In fondo a via Tiburtina, a Roma, vicino a Rebibbia, nel cortile di un istituto dei Salesiani non più in uso, una domenica mattina di febbraio decine di persone sono riunite per una funzione religiosa, nel vento freddo e nel sole. Indossano, uomini e donne, in questo cortile sulla Tiburtina, il tipico velo bianco decorato ai bordi, sopra ai pantaloni e alle gonne. Molti hanno gli ombrelli colorati delle feste, cantano e battono le mani al ritmo di un tamburo. Quelli un po’ più lontani dall’altare fanno foto con i telefonini, quelli che restano in fondo chiacchierano e controllano i bambini che giocano, da una stanza arriva il profumo del pranzo.

Il tigrino, la lingua parlata in Eritrea, e l’amarico, la lingua principale d’Etiopia, derivano dal ge’ez: lingua antica, semitica, ancora usata da entrambi i popoli per le funzioni religiose cristiane di rito copto ortodosso. Ascoltiamo i canti e le letture in ge’ez, mentre brucia l’incenso e io mi ricordo di una festa del Meskal in una piccola città lungo la strada che da Addis Abeba va verso est, verso il mare, durante il breve viaggio che ho fatto in quelle terre qualche anno fa: il cortile della chiesa pieno di persone, di bambini, la ferrovia davanti, una grande pira che ha cominciato ad ardere al tramonto, la luna già alta, mentre la gente ci ballava intorno, quasi come al mio paese la sera della festa di Sant’Antonio.

Qui sulla Tiburtina i fedeli sono soprattutto etiopi. I loro fratelli eritrei si riuniscono per la messa ogni domenica in una piccola chiesa di San Salvatore in Campo, a Campo dei fiori, nel centro di Roma. Uso la parola fratelli perché è quella che ho sentito più spesso da loro, nonostante, o forse proprio per via della guerra che ha diviso i due stati dal 1998 al 2000 e che ancora genera tensioni e conflitti.

Eritrei ed etiopi sono tra i primi a chiedere lo status di rifugiati, perché fuggono da guerre e carestie, persecuzioni e governi autoritari

Gli etiopi e gli eritrei, pur nella varietà delle etnie presenti in entrambi gli stati, hanno in comune, oltre alle origini linguistiche, tradizioni e cultura, compresa quella culinaria, secoli di storia.

Le prime ondate migratorie risalgono agli anni settanta, ma già dagli anni sessanta cominciano ad arrivare soprattutto le donne eritree, al seguito di mariti italiani che lasciavano la colonia, e continuano ancora oggi.

Non sono comunità molto numerose, non sono nemmeno fra le prime venti in Italia: appena 8.100 etiopi e 10.610 eritrei in tutto il paese, ma sono tra le prime tra quelle che chiedono lo status di rifugiati, perché fuggono da guerre e carestie, persecuzioni politiche e governi autoritari (gli eritrei in particolare, che in Europa sono secondi soltanto ai siriani per numero di riconoscimenti dello status di rifugiato).

È un’emigrazione soprattutto femminile: il 61,1 per cento tra gli etiopi (e le ragazze etiopi in Italia sono, tra gli stranieri, quelle con più iscrizioni nei licei) e il 42,2 per cento tra gli eritrei.

Sugli eritrei in Italia ci sono due documentari: Asmarina, di Alan Maglio e Medhin Paolos del 2016, che racconta Milano, e Good morning Abissinia, di Lucia Sgueglia e Chiara Ronchini (2005), che racconta gli eritrei a Roma.

In via Montebello, a Roma, marzo 2016. (Simona Pampallona)

A Roma – città che “ha tante favole eterne per gli esiliati”, come scrive la poetessa Ribka Sibhatu (Aulò, canto-poesia dall’Eritrea, Sinnos, 1993) – la zona in cui già dagli anni settanta eritrei ed etiopi hanno aperto negozi e ristoranti, parrucchieri e bar, è quella intorno a stazione Termini: via Milazzo e via dei Mille, via Volturno e via Montebello.

Ci accompagna per queste strade Sammi, figlio di padre italiano e madre eritrea, nato e cresciuto a Roma, un sabato pomeriggio lungo in cui parliamo molto, camminiamo, incontriamo uomini e donne, lui conosce e saluta tutti, io ascolto storie e guardo facce, Simona Pampallona le fissa in una foto.

Odore d’incenso e di caffè

Si sente, in mezzo allo smog e all’asfalto, odore di incenso e di caffè, rumore di voci e musiche che se ci si concentra si può essere all’improvviso in una strada di Addis Abeba o di Asmara.

Lì accanto, in piazza Indipendenza, un ex edificio dell’aeronautica militare abbandonato è occupato, dal 2013, da più di mille rifugiati. L’edificio, una delle occupazioni romane abitate da migranti, è enorme eppure ben tenuto, le camere piccole ma arredate bene, io e Simona lo visitiamo assieme ad Alì, che ci offre un tè e molti racconti: eritreo, essendo musulmano, ha imparato l’arabo sin da piccolo, lo ha perfezionato poi negli anni in cui ha vissuto con la famiglia in Arabia Saudita, poi è arrivato a Roma, anche se il suo sogno era raggiungere Londra, e il suo italiano è fluido e ricco, ritmato, come la musica che suona con la sua chitarra, la kora.

Sammi ha imparato il tigrino da grande, per non perdere la lingua materna.

Nella chiesa di San Salvatore in Campo, il sabato pomeriggio, una ventina di bambine e di bambini eritrei si ritrova con un maestro per fare lezioni di tigrino. Hanno tra gli otto e i tredici anni, imparano a parlare oppure a leggere e a scrivere, organizzano recite e feste. Ce lo racconta Berhane, che in quella chiesa organizza il coro, la domenica mattina.

Habte Weldemariam, sociologo e antropologo eritreo che vive a Roma da quarant’anni, autore di libri di storia e letteratura, con l’aiuto della comunità eritrea ha organizzato corsi di tigrino per bambini di seconda e terza generazione, dal 1996 al 2001, in molti quartieri di Roma.

Lamenta, durante la nostra chiacchierata, l’intromissione della politica eritrea nelle attività dell’associazione, che ne ha determinato la chiusura.

Piano piano ci mettiamo a ballare anche noi, Janet e i suoi amici sono allegri e trascinanti, ci accolgono e coinvolgono

Un sabato sera, in un circolo culturale etiope-egiziano di via Cavour, conosciamo Janet, che ha quarant’anni, anche se ne dimostra dieci in meno, e una figlia di venti, avvolta in un vestito bianco, che non parla l’amarico. Così, quando il suo fidanzato dj, anche lui ventenne etiope romano, le fa un complimento al microfono, tutta la sala applaude e ride tranne lei.

Il circolo culturale egiziano-etiope di via Cavour a Roma, marzo 2016. (Simona Pampallona)

La sala è piena e le persone, dopo la cena, piano piano si alzano e si mettono a ballare la musica etiope scelta dal ragazzo, piano piano ci mettiamo a ballare anche noi, Janet e i suoi amici sono allegri e trascinanti, ci accolgono e coinvolgono.

La mia amica Martha, arrivata da Giggiga quindici anni fa, sposata con Alessandro, romano, da sola non riesce a insegnare l’amarico ai suoi figli Caleb e Valerio. L’italiano, è ovvio, lo sanno benissimo, o almeno, più o meno bene a seconda di altre tantissime cose, come qualunque bambino figlio di romani, pugliesi, toscani. Ma non sanno parlare la lingua della loro madre, della loro nonna, gli zii e i cugini non possono parlare con loro al telefono, o su Skype, rischiano di non capire i loro scherzi quando la famiglia riesce a passare le vacanze da loro.

In comune hanno tutti, mi sembra, l’essere sempre in equilibrio tra la necessità di conoscere la lingua e la cultura del posto in cui ci si sta costruendo una nuova vita e quella di non perdere del tutto il legame con quella del paese in cui si è nati, spesso anche cresciuti. La voglia di incontrarsi tra connazionali, come Janet, e quella di conoscere persone di altre nazionalità, come Alì che preferiva quando viveva nella casa famiglia e aveva amici che arrivavano da tutta l’Africa.

Figli della stessa madre

La lingua, la cultura, e la storia. Storia che, nel caso di Etiopia ed Eritrea, inoltre, così come di Somalia e Libia, è profondamente legata a quella del nostro paese. Alcune pagine dei nostri libri di scuola e dei loro raccontano le stesse vicende.

Poco e male, almeno i nostri, come denunciano in molti da tempo: meriterebbero, tutti quei bambini e quelle bambine che studiano nelle nostre scuole, quelle studentesse dei nostri licei, più informazioni e più verità, su quegli anni dell’occupazione italiana, su quelli del fascismo, magari delle scuse ufficiali, magari un’accoglienza diversa, tutti loro che arrivano nelle nostre città, costretti spesso, soprattutto nei primi tempi, a chiedere aiuto alla Caritas (cosa che, mi dicono, per loro è vergognosa, e mi immagino se dovesse capitare ai miei zii, ai miei cugini), o a vivere in case occupate, vittime di controlli da parte delle forze dell’ordine che li fanno sentire dei delinquenti.

Un negozio di souvenir dall’Etiopia in via Volturno, a Roma, marzo 2016. (Simona Pampallona)

Magari meriterebbero altri nomi per le vie di queste nostre città, come denuncia la scrittrice italosomala Igiaba Scego in Roma negata, percorsi postcoloniali nella città (con le foto di Rino Bianchi, Ediesse, 2014). Mi faccio queste e altre domande alla Casa della memoria e della storia, a un convegno per commemorare i morti del 19 febbraio 1937 quando, in seguito a un attentato contro Rodolfo Graziani compiuto da due giovani eritrei, il generale ordina una rappresaglia che, nella sola Addis Abeba, porta a trentamila morti (secondo alcune fonti, si scende fino a seimila secondo altre), allo sterminio di giornalisti, intellettuali, persone con un titolo di studio e a quello, compiuto il 21 maggio successivo, di oltre duemila tra monaci, giovani seminaristi e pellegrini nel monastero di Debra Libanos.

E invece ancora teniamo in piedi il monumento a Graziani, penso mentre guardo il film documentario If only I were that warrior di Valerio Ciriaci, premiato al Festival dei Popoli, che racconta della lotta dell’Associazione della comunità etiopica a Roma e di associazioni simili degli Stati Uniti per l’abolizione del monumento che qualche anno fa è stato eretto ad Affile, in provincia di Roma, per ricordare il compaesano Rodolfo Graziani. Una delle protagoniste del documentario è Mulu, che dal 1995 presiede l’Associazione, con cui prendo un caffè dalle parti del Policlinico e mi racconta la sua storia e quella di tanti suoi connazionali. Paesani, dice.

Dicono spesso, gli etiopi e gli eritrei che ho conosciuto, la parola “paesano”, nel senso di compaesano, per parlare dei loro connazionali. La usano tanto che mi chiedo come mai, per noi è una parola dal suono quasi antico, neorealista, meridionale. Chiedo a Sammi secondo lui da quale parola la traducono, mi dice che probabilmente è weddi ‘addey, che vuol dire “figlio della mia terra”.

Mi spiega poi meglio Habte Weldemariam, che letteralmente vuole dire “figlio di mia madre”, perché per il paese la parola è la stessa che per madre. Fratelli, dunque, penso, tentando di memorizzare weddi ‘addey, che mi sembra un’espressione bellissima.

Questa è la prima tappa del viaggio. Seconda tappa.

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