27 marzo 2024 16:20

Nel video della prima apparizione delle Sugababes alla trasmissione tv Top of the pops nel 2000 c’è già tutta la loro estetica: vediamo tre ragazze, due di loro hanno ancora 15 anni e una 16, che cantano Overload, una canzone pop che mescola Uk garage e rnb. Sono sedute su degli sgabelli e sono quanto di più lontano si potesse immaginare dalle Spice Girls, creatrici di tutto il girlpop della seconda metà degli anni novanta. Se le Spice erano festose, stravaganti e casiniste, le Sugababes erano ombrose, imbronciate e impenetrabili. Come le adolescenti vere.

Le Spice Girls mettevano in scena le fantasie degli adulti su cosa fosse l’adolescenza: gonne troppo corte, il primo piercing fatto di nascosto, la prima sbronza tra amiche, gli atteggiamenti da vamp e cantare (male) davanti allo specchio usando una spazzola come microfono. Nella gestione dell’immagine delle prime Spice Girls (quelle di Wannabe) c’erano voyeurismo e una buona dose di lolitismo. Noi italiani che abbiamo visto succedere Non è la Rai conosciamo molto bene il meccanismo. La formula funzionava perché i discografici, con le Spice, avevano plasmato un giocattolo perfetto: Scary, Baby, Posh, Sporty e Ginger erano bambole pop viventi, con i loro capelli e i loro vestitini ben riconoscibili, e avevano quel non so che di amatoriale e di sciamannato che le rendeva irresistibili e in qualche modo autentiche anche quando erano diventate le pop star più famose del mondo.

Le Sugababes a Top of the pops erano l’opposto. Immobili sui loro sgabelli, cantavano e basta, come in trance, come controvoglia, e basavano tutto su un misterioso gioco di sguardi tra di loro. La verità, si è saputo dopo, è che erano pietrificate dal terrore: i loro manager hanno capito che la cosa migliore era tenerle immobili su quegli sgabelli. Nel pop però erano finalmente arrivate le adolescenti vere: mute, insulari, insopportabili.

Le Sugababes tengono gli occhi bassi, se li alzano per incrociare lo sguardo di un adulto lo fanno per sfidarlo. Soprattutto le Sugababes sono cool. Cool nel senso etimologico del termine, fredde. Non sono lì per divertirsi e tantomeno per divertire gli altri: sono lì e basta. Sono lì perché sono speciali, sono delle star e con i loro sguardi di sbieco sembrano dire a chi le guarda alla tv: potrebbe succedere anche a te ma non succederà perché su questi sgabelli ora ci siamo noi. Ogni loro minimo movimento è salutato da un applauso del pubblico e quando parte un assolo di chitarra (sì, un pezzo pop con un assolo di chitarra nel 2000) le tre scendono dai loro sgabelli e accennano una minimale, quasi demenziale coreografia. Nessuna di loro è Janet Jackson, questo è poco ma è sicuro. Come scrive giustamente una commentatrice di YouTube: “They gave nothing and everything at the same time”. Hanno dato tutto e non hanno dato nulla allo stesso tempo.

Sugababes, Overload dal vivo alla trasmissione tv Top of the Pops, 2000

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C’è un dettaglio importante: le Sugababes cantano e armonizzano davvero come i grandi girl groups americani della loro epoca: En Vogue, Destiny’s Child e Tlc di cui le tre ragazze erano fan. Le Sugababes però sono britanniche, hanno un budget molto più basso e possono solo sognarsi i tour, gli abiti di scena, gli sponsor e le coreografie delle loro controparti statunitensi. Il loro manager si chiama Ron Tom ed era nato come dj di soul e rare groove nella scena delle radio pirata di Londra degli anni ottanta. Più che un uomo di apparato e di discografia è un conoscitore delle microscene londinesi legate all’rnb, alla jungle e all’Uk garage. E Ron Tom aveva capito che da queste tre ragazzine poteva far venire fuori qualcosa di grosso. Più che cercare di farne le Destiny’s Child inglesi (impensabile per svariate ragioni, prima fra tutte la mancanza di una Beyoncé) aveva capito che poteva farne le nuove All Saints, il girl group britannico di grande successo di cui lui stesso era manager.

Le All Saints erano il grande fenomeno pop britannico del post-Spice Girls: nel 1997 avevano avuto una grande hit con Never ever, un pezzo vagamente gospel nella struttura che partiva con uno skit parlato e piano piano cresceva fino a un memorabile ritornello armonizzato da tutte e quattro le componenti del gruppo. Le All Saints non erano bamboline, portavano pantaloni combat a vita bassissima, canotte corte ed erano vestite come se uscissero per andare in un locale jungle di Brixton. Una di loro, Shaznay Lewis, era anche autrice. Una rarità nei girl group di allora.

La prima Sugababe che Ron Tom conosce è stata Siobhán Donaghy, una ragazzina dai capelli rossi che all’epoca aveva appena 12 anni. Ron era lontanamente imparentato con la sua famiglia e un bel giorno portandola a scuola in macchina la sente armonizzare su una canzone delle En Vogue che passava alla radio. Capisce al volo che la bambina è brava e decide di farle in qualche modo da mentore e da manager. Poco dopo Ron Tom scopre un’altra giovanissima cantante: Mutya Buena, una tredicenne di origine filippina. Anche lei sa cantare e ha un bella personalità. In più, pur andando regolarmente a scuola, è già abbastanza abituata a esibirsi dal vivo con un gruppo di musica e ballo filippino che andava già in giro per l’Europa. L’ultima a unirsi è Keisha Buchanan, una compagna di classe di Mutya.

Quando Ron Tom le sente cantare insieme ha un’illuminazione: se prima pensava di avere per le mani due promettenti artiste soliste, con l’arrivo di Keisha capisce di avere un girl group vocale bello e pronto: un trio capace di armonizzare, d’improvvisare e di cantare parti soliste alternate. Visto che erano così giovani decide di chiamarle Sugababes, un nome che le tre ragazze odiano dal primo momento, troppo infantile e sciocco. E soprattutto troppo pop: loro volevano essere le Destiny’s Child e detestavano le Spice Girls e il pop britannico da classifica. Solo Keisha ammetteva di avere un debole anche per gli S Club 7 e per gli A1, ma veniva messa a tacere dalle altre due.

Uno strano gruppo di lavoro

Una figura chiave nella formazione delle Sugababes è il produttore e autore Cameron McVey, marito e produttore di Neneh Cherry e già collaboratore dei Massive Attack. McVey aveva capito che le Sugababes avevano una loro acerba autenticità e che non dovevano essere trattate o vendute come un normale prodotto pop. L’esperienza delle All Saints gli aveva insegnato che le componenti di un girl group potevano, anzi dovevano, essere in qualche modo anche autrici dei loro pezzi. “Io non sono una ragazzina”, spiega, citato nel libro Reach for the stars di Michael Cragg, “non posso neanche provare a scrivere una canzone dal punto di vista di una quattordicenne di oggi”.

Quindi decide di dare alle ragazze delle cassette con delle tracce e di scriverci sopra dei testi, anche solo idee abbozzate, anche solo parole sparse. Siobhán ricorda che quella notte non dormì per l’agitazione: va bene cantare, provare con le altre e trovare il tempo per andare a scuola ma ora anche scrivere? E proprio Siobhán arriva tempo dopo con il testo di Overload, la loro prima hit, quella che le avrebbe portate, impietrite dallo spavento, a cantare a Top of the Pops.

In Reach for the stars, Michael Cragg racconta la gestazione e le sedute di registrazione di One touch, l’album di esordio delle Sugababes. McVey era il cervello musicale dell’operazione, ma accanto a lui c’era Jony Rockstar (in futuro collaboratore di Amy Winehouse), eternamente avvolto da una nuvola di marijuana: era lui che smontava e rimontava le basi dei pezzi delle Sugababes. In studio nessuno cantava o suonava isolato in una cabina, tutto avveniva nella stessa stanza e Mutya ricorda che, essendo ancora il 1999, il processo non era completamente digitale: c’erano anche i nastri e delle lamette per tagliarli. “In Overload, quando arrivi al middle-eight”, ricorda Cameron McVie, “si sente una specie di tonfo: c’era stato un calo di corrente, quindi anche nel mix finale si sente quel vuoto e io che velocemente rimetto in moto tutto”.

Tutti questi dettagli danno ai pezzi di One touch un senso di organicità e di naturalezza che mancava completamente ai pezzi pop di quel periodo. Le stesse All Saints, all’inizio del 2000, erano uscite con il loro più grande successo, la patinatissima Pure shores, prodotta in modo impeccabile dal principale collaboratore di Madonna di quel periodo, William Orbit. Leggenda pop vuole che Madonna avesse troncato i rapporti con Orbit dopo aver sentito alla radio Pure shores, un pezzo che avrebbe assolutamente voluto per sé.

Le Sugababes invece facevano tutto in casa: le canzoni parlavano dei turbamenti e dei piccoli casini di tre ragazzine e la musica era quella che le stesse ragazzine sentivano nei locali del nord di Londra dove s’intrufolavano senza avere ancora l’età per stare fuori da sole tutta la notte: rnb, 2-step e Uk garage. Nel 2000 nelle classifiche del Regno Unito cominciavano ad affacciarsi pezzi pop che incorporavano quelle sonorità underground: mi vengono in mente Gotta get thru this di Daniel Bedingfield, Fill me in di Craig David e Sincere di MJ Cole. Nel 1999 le stesse inarrivabili Destiny’s Child, dalla loro torre d’avorio statunitense, avevano usato elementi di 2-step e Uk garage in una loro canzone, Jumpin’ jumpin’.

Le Sugababes si muovono su quella falsariga e, quasi a sorpresa, con Overload entrano nella Top 10. I pezzi di One touch sono tutti decisamente originali: non suonano neanche oggi artefatti o troppo compiacenti. Le Sugababes sono un prodotto creato a tavolino, ma da persone che sanno quello che fanno e che tastano il polso non solo alle classifiche pop ma anche al clubbing di quel periodo. One touch riesce a tenere in equilibrio l’immediatezza del teen pop per adolescenti con le ultime tendenze dei club e Mutya, Keisha e Siobhán non hanno mai quella straniante professionalità delle teen star degli Stati Uniti.

Non si pongono il problema delle coreografie e neanche quello di come si parla con la stampa o con la tv: hanno qualcosa di working class nel loro accento e nel loro atteggiamento che nessuna popstar nordamericana si sarebbe mai sognata di avere. Il mercato statunitense all’epoca era infestato di cloni di Britney Spears e di zuccherose boy band. I grandi girl group afroamericani, con forse l’unica eccezione delle geniali e realmente visionarie Tlc, erano ancora gestiti con il pugno di ferro come i vecchi gruppi della Motown: capelli perfetti, abiti di classe e movenze da diva. Da One touch vengono tratti altri tre singoli: New year (una canzone natalizia sulle delusioni e le aspettative di una ragazza ormai non più bambina), Soul sound e la splendida Run for cover.

Sugababes, Run for cover, 2001

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Run for cover è forse il capolavoro della formazione originale delle Sugababes: è un teen drama in miniatura, pieno di archi campionati e di bruschi cambi di tempo. Le parole parlano di un distacco dalla realtà, una sorta di dissociazione, fenomeno frequente negli adolescenti traumatizzati. Il trauma in questione è una relazione sbagliata, impari, probabilmente con un ragazzo più grande incapace di provare empatia e di comprendere la sofferenza che può causare.

Nel video le Sugababes sono vestite per andare a ballare, cantano insieme ma sembrano sole, isolate ciascuna nella sua bolla. Ti piace colpirmi alle spalle? Chiedermi cose che non posso darti? Rimanere sempre attaccato ai tuoi piani? Questo chiedono Mutya, Keisha e Siobhán guardando dritto in camera lo sconosciuto che tanto le fa soffrire. La cosa più notevole di questo pezzo è che non c’è rivincita, non c’è traccia di quell’empowerment che va tanto di moda oggi nel pop per adolescenti. Rimane solo un senso di oppressione e la voglia di urlare, cosa che le Sugababes fanno quando la parola scream, urlo, viene ripetuta da un’eco sinistra che spacca in due la canzone.

Per quanto One touch sia apprezzato dalla critica e da un buon numero di fan, le Sugababes non fanno i numeri delle All Saints o degli S Club 7. L’etichetta decide di licenziarle e loro stesse si spaccano con un litigio che viene raccontato nei modi più fantasiosi dalla stampa dell’epoca. Una rottura che è anche in qualche forma razzializzata, visto che le storie più diffuse parlano di un atto di bullismo delle due componenti non bianche (Mutya e Keisha) nei confronti dell’unica bianca (Siobhán), che viene costretta a lasciare il gruppo. Le Sugababes cambiano etichetta discografica ma non team creativo, Siobhán Donaghy viene sostituita dalla bionda Heidi Range (già scartata per un pelo da un’audizione per le Atomic Kitten) e i successi veri cominciano ad arrivare. Le Sugababes però ormai sono un brand più che una band e una per una le componenti vengono sostituite. Il loro penultimo, deludente, album esce nel 2008 con il titolo non felicissimo di Catfights and spotlights, “zuffe e riflettori” e Keisha è l’unica superstite della formazione originale. Sweet 7 è il loro ultimo lavoro: con un trio di cantanti completamente diverso non va da nessuna parte.

Mutya, Keisha e Siobhán, ormai più vicine ai quarant’anni che ai trenta, hanno fatto pace, hanno ottenuto i diritti per poter usare il nome Sugababes e nel 2023 sono state accolte come regine a una serata di Boiler Room, una web-radio e agenzia di promoter legata al miglior clubbing londinese. Sia il loro appeal pop sia la loro “street credibility” sono intatte, eppure, a oggi, le Sugababes riformate sono lente a produrre nuova musica. Nel 2013 è uscito un singolo (Flatline) e nel 2022 è riemerso un loro album mai uscito con materiale registrato anni prima (The lost tapes). Il singolo When the rain comes, uscito a sorpresa nel settembre del 2023 su etichetta Bmg, ha fatto sperare in un nuovo imminente album che ancora non s’intravede all’orizzonte.

Sugababes
One touch
London, 2000

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