Forse un caldissimo sabato di giugno non era il momento migliore per andare all’Expo. Ma partiamo dall’inizio. Volevo davvero che mi piacesse. Adoro Milano e quando sono arrivato in città dopo alcuni mesi d’assenza tutto sembrava effervescente e nuovo. Prometteva bene.

Era questo l’effetto Expo di cui la gente parlava? Avevo letto molte cose al riguardo, fin da quando la candidatura era stata accettata. Speravo che questo accadesse: non sono esattamente un sostenitore dei No Expo.

Per questo ho diligentemente pagato i miei 34 euro per l’ingresso, gli 8,80 euro del biglietto andata e ritorno e sono partito.

Il padiglione italiano all’expo di Milano, il 5 giugno 2015. (Antonio Calanni, Ap/Ansa)

Tutto sommato, però, è stata un’esperienza difficile e il mio umore si è incupito con il passare del tempo. Tanto che alla fine… Be’, non guastiamo la storia prima di cominciare.

Prima impressione. Il viaggio è stato facile, veloce e non troppo caro. Seconda impressione. Un ampio viale pedonale in cemento pieno di persone in coda. È già molto caldo. Ci sono molti anziani e bambini. Niente ombra. Niente acqua. Alcune biciclette legate agli alberi (è davvero possibile che non ci sia un posto dove legare le bici? Ma davvero le biciclette non sono ammesse all’interno? Mi starò sicuramente sbagliando). La coda avanza lentamente. Molto lentamente. A dire il vero non si avanza affatto. Siamo nella cosiddetta security plaza. Pare che installeranno più tendoni contro il sole. Probabilmente non avevano pensato all’eventualità che d’estate, a Milano, potesse fare caldo.

Quanto a Pero o Rho, non si vedono proprio. Sono rappresentate solo da un’immensa stazione di treni e metropolitana.

Finalmente, eccoci dentro. Tutti cercano la grande strada principale, il Decumano. È davvero molto lunga. A malapena se ne vede la fine. Annebbiato dal calore del mattino, il lato opposto sembra lontanissimo.

Ma l’importante, a quanto pare, è percorrerlo tutto, fino in fondo. Dopo tutto è questo il motivo per cui sono qui. Ecco dunque la forma dell’Expo. Una lunga strada principale, con alcune stradine laterali. In parte sembra non ancora completata. La mappa è piuttosto difficile da seguire, quindi cammino, e osservo.

Un’esposizione di plastica

In mezzo al Decumano ci sono alcune riproduzioni in plastica di cibo: un banco del pesce di plastica, maiali di plastica (a grandezza naturale), carne di plastica, pane di plastica. Originariamente doveva esserci un lungo tavolo pieno di cibo vero, ma di tutto questo non c’è traccia.

Padiglioni a sinistra, padiglioni a destra. Alcuni rappresentano dei paesi, altri dei prodotti: Birra Moretti, Illy Caffè, Ferrero Rocher. Fuori dei padiglioni si stanno già formando le code. Ma è troppo caldo per mettersi in fila e decido di continuare a camminare, camminare e ancora camminare.

Intanto, il sospetto è confermato: non ci sono biciclette. Neanche una. Anzi, una sì, ma la guida un membro dello staff dell’Expo. Eppure il luogo è perfetto per le bici. Sarebbe piacevole usarle per andare in giro e fare delle soste. Sarebbe così facile. Eppure no, neanche una bici.

C’è molta acqua gratuita a disposizione. E questo è importante, perché fa sempre più caldo. Vado a vedere la cascina Triulzi, una piccola fattoria lombarda risistemata in modo da farla apparire bella. Al suo interno si trovano un bar e alcune toilette. Tutto qui.

Passo oltre. Alcuni padiglioni sono architettonicamente interessanti, la maggior parte invece no. La domanda che continuo a farmi è: che fine faranno dopo? Saranno semplicemente demoliti? E che ne sarà di tutti i materiali con cui sono stati costruiti?

Andiamo avanti. Entro nel padiglione del Regno Unito, che consiste in un vialetto con dell’erba di lato. Esco dal padiglione. Una volontaria mi ringrazia per la visita. La ringrazio a mia volta, in inglese.

Tutta quest’esperienza mi ricorda un po’ le feste dell’Unità e quello che ho letto delle fiere campionarie degli anni cinquanta

La visita continua. Alla mia sinistra si staglia l’orrendo padiglione russo, mentre giungo in vista dell’ancor più orrendo padiglione italiano. C’è già una lunga coda. Rinuncio e continuo a camminare. Sono poche le persone che sono già arrivate fin qui. La folla si riduce. Tutta quest’esperienza mi ricorda un po’ le feste dell’Unità e quello che ho letto delle fiere campionarie degli anni cinquanta e sessanta, o sulle Borse del turismo di Milano. Davanti al padiglione cileno c’è una distinta signora a cui stanno facendo una foto. È la presidente del Cile? Chissà. Nel dubbio facciamole una foto.

Arrivo infine al padiglione di Slow food. È bello, aperto, arioso e non ha gradini da salire. Ma al suo interno non succede niente. Volevo vedere il documentario di Ermanno Olmi, ma lo proiettano solo una volta al giorno, alle otto di sera. È solo l’una, e quindi rinuncio. Mi dispiace dirlo, ma il ristorante del padiglione di Slow food è deserto. Il McDonald’s accanto, invece, è strapieno. Nutrire il pianeta. Non c’è che dire.

È dunque arrivato il momento di mangiare. Questa parte sarà sicuramente buona. Deve esserlo, dopo tutto: il senso di tutta l’Expo è parlare di cibo. C’è uno stand del Trentino con un cartello che dice “degustazione”, intorno al quale sono in attesa molte persone. Eppure nessuno sta mangiando.

Opto per il ristorante delle Marche (i ristoranti sono organizzati per regione). Un vassoio di plastica e una piccola scodella di plastica piena di pasta scotta e fredda. Dieci euro. Sembra un po’ la mensa delle Acli. La natura surreale di questo pranzo è amplificata dalla colonna sonora: La locomotiva di Guccini (è vero, giuro). Almeno qualcuno ha il senso dell’umorismo.

Riprendo a camminare. C’è una mostra d’arte, curata da Vittorio Sgarbi: è organizzata dietro un edificio temporaneo ed è quasi impossibile da trovare. Ma vale la pena cercarla per la sua bellezza e le opere d’arte provenienti da tutta Italia, sebbene sia sul punto di andarmene quando vedo la foto a grandezza naturale dello stesso Sgarbi all’ingresso. Sembra che l’abbiano messa in un posto dove speravano non venisse nessuno, perché gli spazi espositivi sono esigui. Ma le opere sono magnifiche.

L’unica domanda è: a cosa serve tutto questo?

Mentre continuo a vagare, mi chiedo dove siano le qualità che hanno fatto di Milano una città così importante nel novecento. Dove sono l’architettura, il design, la musica, la letteratura, la fotografia, lo sport? Gli architetti del BBPR, Gadda e Bianciardi? Dario Fo e Franca Rame? Kuliscioff e Turati? Rocco ed Herrera? Buzzati? Jannacci e Celentano? Enrico Baj? Maria Callas? E che dire di Dino Meneghin, Danilo Gallinari e Alessandro Gentile? Paolo Maldini e Sandro Mazzola? Versace e Armani? Vico Magistretti e Cini Boeri? Aldo Rossi? Giorgio Gaber? Miuccia Prada? Luchino Visconti? Elio e le Storie Tese? Giorgio Scerbanenco?

So che qui l’idea è che sia il mondo a venire a Milano, ma perché non mostrare un po’ di Milano al mondo?

Non riesco a trovare una libreria o un negozio di dischi. Ce ne sarà pure qualcuno. Ma non riesco a trovarli, quindi smetto di cercare.

L’Expo è riuscita a ignorare, o a escludere, la creatività e l’energia che è possibile trovare in tutta la città di Milano, con le sue sette università. Ci sono più cose interessanti da fare e vedere alla Settimana del mobile che nell’intero Decumano. Isolandosi dalla città, Expo ha creato una bolla che può solo scoppiare.

Vado avanti. Nel padiglione della Lombardia le spiegazioni in inglese sono diffuse ad alto volume con un accento statunitense. Non ci entro.

Continuo a camminare. La fine è vicina. Sono madido di sudore (scusate il dettaglio). Oltrepasso altri padiglioni. Dopo un po’ cominciano a sembrare tutti uguali. Nel punto in cui finiscono i tendoni, in mezzo al Decumano, la gente costeggia i lati della strada cercando riparo dal sole. L’indomani sui giornali leggerò di lunghe code per il bus fuori del sito espositivo, di svenimenti e di richieste d’intervento ai numeri d’emergenza. Ci siamo. Mi viene mostrata l’uscita. È finita. Vado a casa e mi sdraio. Mi fanno male i piedi e ho bisogno di una doccia.

C’è una sola speranza. Che le persone che vengono per l’Expo visitino anche la città e che vadano a vedere il Pirellone, la torre Velasca, il cimitero Monumentale

La vera domanda non è “come”, “cosa” e neppure “dove”, ma “perché”? A cosa serve tutto questo? Forse questo “grande evento” diffonderà informazioni sul cibo, su come viene prodotto o su come salvare il pianeta? Ne dubito. Stupirà ed emozionerà la gente con la sua architettura eclettica e le sue folli installazioni? Dubito anche di questo. Sarà una divertente gita in famiglia? Forse, ma non particolarmente divertente.

C’è una sola speranza. Che le persone che vengono per l’Expo visitino anche la città e che vadano a vedere il Pirellone, la torre Velasca, il cimitero Monumentale, il Quarto stato di Pellizza da Volpedo, la Casa della memoria e porta Nuova. Che attraversino la città su un tram sferragliante e che facciano un giro a piedi nella galleria Vittorio Emanuele.

La storia, in questo caso, è utile. Dopo Italia ‘90 è venuta tangentopoli, e gli stadi costruiti per il torneo non hanno lasciato una grande eredità: alcuni sono già stati demoliti (a Torino), mentre altri sono solo cattedrali nel deserto (a Bari).

Se la città di Milano non riuscirà a imporsi all’interno dell’Expo (o a sostituirla) allora, temo (e lo dico con la morte nel cuore), i No Expo avranno avuto ragione fin dall’inizio. E se così fosse, allora tutta questa iniziativa sarà stata un immenso spreco di denaro, energia e risorse.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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