Grazie a due studi pubblicati di recente ho scoperto, senza troppa sorpresa, che essere “reperibili” è stressante, faticoso e deprimente. Le tribolazioni dei medici tirocinanti privati del sonno sono leggendarie, mentre i contratti a zero ore (la persona è pagata a ore, ma deve essere reperibile senza essere pagata) e gli orari di lavoro variabili sono al centro di controversie su entrambe le sponde dell’Atlantico.
Ci sono molte cose che non vanno in questo tipo di lavori: i disturbi del sonno provocati dai turni; la disgregazione delle famiglie causata dagli orari irregolari; l’esiguità dei salari. I due studi, uno tedesco e uno olandese, cercano di individuare quanto costi, sul piano psicologico, sapere di poter essere chiamati da un momento all’altro, e quindi di non potersi rilassare del tutto.
Diversamente da quel che succede quando si è in ferie, che avessero lavorato o meno, le persone alla fine di una giornata di reperibilità erano stanche e irritabili e avevano un livello più alto di cortisolo nel sangue. Non faceva differenza neanche se avevano poche ore di reperibilità alla settimana; in quelle ore erano comunque tese e infelici.
La tecnologia ha cancellato i confini tra i vari segmenti della nostra vita
E di questi tempi, qualsiasi cosa ci sia scritto sul nostro contratto, non abbiamo quasi tutti un lavoro che ci chiede di essere sempre reperibili?
Senza dubbio ai livelli più bassi è peggio, ma come ha osservato più di un intellettuale tendente alla depressione – anche se ultimamente il nome di questo intellettuale sembra sempre essere Jonathan Franzen – la tecnologia ha cancellato i confini tra i vari segmenti della nostra vita.
E nel frattempo, le aspettative dei nostri datori di lavoro sono aumentate sempre più (quest’ultima cosa non è neanche necessariamente voluta: quando il nostro capo risponde a una nostra email di domenica sera, magari è convinto di compiere una scelta che riguarda solo lui, ma un po’ di ansia la mette anche a noi).
Il lavoro invasivo
Quello che sottolineano le nuove ricerche è che a darci fastidio è la semplice possibilità di essere interrotti, anche se quell’interruzione non arriva mai. Da uno studio pubblicato l’anno scorso è emerso che la sola presenza di un cellulare sul tavolo è sufficiente per disturbare lo svolgimento di compiti che richiedono un certo impegno mentale. Non era necessario che il telefono squillasse: era sufficiente che fosse lì “in agguato pronto a squillare”, per citare Philip Larkin (a proposito di intellettuali in depressione). Bastava la possibilità.
Il problema dell’intrusione del lavoro in ogni aspetto della nostra vita privata è squisitamente politico, e non basta qualche trucchetto per risolverlo. Però vale la pena di chiederci se per caso non ci rendiamo reperibili anche quando non è necessario.
Per esempio, io ho preso l’abitudine di mettere il mio cellulare in modalità aereo per un’ora o due tutte le mattine; a volte lo faccio anche di notte, e sono sicuro di dormire meglio, anche se so che nessuno mi chiama alle tre di notte.
E ci sono altre cose che potete fare: se non dovete rispondere alle email di lavoro durante il weekend, non guardatele (usate un indirizzo separato per i messaggi privati, o mettete un filtro che vi permetta di vedere solo quelle che volete). O magari usate proprio un altro apparecchio: è stato dimostrato che se usiamo il telefono o il computer di servizio anche a casa abbiamo più difficoltà a staccarci dal lavoro.
E per l’amor del cielo togliete le notifiche dei social network dal vostro telefono, così vi sbarazzerete pure dell’irritante sensazione che stiano sempre per arrivare. Ci sono tanti aspetti della nostra vita che non siamo in grado di controllare. Non lasciamo che la nostra mente sia preda di quello che invece possiamo controllare.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
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