Sembrano esserci sempre meno dubbi sul fatto che lo schianto del volo Kogalymavia 9268, precipitato il 31 ottobre nel Sinai con 224 persone a bordo, sia stato causato da un attentato e non da un problema tecnico. A parte l’immediata rivendicazione da parte di un gruppo jihadista affiliato al gruppo Stato islamico, frettolosamente definita poco credibile dalle autorità egiziane, fin dall’inizio l’ipotesi dell’incidente era sembrata tutt’altro che una certezza: gli elementi che suggerivano un collegamento con la guerra in Siria erano semplicemente troppi.

La tragedia non ha colpito solo la Russia, che alla fine di settembre è intervenuta direttamente nel conflitto siriano a fianco del governo di Bashar al Assad, ma anche l’Egitto, il primo paese arabo a schierarsi apertamente in favore dell’intervento russo. Per Il Cairo è un colpo doppio: l’aereo era partito da Sharm el Sheikh, centro dell’industria turistica egiziana che negli ultimi anni è stata danneggiata dell’instabilità politica e del terrorismo, e si è schiantato nel Sinai, una regione di grande importanza strategica da anni teatro di scontri tra l’esercito egiziano e i jihadisti legati allo Stato islamico.

Se il responsabile dell’abbattimento fosse lo Stato islamico sarebbe davvero preoccupante, perché significherebbe che il gruppo ha i mezzi e i contatti necessari a far passare un ordigno di notevole potenza attraverso le rigide misure di sicurezza dell’aeroporto di Sharm el Sheikh. Ma più preoccupante ancora è il fatto che la strategia dietro una simile operazione non è evidente.

È improbabile che l’obiettivo sia ottenere una reazione militare dei paesi colpiti, come nel caso degli attentati dell’11 settembre 2001. L’Egitto è già impegnato in una violenta campagna militare nel Sinai ed è difficile immaginare che la repressione dei gruppi islamisti interni possa superare i livelli raggiunti dopo il colpo di stato del luglio 2013. La Russia è già molto coinvolta nella guerra in Siria e finora ha concentrato i suoi attacchi sugli altri gruppi ribelli, favorendo indirettamente lo Stato islamico che ne ha approfittato per conquistare terreno: qualunque cambio di strategia di Mosca andrebbe contro gli interessi immediati del gruppo.

L’incidente è avvenuto poche ore dopo l’incontro che ha visto per la prima volta tutti i paesi coinvolti nel conflitto siriano sedersi a un tavolo

L’eventualità che la Russia decida di inviare truppe di terra per combattere lo Stato islamico in Siria resta in ogni caso lontanissima. Se invece l’obiettivo fosse stato radicalizzare i musulmani russi e incitarli alla rivolta, sarebbe stato più logico colpire uno dei tanti focolai di tensione all’interno della Federazione russa per ottenere un aumento della repressione interna.

Ma anche se l’obiettivo primario della strategia militare di Mosca resta quello di aiutare Assad a difendere ed espandere la sua base territoriale nella Siria occidentale, la sua posizione diplomatica è molto più flessibile, ed è questa che gli attentatori potrebbero aver voluto influenzare.

L’incidente è avvenuto poche ore dopo l’incontro che a Vienna ha visto per la prima volta tutti i paesi coinvolti nel conflitto siriano sedersi a un tavolo per cercare una via d’uscita politica alla guerra civile. Il vertice è il primo risultato di un’iniziativa diplomatica lanciata dalla Russia parallelamente all’intervento militare, e almeno sulla carta sembra avere qualche possibilità di successo in più rispetto ai fallimentari tentativi che lo hanno preceduto.

Un messaggio per Mosca

Innanzitutto, l’afflusso dei profughi siriani è ormai un problema politico scottante per l’Europa e soprattutto per la Germania, che sta disperatamente cercando una soluzione. In secondo luogo, stavolta ai negoziati partecipa anche l’Iran, principale alleato del governo siriano, e la conclusione dell’accordo sul suo programma nucleare a luglio è un precedente incoraggiante. L’Iran e la Russia spingono per una soluzione che preveda un cessate il fuoco e un periodo di transizione in cui Assad resterà al potere il tempo necessario a organizzare delle elezioni.

Questa proposta è stata presa in considerazione dai paesi occidentali, che sembrano rassegnati al fatto che l’intervento russo rende improbabile una rapida vittoria militare dei ribelli. Ma non tutti hanno abbandonato l’idea del cambio di regime a Damasco. L’Arabia Saudita ha accettato di partecipare all’incontro di Vienna nonostante la presenza dell’Iran, suo grande rivale regionale, e questo è stato definito un grosso passo avanti rispetto all’atteggiamento di totale rifiuto adottato da Riyadh durante le trattative sul nucleare iraniano. Ma al termine dell’incontro la delegazione saudita ha ribadito che la sua posizione non si è spostata di un millimetro: “Assad deve andarsene prima possibile, anche stasera”.

Erdoğan ha recuperato la maggioranza in parlamento e ha riacquistato piena libertà di manovra nella sua politica in Siria

L’altro principale paese sunnita che sostiene i ribelli, la Turchia, era sembrato indebolito dopo la sconfitta dell’Akp alle elezioni di giugno, ma il 1 novembre il partito del presidente Recep Tayyip Erdoğan ha recuperato la maggioranza in parlamento e ha riacquistato piena libertà di manovra nella sua politica in Siria. Per inciso, a questa vittoria hanno contribuito in modo determinante gli unici due altri attentati attribuiti al gruppo Stato islamico al di fuori dell’area dove opera direttamente: la bomba di Suruç, che ha riacceso le tensioni con la minoranza curda e fornito il pretesto per mettere in atto la strategia di contenimento dell’espansione curda in Siria, e quella di Ankara contro il partito filocurdo Hdp. Chi pensava che un ammorbidimento del fronte contrario ad Assad avrebbe facilitato le trattative sul futuro della Siria deve ricredersi. Ora l’equilibrio diplomatico si fa estremamente incerto e nessuna svolta sarà possibile senza uno scontro tra interessi primari.

L’intervento in favore di Assad ha convinto Mosca e i suoi alleati di poter trattare da una posizione di forza, ma l’attentato al Kogalymavia dimostra che ora la Russia è esposta alla minaccia del terrorismo anche lontano dai propri confini, contraddicendo l’immagine di forza e sicurezza propagandata dal governo russo. E questo può spingere il Cremlino a cercare una via d’uscita rapida e dignitosa, anche a costo di fare concessioni sostanziali.

Il 3 novembre il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov ha dichiarato che sarebbe “inappropriato” pensare che l’incidente possa cambiare la strategia russa in Siria, ma nella stessa giornata un segnale è arrivato: il ministero degli esteri russo ha fatto sapere che la permanenza di Assad al potere non è una condizione indispensabile per un accordo, suscitando qualche reazione inquieta in Iran. Che il messaggio sia stato recapitato consapevolmente o meno, sembra essere comunque essere arrivato a destinazione.

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