi pare proprio che sia così), andiamo molto male: perché mi pare chiaro che le attività extra-curricolari vadano pagate (lo sono già, poco); e perché il merito di un insegnante si giudica dal modo in cui insegna, non dal suo impegno nell’amministrazione o dalla fantasia e dallo zelo con cui s’inventa amene alternative alle lezioni d’italiano e matematica: altrimenti si finisce per premiare non i bravi docenti ma i traffichini, o quelli che scambiano la scuola per un dopolavoro (nel mio liceo c’era la “Professoressa Cineforum”, e sapevamo bene già allora che cosa pensarne).
Dato che non credo che il merito reale di un docente si possa misurare agevolmente, e dato che non credo che a misurarlo possano essere i suoi colleghi (questa la proposta del documento, a mio avviso dissennata), meglio sarebbe pensare non a scatti stipendiali octroyés da un Nucleo di Valutazione bensì a vere e proprie carriere, graduate come sono graduate quelle dei docenti universitari e, come queste ultime, regolate da concorsi pubblici che misurino le conoscenze disciplinari e le capacità didattiche: sarebbe anche un modo per motivare gli insegnanti ad aggiornarsi sul serio (ora come ora mi pare che gli aggiornamenti siano in gran parte delle perdite di tempo e di denaro: anche perché uno può benissimo partecipare a corsi di aggiornamento scaldando la sedia e pensando ai fatti suoi, dato non ci sono né verifiche né premi né sanzioni).
Che altro. Ah già, i soldi. Assunzioni en masse, meccanismi premiali, aperture pomeridiane, potenziamento del sostegno, educazione musicale d’intesa con le “bande militari e civili”, digitalizzazione di qualsiasi cosa, “acquisto di nuovi macchinari (stampanti 3D, frese laser, componenti robotici, eccetera)”. Uno si chiede: ecco, nell’“eccetera” ci entra anche la carta igienica?
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