Mustafà non trattiene le lacrime: la sua famiglia è stata decimata dai taliban in Afghanistan. Un sabato notte è esplosa una bomba vicino casa sua, i familiari sono morti e lui è dovuto scappare insieme a sua moglie per le continue minacce. “Sono fuggito per salvarmi la vita, non avevo altre possibilità. Ora qui non siamo considerati nemmeno dei profughi, ma solo dei migranti di serie B”, afferma tra i singhiozza. È giovane Mustafà, ha poco più di vent’anni.

Scende il sole sul porto del Pireo, ad Atene, l’aria è ferma, è molto caldo, dall’asfalto sale l’odore del catrame che si mischia a quello aspro di pesce e spazzatura che c’è in tutti i porti del mondo. Grandi navi salpano e prendono il largo: con la stagione estiva le banchine si sono riempite di turisti in ciabatte e cappellini pronti a partire per le isole dell’Egeo. Tutti i giorni famiglie di profughi, coppie, gruppi di donne con i bambini si siedono sul molo a guardare le navi che passano. “Speriamo anche noi di poter riprendere il viaggio, siamo qui da febbraio”, afferma Mustafà.

Al momento 1.500 persone vivono in una tendopoli in un parcheggio, sotto una sopraelevata e in alcuni capannoni nel Gate E1 di uno dei porti più trafficati d’Europa, da poco venduto dal governo greco all’azienda cinese China Cosco shipping corporation.

I volontari anche stasera si danno da fare: hanno organizzato uno spettacolo dietro alla tendopoli, per offrire un po’ di musica e di teatro con le marionette ai bambini. Un altro gruppo ha montato una rete nel parcheggio per far giocare i ragazzi e i più piccoli a pallavolo; altri distribuiscono i pasti, infine alcuni medici della Croce rossa stanno visitando un ragazzo.


Negli ultimi mesi, da quando i paesi europei hanno chiuso le frontiere con la Grecia, al porto di Atene hanno vissuto fino a 3.500 profughi: siriani, ma anche afgani, pachistani, iraniani. Il porto del Pireo è stato l’approdo per migliaia di persone che arrivavano sulla terraferma dalle isole.”Il governo greco non ha voluto fornire assistenza ai profughi per affrontare l’emergenza umanitaria che si stava creando nei campi informali, partendo dal presupposto che questi campi andavano sgomberati”, spiega Clement Perrin, coordinatore delle attività di Medici senza frontiere al Pireo.

“Il lavoro di assistenza è stato delegato completamente ai volontari e alle associazioni che si sono occupati di tutto con grande generosità”, spiega Perrin. “Il governo ha sempre pensato che il Pireo andasse sgomberato. I funzionari del ministero e la polizia in borghese cercano di convincere i profughi a lasciare l’accampamento informale per raggiungere i campi ufficiali, ogni giorno arrivano pullman per trasferire i profughi nei campi gestiti dal governo. Ma le famiglie fanno resistenza. Temono di finire in campi lontani e isolati, a molti chilometri dalla città. Dove reperire i beni di prima necessità può diventare un problema”, afferma Perrin. “La prospettiva del governo, comunque, è quella dello sgombero graduale anche in vista dell’arrivo della stagione turistica”.

Mustafà faceva il traduttore per l’esercito statunitense durante la guerra in Afghanistan, perché conosceva l’inglese, l’aveva studiato. Aveva cominciato a studiare anche ingegneria all’università. “In Afghanistan era impossibile per me studiare, i taliban mi minacciavano, perché frequentavo una scuola d’inglese”, racconta Mustafà. “Per questo sono venuto in Europa, mi piacerebbe studiare”.

Il viaggio è durato 28 giorni, in Pakistan e in Iran ci ha scoperto la polizia e ci ha sparato addosso

La sua storia è simile a quella di Mohamed Anif, un altro afgano un po’ più avanti con gli anni. Anche lui lavorava a Kabul per le truppe statunitensi e anche lui è stato costretto a scappare dopo il ritiro dell’esercito statunitense dall’Afghanistan. “Ricevevo minacce ogni giorno, ho cinque figli e l’unica maniera per dargli un futuro era provare a scappare”, racconta Anif, la pelle bruciata dal sole e gli occhi celeste acquamarina. “Il viaggio è stato lungo e pericoloso, abbiamo speso 2.700 euro a persona per andare da Kabul a Chio, in Grecia”.

“Il viaggio è durato 28 giorni, in Pakistan e in Iran ci ha scoperto la polizia e ci ha sparato addosso, abbiamo rischiato di morire, ma siamo sopravvissuti”, racconta. Anche la traversata da Smirne a Chio è stata pericolosa: “I bambini piangevano, avevano paura”. La figlia più piccola di Mohamed, Marwa, ha poco più di un anno. Gholsom, la figlia più grande, la coccola nel piazzale di fronte alle tende, la lancia in aria per farla ridere. Gli altri fratelli, intanto, giocano con alcune cassette di plastica, si nascondono, poi usano le cassette come carri e si spingono l’un l’altro. Per i bambini nei campi profughi in Grecia ogni oggetto diventa un gioco: basta una cassetta, un bancale, un telo, un bastone.

“Ora ho finito tutti i soldi e non so più che fare, abbiamo lavorato per gli statunitensi e i britannici nel nostro paese e ora non ci riconoscono nemmeno come profughi. Dicono che l’Afghanistan è un paese sicuro dove vivere, ma questa è una bugia”, afferma Mohamed. Il 3 maggio nel Regno Unito Nangyalai Dawoodzai, un interprete afgano di 29 anni, si è suicidato, dopo che Londra gli ha rifiutato l’asilo. Aveva lavorato per le truppe britanniche nella provincia di Helmand durante la guerra ed era fuggito in Europa dopo aver ricevuto minacce, ma la sua speranza di rifarsi una vita si è scontrata con i limiti del sistema d’asilo europeo che considera l’Afghanistan un posto sicuro, dove la guerra è finita.

Secondo l’ultimo rapporto della missione delle Nazioni Unite a Kabul, nel 2015 le vittime civili in Afghanistan sono aumentate del 4 per cento rispetto all’anno precedente, l’11 per cento di loro erano donne e il 26 per cento erano bambini. A causa di queste violenze, l’anno scorso 2,6 milioni di persone hanno lasciato il paese. La maggior parte degli afgani che fuggono si fermano nei paesi vicini, in Pakistan e in Iran, dove fanno i lavori più umili. Ma alcuni provano a raggiungere l’Europa: nel 2015 più di 178mila afgani hanno fatto richiesta di asilo nei paesi europei, quattro volte di più dell’anno precedente.

Ma la loro speranza di essere accolti è molto inferiore a quella di profughi di altre nazionalità: i paesi europei hanno rapidamente dimenticato la guerra in Afghanistan. Mentre i siriani, gli eritrei e gli iracheni possono accedere ai programmi di ricollocamento all’interno dei paesi dell’Unione europea, agli afgani non è riconosciuta questa possibilità, perché il tasso medio di ottenimento dell’asilo nei paesi dell’Unione europea per la loro nazionalità è troppo basso (55 per cento). La guerra in Afghanistan, lanciata dagli Stati Uniti e dai suoi alleati con la giustificazione ideologica della “guerra al terrore” all’indomani dell’attacco alle torri gemelle, è già stata archiviata dai governi occidentali, anche se la fuga di migliaia di persone dal paese nei decenni successivi avrebbe dovuto essere una conseguenza più che prevedibile di quell’intervento.

All’interno del terminal passeggeri del porto del Pireo ad Atene, il 30 marzo 2016. (Louisa Gouliamaki, Afp)

Un altro anno nel limbo

Dopo il fallimento delle chiamate via Skype per fare richiesta d’asilo in Grecia, l’8 giugno è cominciata la preregistrazione di tutti i 53mila profughi che sono rimasti bloccati in Grecia in seguito alla chiusura delle frontiere europee e la firma dell’accordo tra Unione europea e Turchia sui migranti. La procedura consentirà un censimento dei profughi e sarà portata a termine dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), dall’Easo (l’agenzia europea per i servizi d’asilo) e dall’Asylum service (il dipartimento del ministero dell’interno greco che si occupa di asilo).

“L’intera procedura dovrebbe durare dai tre ai sei mesi, poi avverrà la registrazione vera e propria. Sarà fissato un appuntamento per ogni profugo e al quel punto comincerà il processo vero e proprio di richiesta d’asilo”, spiega Salvatore Fachile dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) che insieme a un gruppo di legali e attivisti italiani ha visitato la Grecia a metà giugno per capire qual è la situazione umanitaria e legale delle migliaia di persone che sono rimaste bloccate nel paese.

“Queste persone si troveranno in questa situazione per almeno un anno e non avranno la possibilità di lavorare, anche se avranno i documenti rilasciati al momento della preregistrazione”, continua Fachile. “Il problema è che questo processo sarà molto lungo e gli afgani saranno gli ultimi a essere preregistrati, dopo i siriani e gli iracheni”, continua Fachile.

“Al momento l’Easo sta puntando tutto sul ricollocamento dei profughi in altri paesi europei, anche se il sistema europeo che prevede delle quote finora non ha funzionato”, racconta Liana Vita, un’altra attivista che ha partecipato alla missione dell’Asgi in Grecia. “Il ricongiungimento familiare non viene favorito, mentre si preferisce dare la priorità al ricollocamento, perciò per gli afgani sarà un processo lungo e con scarsa possibilità di ottenere risultati positivi. Potranno chiedere l’asilo in Grecia, ma chissà se sarà accettato e quanto dovranno aspettare in ogni caso per avere un responso”, continua.

“Tutti sperano che gli afgani di fronte a queste difficoltà chiedano di essere riammessi volontariamente nel loro paese, mentre è più facile prevedere che vivranno per anni in Grecia, ai margini della società e delle attività produttive: manodopera a basso costo per il mercato del lavoro nero”, afferma Fachile. Altri si rimetteranno nelle mani dei trafficanti: “Al Pireo comprare un passaporto falso per andare in Europa in aereo costa tremila euro”, afferma Liana Vita. E dopo l’accordo tra Ankara e Bruxelles i trafficanti hanno ripreso a frequentare il Pireo più di prima.

Questa è l’ultima puntata di una serie di reportage sui campi profughi e sui centri di detenzione in Grecia, dopo l’accordo con la Turchia e la chiusura della rotta dei Balcani. Qui la prima puntata: L’Europa tiene in ostaggio i profughi a Idomeni e qui la seconda: A Lesbo i profughi sono prigionieri di un accordo ingiusto.

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