Non si sono mai fatte guerre, dichiarate o non dichiarate, senza che i cittadini fossero in larga parte o in qualche modo consenzienti. E quella che si sta svolgendo ormai da anni nel Mediterraneo – tra le coste italiane e la sponda nordafricana – non fa eccezione, anche se i morti giacciono in fondo al mare.
Qualcuno ha parlato di “spettatori muti”, di movimenti pacifisti incomprensibilmente assenti dalle piazze, di popoli europei più preoccupati della loro sicurezza che del salvataggio di vite umane. E per quanto imbarazzante, è difficile dire che le cose non stanno così.
Se si prescinde dagli esclamativi di incredulità e orrore, più o meno sinceri o convenzionalmente prevedibili, che si rincorrono sulle pagine di Facebook, le voci che si fanno ascoltare nel dibattito pubblico sono quelle di politici, giornalisti, sindaci, o esperti di arte militare.
Per chi, come me, non si riconosce nell’arrogante cinismo di Matteo Salvini, ma neppure nel generico mea culpa di un’Europa che si sentirebbe “interpellata” e “svelata” dai flussi migratori nelle sue contraddizioni, non resta che appoggiarsi a qualche rara considerazione dove sembrano incontrarsi saggezza, umanità e pragmatismo.
In un articolo comparso su Zeroviolenza, firmato da Marco Omizzolo e Roberto Lessio, leggo: “Un’intera classe politica e dirigente nazionale e europea avrebbe potuto agire seguendo alcune proposte di buon senso. Avrebbero potuto aprire canali umanitari, intervenire sui governi dei paesi di origine e transito, aprire le relative ambasciate dando loro un mandato preciso, smetterla di delocalizzare le proprie imprese in quei paesi con lo scopo unico di sfruttare manodopera e ambiente per ottenere profitti e potere”.
Il commento di don Mussie Zerai, sacerdote eritreo candidato al premio Nobel per la pace, intervistato dai due giornalisti, è che tutte le vittime morte nel Mediterraneo “sono sulla coscienza di quei criminali che li hanno mandati allo sbaraglio e sulla coscienza di quei criminali della politica e della finanza europea che si rifiutano di mettere al centro la vita umana”.
Mi chiedo se non sia qui una delle possibili ragioni del silenzio di quanti – sicuramente molti – sono impegnati da anni contro le guerre, le ingiustizie, le violenze di ogni genere. Paradossalmente sono le guerre non dichiarate – quella contro i migranti, ma anche quella tra i sessi da poco venuta alla coscienza storica dopo una millenaria “naturalizzazione” – le più difficili da affrontare, perché mancano quei tratti che dovrebbero definire in modo inequivocabile la figura del nemico.
Nel primo caso è sufficiente un’occhiata ai titoli dei quotidiani per capire quanto sfuggente, inafferrabile, sia il soggetto di un’azione criminale da abbattere militarmente: gli scafisti? Le organizzazioni che stanno dietro al mercato dei migranti? I regimi africani che spingono intere popolazioni alla fuga dalla povertà e dalle guerre intestine? Oppure, non da ultimo, gli stati europei, ex potenze coloniali che in quegli stessi paesi oggi fanno affari, sfruttando risorse naturali e forza lavoro a basso costo?
E veniamo alla guerra più invisibile, e perciò più duratura, quella che ha visto l’uomo accanirsi sul corpo che l’ha generato, che gli ha dato le prime cure e le prime sollecitazioni sessuali, un corpo che incontra nella vita amorosa adulta e a cui è affidata ancora oggi la maggiore responsabilità della famiglia. In un dominio che si è confuso con le vicende più intime e dove l’uomo passa ogni volta dalla posizione di figlio inerme, fragile e dipendente, a quella di vincitore armato di molteplici poteri, materiali e psicologici, tracciare confini è impresa ardua, per non dire impossibile. In questi casi, contro chi volgere l’ostilità? Verso il figlio, la madre, la donna o l’uomo amato?
Di fronte a fenomeni che hanno radici nella nascita stessa degli esseri umani, nelle origini ancora enigmatiche della civiltà, nell’attrazione e nel rifiuto verso un corpo sentito come minaccioso in quanto “diverso” – la donna e lo straniero – le logiche su cui le comunità storiche degli uomini si sono fatte finora la guerra cessano di essere credibili e praticabili.
Uscire dalla priorità che hanno assunto il denaro, il profitto, l’arricchimento a spese di altri, e perciò il potere, la violenza distruttiva che ne conseguono, e riportare in primo piano la “vita” con i suoi bisogni primari, tra cui la cura e le sue molteplici potenzialità, oggi assume una portata radicale, rivoluzionaria, nel privato come nel pubblico.
Significa invertire il corso di una storia millenaria, sia che si tratti di un modello di sviluppo che ha asservito la natura al sogno di onnipotenza tecnologica, i popoli e i gruppi sociali più deboli all’arricchimento di pochi privilegiati, sia che si rifiuti la divisione sessuale del lavoro, e quindi “differenze”, identità, gerarchie tra sessi considerate finora “naturali”.
I movimenti sociali, portatori di un’altra idea di politica e di economia – pacifismo, ambientalismo, femminismo, e così via – continueranno a indirizzare il loro impegno di volta in volta su obiettivi particolari. Ma la consapevolezza di trovarsi di fronte a una partita molto più grande non può che crescere, e con essa anche un silenzio che si spera nel tempo creativo di forme più incisive di cambiamento.
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