Dimostrare che il riscaldamento globale è reale sta diventando meno urgente di fronte alla necessità di alleviare la sofferenza umana che sta causando. In Rajasthan, nell’India nordoccidentale, la colonnina di mercurio ha toccato 51 gradi, la temperatura più elevata mai registrata nel paese. Gli ospedali sono pieni di persone colpite da infarto o disidratazione. I raccolti seccano nei campi. Un cammello rimasto al sole è impazzito e ha staccato la testa del padrone a morsi. Questo per darvi un’idea di quanto fa caldo in Rajasthan.
Nelle aree rurali, dove non c’è elettricità né acqua fresca né qualcosa per rinfrescarsi a parte la brezza, la popolazione chiede al governo di assumersi le sue responsabilità e fornire riparo, acqua e strumenti di refrigerazione. Non dovrebbe esserci bisogno di tanto eroismo nel bel mezzo di un’ondata di calore: è già abbastanza difficile fare pressione sulla burocrazia in tempi normali, figuriamoci quando fa talmente caldo che il bestiame viene preso da raptus omicidi.
La fresca brezza della complicità
Da giorni continuo a pensare a questa storia. È l’incarnazione del mio incubo personale. Odio il caldo. Dal freddo, almeno, si può sfuggire. Il caldo invece mi fa sentire impotente, mi terrorizza. Non riesco a dormire con le lenzuola. D’estate mi sento uno straccio e le temperature oltre i trenta gradi mi spingono regolarmente a mettere la testa nel frigorifero e maledire i miei nonni per aver deciso di diventare cittadini di un paese che non considera l’aria condizionata un indispensabile strumento di civiltà.
In realtà anche l’aria condizionata ha le sue controindicazioni: quando parte il misericordioso ronzio refrigerante, mi sembra di sentire i combustibili fossili che bruciano e alitano su di me la fresca brezza della complicità.
Nell’afa non faccio altro che pensare ossessivamente. Non potrei sopravvivere in Rajasthan. A mala pena posso sopravvivere a Brighton a luglio. Ma la verità è che lo sport nazionale britannico, lamentarsi del clima, sta diventando sempre più fuori luogo. Dopo tre secoli in cui abbiamo allegramente conquistato altri paesi, bruciando le loro risorse per guadagnarci una posizione di potere in un mondo in fiamme, oggi abitiamo una delle poche terre al mondo dove il clima non cerca costantemente di uccidere la popolazione.
Per quanto sia piacevole lamentarsi ogni volta che la temperatura esce dal raggio di dieci gradi in cui mi trovo a mio agio, il clima britannico, temperato con alternanza di pioggia e sole, è quanto di meglio si possa desiderare al mondo. Sulla scala globale, il Regno Unito ha avuto probabilmente il maggior vantaggio dai combustibili fossili con il costo minore in termini di clima. Se proprio non vogliamo pagare un risarcimento per i danni che abbiamo fatto, il meno che possiamo fare è smettere di lamentarci del tempo.
Non si parla di decine di migliaia, ma di milioni di persone che stanno letteralmente cuocendo al sole
Vi ho raccontato tutto questo per due motivi. Il primo è che è le manifestazioni e le implicazioni del cambiamento climatico sono spaventose a prescindere dal luogo in cui viviamo, e un po’ d’umorismo rende il tutto più tollerabile e mi impedisce di andare nel panico e liquidare l’intera faccenda come un argomento che non è rilevante per me perché al momento sono comodamente seduta in casa e fuori piove.
Il secondo motivo è che quando sono in ballo le vite e il tenore di vita di così tante persone (non si parla di decine di migliaia, ma di milioni di persone che stanno letteralmente cuocendo al sole) si verifica un fenomeno che i razionalisti chiamano “insensibilità alla portata”.
Difficile empatia
Per me il caldo afoso è un incubo e posso immaginare visceralmente, quasi fisicamente, cosa si prova a essere intrappolati in un forno a cielo aperto a 51 gradi. Posso essere spaventata e infuriata per il fatto che non ci siano rifugi d’emergenza e nessuno che offra acqua fresca, e che non si stia facendo niente per alleviare le sofferenze di queste persone. In tutto questo immagino istintivamente uno, due o dieci sconosciuti sottoposti al supplizio del caldo.
Ma la consapevolezza del fatto che la popolazione del Rajasthan è di 73,5 milioni di persone non mi rende 73,5 milioni di volte più preoccupata o infuriata. Il mio cuore è semplicemente incapace di sopportare una simile portata di terrore dell’afa. Il nostro cuore non funziona come un moltiplicatore. Questa è l’insensibilità alla portata: al livello di specie è psicologicamente difficile provare un’empatia proporzionata e tradurre questa empatia in azione.
Questo non significa che non sia utile (anzi, vitale) provarci. La nostra comprensione dell’emergenza deve aumentare. Qualsiasi risposta utile alla crisi climatica non può prescindere da quell’azione collettiva al livello globale, statale e locale ignorata colpevolmente dai governi neoliberisti di tutto il mondo, che si sono rifiutati di costruire le infrastrutture necessarie ad alleviare la sofferenza umana o addirittura hanno distrutto quelle esistenti. In un mondo che brucia, è arrivato il momento di dotarci di infrastrutture di soccorso in cui tutti facciano la loro parte.
Quali sono le necessità di un mondo in cui il cambiamento climatico diventa una realtà per miliardi di persone? In Rajasthan la necessità immediata è ovvia: tende, acqua fresca, elettricità affidabile, piani per affrontare le future carenze di cibo e strutture migliori per le comunità rurali. Le necessità a lungo termine, invece, sono le stesse che riguardano tutti gli altri: i governi di tutto il mondo devono impiegare sufficienti risorse per affrontare gli effetti del clima inumano che si abbatterà su tutti noi nei prossimi decenni.
Non ha più senso chiedersi se il cambiamento climatico sia un fenomeno reale, e questo non perché il dubbio sia stato cancellato nella mente dei bigotti evangelici o dei magnati del petrolio. La domanda non ha più senso perché quando ti trovi davanti a una casa in fiamme non è il momento di chiedersi chi ha appiccato il fuoco. Prima bisogna salvare quelli che stanno dentro la casa.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale britannico New Statesman.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it