Melvil Poupaud, nella parte di un insegnante di letteratura in un liceo, giovane, bello e provocatore, entra in classe vestito con un bel tailleur verde smeraldo, orecchini lunghi da donna, occhi truccati, scarpe con tacco arancione chiaro: nessuna reazione da parte degli studenti, salvo una domanda didattica. Subito dopo, a ritmo di musica techno, lo vediamo camminare lungo il corridoio della scuola, con gli studenti appoggiati agli armadietti che assistono allo spettacolo, e arrivare alla mensa. Un collega gli chiede se si tratti di una rivolta. “Una rivoluzione”, risponde. Non è esattamente la sequenza iniziale, siamo a circa quaranta minuti dall’inizio, ma sarebbe potuto esserlo. Del resto, qui, dove si comincia e dove si finisce non è (volutamente) chiaro.

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Poupaud, che interpreta Laurence, il protagonista del film, fu rivelato da Eric Rohmer nello splendido Un ragazzo, tre ragazze (1996), e se in Italia è poco conosciuto, in Francia è una star dell’imponente industria del cinema d’autore. E al canadese Xavier Dolan (classe 1989), attore-regista dichiaratamente gay, deve aver fatto perfidamente, quanto affettuosamente, piacere far vestire e muovere in quel modo Poupaud. Ma certamente l’exploit deve aver entusiasmato anche il giovane attore, il quale da delicato adolescente del film di Rohmer, è diventato nel tempo un’icona tenebrosa o romantica, a seconda dei casi, di seduttore del gentil sesso, come si diceva una volta. Ma i tempi sono cambiati e il film, come per rimarcarlo, mescola le temporalità, i ritmi narrativi e l’estetica degli stili.

Il dandysmo declinato al femminile a cui Dolan ha piegato Poupaud (inizialmente doveva essere Louis Garrel), non è una vacanza. La rivoluzione chiede grande dolore e fatica, non è un giocattolo pop. Ci vorrebbe davvero un saggio per analizzare come ogni sequenza del film crei diffrazioni stilistiche a tutti i livelli (regia, fotografia, scrittura), con conseguenze importanti anche nelle sensazioni trasmesse allo spettatore. La rivoluzione non è un giocattolo pop e se Dolan rivisita i magnifici film di Jacques Demy (sposato con la regista Agnés Varda e padre di un figlio, condusse anche una vita gay fino alla morte di aids) in chiave videoclip, è per ammantarli di una malinconia ovattata da mondo prossimo alla finitudine e al tempo stesso intriso di un insopprimibile desiderio, insieme disperato e giocoso, di vita.

Dolan è uno sciamano pop e allo spettatore resta il piacere di lasciarsi trasportare nella sua magnifica sarabanda

Laurence anyways, presentato a Cannes nel 2012, rimbalza continuamente tra 1989 e 1999, alla vigilia del nuovo millennio che potrebbe portare l’apocalittico baco informatico a cui si fa riferimento nel film. Come nell’ultimo Juste la fin du monde, premiato quest’anno al festival francese, Dolan, sciamano innamorato con spirito critico del glamour e del vintage, sente il mondo morire da diverso tempo. Anche il “suo” mondo in cui si confondono gli intimi e la cinefilia. E così la sensazione di fine si confonde con un desiderio di vita estremo. Il suo messaggio nella bottiglia è che se ameremo tutti la vita arriverà una soluzione, anche se Dolan non sa quale sia. Anche per questo nel film ci sono diversi inizi, molti svolgimenti e molti finali possibili.

E allora se il regista è uno sciamano pop, se questa, come ha scritto qualcuno, è una trance, allo spettatore resta il piacere di lasciarsi trasportare in questa magnifica sarabanda, grazie anche a una notevole colonna sonora. Laurence anyways, film-metafora e film-paradigma del caos amoroso e identitario odierno, a tratti è frastornante ma sempre in modo significativo. Le sequenze pop, musicali o meno, urlate o sussurrate, sono come tanti climax, come capsule di salvataggio dell’astronave Terra alla deriva nel cosmo: nelle abitazioni private dei vari personaggi o nei supermarket, passando per misteriose feste danzanti e trasgressive.

Anche in questo c’è un’anticipazione di Juste la fin du monde che ne è la versione radicale e concentrata. I movimenti di camera aerei, le lente carrellate all’indietro o in avanti, sono ritmo danzante e movimento metaforico di questa ambivalenza, di questa sofferente indecisione tra vita e morte. Il lavoro sulla fotografia, a cui si aggiunge il lavoro sui costumi dello stesso Dolan (già regista, sceneggiatore e montatore) è fondamentale: i colori belli ma anche smorti evocano un poetico mondo di vestigia, nulla a che vedere con l’odierno riciclaggio-pop patinato. Sono bolle dove sono rinchiusi gli ultimi pazzi dell’umano. Il tutto per raccontare la storia di un calvario e della pace conquistata dopo questo calvario, perché per Dolan, che arrivi o no l’apocalisse, vale comunque la pena di vivere la vita. Fino in fondo, fino alla fine. Come nel caso della battaglia per la transessualità.

Siamo tutti da ricovero

In Laurence anyways il desiderio della transessualità è sufficiente per essere definiti come affetti da disturbo mentale, e qui il film anticipa Mommy, ambientato in un futuro prossimo e imprecisato, dove il disturbo del protagonista è classificato come disturbo che necessita il ricovero, cosa che equivale a una condanna della propria necessità di vita oltre che di libertà. La scrittura mirabile di Dolan, nei dialoghi come nelle situazioni, restituisce la profondità di relazioni che sono tutte intrinsecamente patologiche. Ma per Dolan è proprio da questa patologia che nasce l’umano e la rivelazione della sua bellezza: la madre di Laurence (Natalie Baye) è resa nevrotica dal marito malato, la compagna di Poupaud (Susanne Clément), che lo sostiene nella sua scelta transessuale, cade in depressione, e così tutti gli altri, chi più, chi meno. Siamo tutti in capsule, perché siamo tutti da ricovero.

Come si fa, chiede Dolan, a definire chi è patologico? In base a cosa i parametri borghesi, che tutti trasgrediscono, sono quelli reali? È normale che tutti mentano e tutti manipolino almeno un po’, e nel suo film spesso la cosa non è bieca, è solo la condizione umana, nella sua necessità e nella sua assurdità, a renderlo inevitabile. Ma la visione di Dolan resta sempre molto umana, dolorosamente umana. E in quel finale, che dovrebbe essere il prologo a tutto, c’è in realtà l’ambivalenza: la consapevolezza della fine ma anche il desiderio che la vita, ciclicamente, abbia un nuovo inizio. E perciò oggi Laurence anyways più che un grande film sembra un capolavoro.

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