Nell’Unione europea l’Italia – con un record imbattibile di 72 consultazioni popolari in settant’anni – è il paese referendario per eccellenza. In questi sette decenni ci sono state campagne particolarmente aspre e divisioni profonde come per il voto sul divorzio o sull’aborto. Altri referendum – come quello dell’aprile scorso sulle trivellazioni in mare – sono passati quasi inosservati senza raggiungere il quorum. Per decenni il Partito radicale è stato promotore instancabile di un vero fiume di consultazioni. Superando spesso i limiti dell’assurdo – come nel 1993, quando ai perplessi elettori furono distribuite 13 schede di colore diverso. Le ultime che hanno raggiunto il quorum sono state quelle sul nucleare e sulla privatizzazione dell’acqua, nel 2011.

Del referendum costituzionale del 4 dicembre si può già dire che entrerà nella storia come uno dei più controversi e in grado di mettere a rischio non solo la sopravvivenza del governo, ma anche quella di parecchi partiti come il Partito democratico (Pd). Difficilmente il Pd riuscirà a superare indenne le profonde fratture di questa campagna referendaria, dove si sono formate alleanze bizzarre e assolutamente inedite come quella tra Renato Brunetta e Massimo D’Alema, uniti dall’astio comune contro Matteo Renzi. D’Alema, in politica da mezzo secolo senza coprirsi di gloria, è sceso in campagna elettorale per combattere contro “l’alleanza minacciosa tra Renzi e i poteri forti” e dimostra di avere informazioni sorprendenti: “Votano sì solo gli anziani, perché hanno maggiori difficoltà a comprendere il contenuto di questa riforma sbagliata”.

I toni delle accuse reciproche sono spesso esasperati come quelli usati da Renato Brunetta, che accusa Renzi di “fare carne di porco della democrazia”. E i contrasti stridono. Il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri si batte per il sì, mentre Silvio Berlusconi scende in campo per il no, sconfessando l’appello di Confindustria. È un campo di battaglia che segna il massiccio ritorno della prima repubblica con Gianfranco Fini, Ciriaco De Mita, Lamberto Dini e Paolo Cirino Pomicino, tutti alleati di D’Alema e Pier Luigi Bersani, impegnati in prima linea nella crociata contro il segretario del proprio partito.

La sinistra è divisa, la destra sfrutta la campagna referendaria per nascondere il vuoto programmatico

È una campagna referendaria velenosa che fa venire a galla tutte le anomalie della politica italiana, dal trasformismo alla perenne instabilità del quadro politico all’opportunismo: molti di quelli che ora si battono per il no alla riforma, in parlamento l’hanno votata più volte. Mentre la sinistra è apertamente divisa, la destra sfrutta il clamore della campagna referendaria per nascondere le fratture interne e il suo vuoto programmatico.

Come sempre in prima fila sono schierati i costituzionalisti, che in Italia sono una vera e propria casta convinta di dover esprimere il proprio giudizio su tutto. Sul referendum il loro fronte si è già diviso, con due appelli contrapposti.

Ovviamente la guerra viene combattuta anche sul fronte giudiziario, con ricorsi al Tar e ai tribunali. Il Tar del Lazio ha impiegato quattro giorni per dichiarare di non essere competente con una sentenza di 16 pagine. Ma gli avvocati imperterriti annunciano ricorsi al consiglio di stato e alla cassazione, che aveva approvato il quesito già in agosto. Il 27 ottobre tocca al tribunale di Milano decidere su altri due ricorsi: un accanimento giudiziario che non sorprende in un paese in cui i giudici vengono chiamati a decidere anche sulle terapie dei medici.

Retorica dilagante
Non c’è niente che si salvi dalla lite quotidiana: contestata la data del referendum, il testo sulla scheda, la scelta dei partecipanti ai dibattiti, la presenza mediatica di Matteo Renzi, le presunte violazioni della par condicio. Dilaga la retorica: D’Alema bacchetta il Partito socialista europeo – a cui appartiene – per aver invitato a votare sì. Renzi fa rivivere il sogno del ponte di Messina. E in questo clima artificiosamente surriscaldato non può stupire che sia proprio Berlusconi a temere una “deriva autoritaria con il rischio di un uomo solo al comando”. Ma non era Berlusconi quello che per anni aveva chiesto di rafforzare i poteri del presidente del consiglio? Per Danilo Toninelli del Movimento 5 stelle già la scheda è “una immane fregatura”. Mario Monti , il cui partito si è letteralmente sbriciolato in pochi anni, critica la riforma come “espressione della vecchia politica”.

Ora Berlusconi propone una nuova legge costituzionale con “un testo condiviso”. Proposta bizzarra per una riforma che per arrivare dalla prima bicamerale di Aldo Bozzi al varo del testo attuale ci ha messo 35 anni. Berlusconi si muove con una certa cautela, perché molti dei suoi elettori non gradiranno l’insolita alleanza con la sinistra Pd, giudicando il fronte eterogeneo ostile alla riforma come “mucchio selvaggio”. Per Renzi i problemi vengono dalle regioni meridionali. In Sicilia il premier ha riscontrato un clima assai freddo anche nel proprio partito. E un entusiasmo tiepido per l’annuncio del G7 a Taormina.

Intanto si stanno moltiplicando le iniziative dal sapore elettorale: dall’abolizione di Equitalia alla proposta dell’M5s di dimezzare l’indennità parlamentare. Nel fumo denso del campo di battaglia gli elettori sembrano piuttosto smarriti e distanti, senza grande voglia di occuparsi della complessa riforma costituzionale. E così il referendum sta diventando inevitabilmente un voto sul governo.

Secondo i sondaggi il no è ancora in leggero vantaggio, ma quasi la metà degli elettori potrebbe restare a casa, in reazione a una campagna referendaria già degenerata nella solita lotta politica caratterizzata da odi personali e antipatie politiche. Ma a cinque settimane dal voto si delinea innanzitutto un fatto incontestabile: la prima repubblica è più viva che mai.

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