L’altra sera ho visto il nuovo spettacolo di Antonio Rezza e Flavia Mastrella al teatro del Vascello di Roma, in mezzo a un pubblico di affezionati acclamanti. Io però ero anche insieme a persone che non avevano mai visto Rezza-Mastrella dal vivo, un ragazzino di tredici anni e una mia coetanea.

Si sono divertiti molto tutti due, e soprattutto il ragazzino, che alla fine non ha fatto nessuna delle domande che mi aspetterei si facesse uno spettatore ingenuo uscendo da uno spettacolo di Rezza-Mastrella: che cosa vuol dire? Di che cosa parlava esattamente? Perché tutti quegli strilli? Perché le voci in falsetto? Che cosa vogliono dire le frasi-ritornello che saltano fuori ogni tanto durante lo spettacolo, senza che si capisca bene che relazione hanno con quello che sta succedendo sul palco? E soprattutto: perché, a un certo punto, tutti quei sederi nudi? Il ragazzino evidentemente non era uno spettatore ingenuo; o forse i ragazzini e gli ingenui sono spontaneamente, naturalmente in sintonia con il teatro non narrativo, antinaturalistico, surreale di Rezza-Mastrella.

Anelante (si chiama così, participio presente di anelare, senza ragione apparente; ma forse c’entra anche lo spagnolo-manzoniano adelante) è, se non sbaglio, il loro settimo spettacolo in collaborazione.

Rispetto ai precedenti, la novità più evidente è che Rezza non è solo sulla scena. In realtà non lo era neppure in Fratto X (2012), perché sul palcoscenico anche allora c’era, come c’è in Anelante, l’eccellente Ivan Bellavista. Ma stavolta i comprimari sono quattro, e non solo si agitano come si agitava Ivan Bellavista in Fratto X ma – ed è forse la prima volta in uno spettacolo di Rezza-Mastrella – parlano.

In generale, i loro spettacoli sono sequenze di quadri legati insieme da fili molto sottili

Di che cosa parlino, loro e Rezza, è un altro discorso. “Che racconta, Anelante?”, ha chiesto Rodolfo Di Giammarco a Rezza-Mastrella. Risposta di Rezza: “Di un uomo che ce la mette tutta per ascoltare gli altri, poi capisce che è meglio ascoltare se stesso”. Di che cosa parla il vostro spettacolo? è una domanda che Rezza-Mastrella devono essersi sentiti fare decine di volte da spettatori straniti, perciò è normale che, per fare in fretta, s’inventino risposte del genere. Ma Anelante non racconta questo.

In generale, i loro spettacoli non raccontano niente che abbia una direzione e non significano niente che si possa racchiudere in una frase, sono sequenze di quadri legati insieme da fili molto sottili: formule e motivi ripetuti fuori contesto, e che proprio per questo fanno ridere. In Anelante sono, per esempio, la frase “Se presa in tempo”, o le pulsioni sessuali secondo Freud: “Freud è stato fortunato che a una certa ora la gente c’ha sonno”; i contorcimenti fisico-verbali di Rezza; la scenografia mobile di Flavia Mastrella; e un’atmosfera (non saprei trovare un termine meno vago) che è andata sì trasformandosi spettacolo dopo spettacolo, ma senza rivoluzioni, quell’atmosfera restando cioè sempre immediatamente riconoscibile, peculiare: esiste uno specifico rezziano, un modo unicamente rezziano di vedere e di dire le cose, come ce n’è uno felliniano o lynchano, e non so di quanti altri artisti contemporanei si possa dire lo stesso, quanti abbiano saputo dare alla loro arte un contributo tanto originale. Ma il racconto e il significato sono l’ultima cosa che abbia senso cercare nei loro lavori. Il messaggio, neanche parlarne.

In questo senso, c’è perfetta continuità tra gli anni del film Escoriandoli (1995) e dei primi sketch (molti si trovano su YouTube, e quasi tutti nel dvd Ottimismo democratico). Semmai, l’evoluzione è andata nel senso di un saggio, salutare acquisto di leggerezza. Verso i trent’anni, Rezza-Mastrella facevano soprattutto ritratti di un’umanità abbrutita, come questo memorabile Hai mangiato?

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A quaranta, il loro surrealismo non rinunciava a qualche compromesso con la realtà, a toccare o sfiorare la politica o la religione, come in questo estratto da 7 14 21 28.

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In Anelante tutti questi residui sono bruciati, e si esce dal teatro con l’impressione di aver partecipato a qualcosa di più simile a una festa che a uno spettacolo teatrale, una festa piena d’intelligenza, spirito, divertimento (e solo con qualche lungaggine, specie nelle scene di gruppo, che forse si potrà asciugare), ma durante la quale nessuno ha cercato d’insegnarci niente, di convincerci di niente; anzi, durante la quale non si è parlato, a pensarci bene, di niente. Splendido no?

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