Un giornalista britannico ha paragonato l’imponente delegazione che accompagna nella sua visita all’Avana il presidente statunitense Barack Obama ai soldati giapponesi che uscivano dalla giungla e scoprivano che la guerra era finita da anni. I Rolling Stones, che il 25 marzo si esibiranno gratuitamente davanti a mezzo milione di persone nella capitale cubana, hanno detto che Obama è un po’ il loro gruppo spalla.
L’ambasciata statunitense all’Avana ha già riaperto, ma per mettere fine all’embargo a cui è sottoposta Cuba da 55 anni serve l’approvazione del congresso di Washington. Dato che quest’ultimo è controllato dai repubblicani non se ne farà niente e quindi la visita è solo un’occasione per socializzare. È stata addirittura programmata per coincidere con le vacanze primaverili delle scuole statunitensi, in modo che i coniugi Obama potessero portare anche le figlie.
Eppure nessun giornalista ha potuto resistere alla tentazione di chiedersi se quest’apertura sia la premessa di grandi cambiamenti politici a Cuba, forse perfino della fine della lunga dittatura dei fratelli Castro e del Partito comunista cubano. Naturalmente tra questi c’ero anch’io, che mi sono più volte espresso sull’argomento.
Non sono mai stato a Cuba durante gli anni “eroici” in cui i leader rivoluzionari vivevano nella paura costante di un’invasione statunitense o di una rivolta, e buona parte dei cubani erano davvero pronti a combattere per difendere la rivoluzione. La mia prima visita è stata a metà anni ottanta, quando i fiori della rivoluzione erano già appassiti.
Sembrava impossibile che questa dittatura decrepita e traballante potesse durare a lungo
All’epoca buona parte dell’America latina viveva sotto violente dittature militari sostenute dagli Stati Uniti, e in confronto la dittatura cubana mi sembrava quasi morbida. Non uccideva neanche tante persone. Ma i cubani, che non potevano viaggiare e sapevano che la propaganda di regime era falsa, erano d’umore piuttosto cupo. Se incontravano qualcuno che capiva anche un minimo di spagnolo gli riversavano addosso tutta lo loro insoddisfazione.
Così tornai a casa e scrissi che al regime non restavano più di dieci anni di vita. Non andò così, ma quando tornai a Cuba nel 1994 la fine sembrava imminente. Il crollo dell’ex Unione Sovietica aveva privato l’isola di tutti gli aiuti che tenevano a galla la sua economia nonostante le sue enormi inefficienze e l’embargo statunitense.
Durante il “periodo speciale”, durato quasi tutti gli anni novanta, nessuno moriva di fame ma quasi tutti ne hanno sofferto: il cubano medio ha perso nove chili di peso corporeo. L’ordine sociale si è disgregato, il crimine è aumentato e molti giovani hanno cominciato a prostituirsi apertamente in strada.
In uno di questi viaggi ho portato con me i genitori di mia moglie, e mia suocera è stata rapinata nel centro dell’Avana due volte in una settimana. La seconda volta mio suocero si è fatto male nel tentativo di respingere i rapinatori, e ho dovuto dare una mazzetta di cento dollari a un ispettore di polizia per liberarlo dal commissariato dove era trattenuto – in teoria come testimone ma in realtà per ottenere un riscatto – e sottoporlo a cure mediche appropriate.
Così tornai a casa e scrissi di nuovo che il regime stava per crollare. Negli anni precedenti i regimi comunisti europei, le cui popolazioni erano ben nutrite, avevano ceduto di fronte a rivoluzioni democratiche e non violente senza praticamente opporre resistenza. Sembrava quindi impossibile che questa dittatura decrepita e traballante potesse durare ancora molto.
Mi sbagliavo di nuovo. Ma nel 2008, quando dopo 42 anni Fidel Castro ha lasciato il potere a suo fratello Raúl, le ambasciate occidentali all’Avana (tranne quella statunitense, naturalmente) hanno inviato vari “esperti” sull’isola affinché spiegassero come funzionano le cose in una vera democrazia, cosa che si aspettavano Cuba sarebbe diventata a breve.
L’aumento del flusso di dollari aumenterà la corruzione del regime, ma non ne causerà il crollo
Io sono stato invitato come presunto esperto in questioni mediatiche e civili-militari, per spiegare a giornalisti e militari cubani come avrebbero dovuto comportarsi in una democrazia. Era un’iniziativa tanto volenterosa quanto ridicola, ma sono partito comunque perché si trattava di un’occasione d’oro in un periodo davvero interessante.
Una volta di più sono tornato a casa convinto che una transizione democratica fosse davvero imminente, perché quasi tutte le persone con cui parlavo ne erano a loro volta convinte. Alcune di loro, anche tra le forze armate, temevano di perdere il lavoro, mentre la maggior parte pensava che il cambiamento sarebbe stato positivo.
Otto anni dopo pochissime cose sono davvero cambiate. Raúl Castro sostiene che si ritirerà nel 2018 (quando avrà appena 86 anni), ma una nuova generazione di dirigenti comunisti sta già accedendo al potere.
Ora che è stato abolito il divieto di recarsi a Cuba, ci si aspetta che circa tre milioni di turisti statunitensi visitino l’isola. Questo allargherà il divario economico tra i cubani che hanno accesso ai dollari statunitensi e quelli che non ce l’hanno, ma è improbabile che scateni una rivoluzione. L’aumento del flusso di denaro aumenterà la corruzione a ogni livello del regime, ma non ne causerà il crollo.
Ormai penso che il regime cadrà solo se e quando il congresso degli Stati Uniti metterà fine all’embargo, esponendo Cuba alla forza d’urto del capitalismo internazionale. Ma potrei sbagliarmi anche stavolta.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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