Qualcuno in Banca d’Italia la chiama “la guerra dei sette anni”. Nel testo della Relazione annuale sul 2014 si parla di doppia recessione. Comunque lo si voglia chiamare, certo è che il periodo tra il 2007 e il 2014 ci ha lasciato una pesante eredità: gli investimenti sono “sotto” del 30 per cento, i consumi del 7 per cento. Adesso siamo di fronte a una piccola ripresa, inferiore alle aspettative al livello internazionale e più timida in Italia che altrove: motivo per cui il governatore Ignazio Visco, nella relazione annuale presentata all’assemblea dei partecipanti della Banca d’Italia, non ha stappato lo champagne né accennato a miracoli in vista.
Non solo perché all’ultimo governatore che si è sbilanciato in miracoli (Antonio Fazio, anno 2001) non è andata proprio bene. Ma anche perché i motivi di cautela e preoccupazione sono tanti. Troneggiavano sulle prime pagine dei giornali nelle mani dei “signori partecipanti”, con le varie mine (finanziarie, economiche e politiche) che vagano per l’Europa. E si ritrovano nelle venticinque cartelle delle Considerazioni finali, summa del messaggio annuale della politica monetaria, che di se stessa chiaramente dice: la politica monetaria non basta, serve una politica coordinata europea.
Alleggerimento quantitativo: le banche nazionali comprano titoli
La tanto attesa ripresa internazionale è arrivata nel 2014, ma più fragile del previsto. Visco cita il “rallentamento delle economie emergenti” e le forti differenze tra i ritmi di crescita dei paesi avanzati. Tutto ciò si concentra in un rischio, una parola che abbiamo cominciato a riconoscere nell’ultimo anno: deflazione. Una discesa dei prezzi che non è virtuosa ma sintomo di debolezza dell’economia, con una domanda insufficiente a sostenere la produzione e dunque l’occupazione.
Uno spettro che ha spinto la Bce a inondare di denaro le economie, con il quantitative easing (alleggerimento quantitativo, Qe): far arrivare denaro nell’economia, in tanti modi, il più forte dei quali (il bazooka di cui tanto si è parlato) è quello deciso a gennaio, ossia l’acquisto da parte delle banche centrali di titoli pubblici, 60 miliardi al mese fino al settembre del 2016.
Attenzione: Visco chiarisce quel che nell’opinione corrente è poco noto, ossia che il “bazooka” non è né di Draghi né della Bce, ma delle singole banche. Cioè: ciascuna si compra i suoi, “aiuta” il suo governo, con l’autorizzazione dell’occhiuta autorità di Francoforte. È stata questa, all’epoca, l’unica via per superare il veto tedesco e far passare il programma. Ma il compromesso, con parole felpate ma sostanza chiara, è criticato dal governatore della Banca d’Italia: “Questa decisione tiene conto della preoccupazione di alcuni membri del Consiglio che il programma potesse tradursi in trasferimento di risorse tra paesi. Una piena condivisione dei rischi sarebbe stata più consona all’assetto della politica monetaria unica e coerente con il trattato”. Così, anche se il bazooka resta efficace, la scelta di condividere i rischi solo in parte riflette l’impasse dell’Unione. Concetto che torna a più riprese a turbare i sonni di Visco – e non solo i suoi.
Rischio Grecia sottovalutato
Comunque sia, grazie al Qe “nazionalizzato” abbiamo evitato il peggio. Entrando nel “territorio inesplorato” di tassi di interesse bassissimi – negativi in sette paesi – ma evitando “rischi molto maggiori”. Che però potrebbero ripresentarsi, soprattutto in relazione alla crisi greca. Per quanto si sia fatto per evitare rischi di contagio, quel che sta succedendo con “le difficoltà delle autorità greche nella definizione e nell’attuazione e delle necessarie riforme” e lo stallo delle trattative con i creditori alimenta “tensioni gravi, potenzialmente destabilizzanti”.
Tra le righe, Visco si allinea alla comune versione per cui la principale colpa della deflagrazione, nel caso, sarebbe del governo greco; ma non pare sposare la tesi di chi minimizza, a Bruxelles e soprattutto a Berlino, secondo cui l’eurozona sarebbe in grado di gestire un default della Grecia senza eccessivi drammi.
“Consolidare la ripresa”
Quanto all’Italia, dalle considerazioni finali del governatore ci si aspettano sempre le pagelle al governo. Un po’ meno da quando la banca nazionale ha ceduto la sua sovranità alla Bce (per quanto, come si è visto, con il Qe si è avuta una sorta di ri-nazionalizzazione), ma comunque dalle parti del governo le parole del governatore sono pesate con il bilancino.
Cosa manda a dire il governatore al governo? Che la ripresa c’è, “sia pure in un quadro più debole di quello dell’area”. Che il miniaumento del pil del primo trimestre dovrebbe proseguire, soprattutto grazie all’export, ma anche grazie a una piccola ripresa degli investimenti privati (che sono il vero buco nero degli ultimi anni). Ma che le imprese innovano pochissimo, e che il gap tra innovazione e ricerca e sviluppo pesa ancor più nei settori ad alto contenuto tecnologico. Che sono e restano troppo piccole, e i motivi che bloccano la crescita delle imprese sono gli stessi che scoraggiano gli investimenti diretti in Italia: e tra i motivi si leggono tutte cause “istituzionali” (leggi complicate, procedure inefficienti, ritardi della pubblica amministrazione e della giustizia, scuola che funziona poco, corruzione).
Jobs act e investimenti pubblici
Insomma, una montagna di cose da fare. Ed eccole, le pagelline per quanto già fatto: il jobs act, scrive Visco citando esplicitamente l’abolizione dell’articolo 18, può aver spinto le imprese a fare più assunzioni a tempo indeterminato. È ancora presto, dice, per valutare gli effetti delle misure (nonostante la raffica dei comunicati dal ministero del lavoro, una valutazione “è prematura”), ma quel che si intravede è un aumento delle assunzioni a tempo indeterminato, favorito anche dagli sgravi fiscali.
Quanto all’aumento dell’occupazione, si vedrà: ma – avverte il governatore – c’è comunque il rischio di una ripresa senza occupazione legato all’innovazione tecnologica. E questo sarà vero soprattutto al sud. Per contrastare una ripresa trainata dai robot, servirebbero investimenti pubblici e privati in settori con alta intensità di lavoro, dice Visco citando gli investimenti nel paesaggio, città e cultura.
La formazione keynesiana del governatore (allievo di Federico Caffè all’università di Roma) si riaffaccia cautamente anche nelle pagine del volumone di tutta la Relazione, nel paragrafo dedicato alla “stagnazione secolare”: un’espressione-spettro tornata nel gergo degli economisti da un po’, una nuova condizione di equilibrio economico caratterizzato da grandi diseguaglianze e sottoccupazione, che può essere contrastata usando come unica ricetta una robusta iniezione di investimenti pubblici.
Il bonus al quinto più ricco
Per chiudere con le pagelle: il governatore promuove il bonus-Renzi, gli 80 euro in busta paga, affermando che nel 2014 ha contribuito (insieme al calo dei prezzi dei carburanti) a far salite il potere d’acquisto, e si è tradotto in un piccolo sostegno alla domanda interna. È andato a 5,5 milioni di nuclei familiari, e per il 90 per cento è stato speso – un dato in linea con la propensione al consumo delle famiglie.
Ma attenzione: oltre a dare questi dati, per la prima volta gli uffici della Banca d’Italia fanno uscire anche una stima precisa degli effetti distributivi di quel bonus, destinato ai redditi medio-bassi (con esclusione di quelli più bassi, gli incapienti).
Ipotizziamo di mettere tutte le famiglie italiane in cinque fasce, in ordine a seconda del reddito, partendo dalla più bassa alla più alta: viene fuori che al quintile inferiore è andato il 15 per cento del trasferimento, dunque i più poveri hanno ricevuto, in proporzione, meno degli altri. Mentre il quintile più alto – il 20 per cento che guadagna di più – ha ricevuto più o meno lo stesso trasferimento. Com’è possibile?
Da un lato, c’è l’effetto dell’esclusione dalla misura dei più poveri tra i poveri: gli incapienti, appunto. Dall’altro, c’è il fatto che il bonus non andava alle famiglie ma agli individui, e dunque famiglie con più redditi da lavoro, o con redditi da capitali, possono averne beneficiato.
Tutto ciò mentre – ricorda la relazione – le famiglie in povertà assoluta sono salite al 10 per cento del totale e hanno ricevuto dallo stato, in tutto il 2014, non più di 300 milioni, grazie alle esistenti misure davvero minimali.
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