Non è un regista simpatico e forse neanche un uomo simpatico Pablo Larraín, rampollo di una grande famiglia cilena di destra, coinvolta nel potere fino al collo, anche con Pinochet, e intellettuale abile, che sa citare senza farlo sembrare e che ogni volta, a ogni film, attua provocazioni molto astute, cioè intelligenti, che possano incuriosire un pubblico internazionale e far discutere non tanto i critici cinematografici (se ancora ce ne sono) quanto gli intellettuali di minor forza e spavalderia della sua, che sono una legione.
Gioca con la storia, non solo cilena visto che il suo ultimo film mette in scena Jackie Kennedy e il sistema americano del potere, economico e mediatico, ché sono poi, da qualche decennio, la stessa cosa. E affronta i massimi problemi in una chiave tra filosofica e storica che non può non intrigare, che mira a sorprendere, a far discutere.
Ragiona molto e a fondo su quel che succede nel mondo che conosce meglio, una chiusa politica, una chiusa borghesia, una chiusa chiesa cattolica cilena, portando nel suo ragionare e narrare quel che ha letto soprattutto di una cultura un po’ datata, postesistenzialista e più che altro francese.
Ricorda, in questo, un certo teatro e cinema anni cinquanta “a tesi”, su temi intellettualmente ambiziosi e vistosi, ma attento ad affrontarli senza mai dimenticare lo spettacolo. Non avendo mai avuto il Cile un cinema forte, Larraín ha scelto questa strada per raggiungere il successo internazionale: perché ci si accorgesse di lui dovunque, e non solo in patria, non solo in America Latina. È certamente più interessante, per questo, di altri rampolli di borghesie miliardarie latinoamericane che si buttano a corpo morto alla conquista di Hollywood (e dei finanziamenti delle grandi banche newyorchesi) seguendo la strada dell’iper-spettacolo o del neoesotismo del postmoderno.
Quello del rapporto morboso tra carnefice e vittima è un cardine narrativo su cui possono nascere capolavori e grandi sciocchezze
Anche Neruda, come Tony Manero, come No. I giorni dell’arcobaleno, come Il club, segue la strada della commistione storica, addentrandosi nel retroterra politico cileno, e come gli altri film cerca un punto di forza drammaturgico originale, non trovando però di meglio che l’antico pretesto del rapporto morboso tra persecutore e perseguitato, tra carnefice e vittima, tra gatto e topo, tra investigatore e investigato. Un cardine narrativo molto delicato da maneggiare e su cui possono nascere capolavori come La passeggera di Munk o La conversazione di Coppola (più indietro, i caposaldi letterari di Delitto e castigo e I miserabili) ma anche grandi sciocchezze come Il portiere di notte di Cavani o divertenti sciocchezze come la serie della Pantera rosa.
Il persecutore è un poliziotto in cerca di riconoscimento – “Io sogno lui e lui sogna me” è la sua pretesa– e infine di amore, che si dice figlio illegittimo del fondatore della polizia cilena ma è in realtà nato miserabile. Il perseguitato è Pablo Neruda, figura importante anche politicamente, figura internazionalmente celebre e già a suo modo mitica nell’anno in cui si svolge la storia, i primi anni del dopoguerra, anni di persecuzione e di fuga, e che è stato anche uno spregiudicato amante della vita e dei suoi piaceri.
Vincerà il Nobel nel 1971 e narrerà le sue vicende con molto narcisismo ma insieme con molta convinzione in Confesso che ho vissuto. Ha già fatto e cantato la guerra di Spagna, è stato ambasciatore ed è comunista, ha insomma incarnato le contraddizioni dell’intellighenzia d’impronta sovietica, di borghesi che si sono chiamati rivoluzionari, contraddittori e opportunisti per definizione (anche in Italia). Ma è stato anche davvero perseguitato, ed è davvero un grande poeta e il suo Canto general è lì a ricordarcelo, scritto nel nome degli oppressi (visse per uno o due anni anche in Italia. Fu vergognosamente cacciato a un certo punto dal nostro paese, se ben ricordo, per decisione democristiana).
Il Neruda del film è tutto questo, un ritratto sostanzialmente accettabile, credo, che non nasconde le contraddizioni del poeta ma neanche il valore e il peso della sua poesia nella storia del Cile e del tempo, e del suo contributo all’emancipazione di un proletariato e di un popolo violentati dalla politica della sua borghesia e dalle interferenze nordamericane, e tra l’altro non sempre rispettati dalla politica dei comunisti, diretta da Mosca.
Quel che è meno accettabile è il tormentone ideologico larrainiano, la sua contorsione ideologica, la sua presunzione autoriale, il suo scarso o nullo amore per i personaggi che sono ridotte a pedine del suo gioco, il suo giostrare con le contraddizioni mettendo in campo l’utile e il superfluo e puntando fin troppo sulla figura del persecutore, greve e letteraria.
Larraín non ha nessuna voglia di spiegare la storia, di analizzare le contraddizioni di chi la vive volendone essere protagonista e di chi la vive nell’ombra come frustrazione e rivalsa. “Sia un po’ più umile”, dice un personaggio secondario a Neruda a un certo punto del film. Ed è questo, in definitiva, il consiglio che bisognerebbe dare a questo talentoso e antipatico intellettuale latinoamericano il cui scopo non sembra essere quello di chiarire ma quello, ancora una volta, di imbrogliare.
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