Cominciamo da tre scene. La prima me la racconta Hervé Guerrisi, un giovane attore belga di origine italiana. Si svolge in Svizzera, alla fine degli anni cinquanta: un bambino è costretto a vivere in casa perché “clandestino”. La legge vieta ai lavoratori immigrati stagionali – come suo padre – di farsi raggiungere dalla famiglia. Quel bambino impaurito è il protagonista di La Turnata, un testo teatrale di Nicola Bonazzi e Mario Perrotta. Dopo aver adattato e portato in scena Cìncali (altro splendido lavoro di Bonazzi e Perrotta, dedicato agli italiani emigrati verso le miniere belghe), in autunno Hervé presenterà a Bruxelles La Turnata.
La seconda scena si svolge a Washington Dc il 10 aprile scorso. Decine di migliaia di persone si sono date appuntamento davanti al Campidoglio e in altre città degli Stati Uniti per chiedere una riforma della legge sull’immigrazione e sulla cittadinanza. Nel paese vivono circa undici milioni di persone senza documenti, persone con una storia simile a quella del giornalista Jose Antonio Vargas, che nel 2011 ha pubblicato sul New York Times un articolo intitolato “My life as an undocumented migrant”. In quell’articolo la parola “paura” torna quattro volte.
La terza scena si è svolta ieri a Bruxelles, una delle tappe della Marche de solidarité avec et sans papiers, un’iniziativa lanciata da vari collettivi (in particolare il [Collectif Sans Papiers Belgique][5]) e singoli cittadini. Decine di persone percorrono il paese dal 6 aprile chiedendo più diritti per chi è relegato nella clandestinità dalla legge. Ieri, durante un’assemblea sulle strategie da adottare, molti hanno ripetuto: non bisogna avere paura.
Il testo di Perrotta ci ricorda che in Europa la paura accompagna da oltre mezzo secolo chi non ha il diritto di risiedere legalmente in un paese. Persone accolte “a braccia chiuse”, per riprendere il titolo di un dvd che raccoglie alcuni lavori del regista-operaio italiano Alvaro Bizzarri, emigrato in Svizzera nel 1955, a 21 anni, e celebrato a Locarno nel 2009 per i suoi film e per il suo impegno. Lo stesso sentimento di paura ha accompagnato chi, pur avendo quel diritto, per secoli si è dovuto accontentare di essere un cittadino di serie b, di rimanere in disparte, di farsi invisibile. Penso al lungo articolo (“Love on the march”, uscito nel numero 986 di Internazionale) in cui Alex Ross racconta la storia del movimento per i diritti degli omosessuali negli Stati Uniti, passato nel giro di pochi decenni “dall’oblio sociale alla credibilità morale” .
**Per le vittime delle leggi **sull’immigrazione questo passaggio sembra essere entrato in una fase nuova. Forse, per dirla con Ross, stiamo per assistere a un “improvviso balzo in avanti”, dopo che per quarant’anni repressione e proteste hanno seguito ritmi diversi a seconda dei paesi. In Europa si è cominciato a voler regolare i “flussi migratori” con la crisi degli anni settanta: fin dal 1972 in Francia, con le circolari Marcellin-Fontanet, nel 1980 in Belgio, nel 1986 in Italia con la legge Foschi… Gradualmente in tutti i paesi europei decine di migliaia di persone sono diventate “illegali” (negli Stati Uniti la prima legge ad aver dichiarato “indesiderati ” dei lavoratori stranieri, per la precisione asiatici, risale al 1875). Anche le proteste sono state graduali. Negli anni novanta una nuova parola francese – sans-papiers – ha fatto il giro del mondo, insieme alle immagini di Emmanuelle Béart al fianco degli occupanti della chiesa parigina di Saint-Bernard. In Belgio nel 2006 sono state occupate più di trenta chiese. In Italia quest’anno la rete Primo Marzo ha organizzato la sua quarta mobilitazione nazionale.
Per la prima volta, in moltissimi paesi dove la legge definisce illegali delle persone, la situazione è simile: sfruttamento della manodopera in nero; delusione dopo le promesse di questo o quel governo (dalle nostre sanatorie truffa al primo mandato di Obama, che nel 2010 non è riuscito a far approvare il Dream Act in congresso); morti alle frontiere; centri di detenzione per stranieri; figli di immigrati minacciati di espulsione da quello che di fatto è il loro paese (“I’m an American, I just don’t have the right papers”, riassume Vargas). E in tutto il mondo le persone reagiscono, unite da una corrente sotterranea di rabbia ed esasperazione.
All’assemblea di ieri c’era anche Elisabeth Schmidt-Hieber di Picum, una rete internazionale di ong impegnate nella difesa dei diritti delle persone senza documenti. Le ho chiesto se anche secondo lei questa lotta è a una svolta storica o se stavo farneticando, stroncata dal primo weekend di sole brussellese. Ci ha pensato un po’ su, poi ha risposto: “Sembra proprio che stia cambiando qualcosa”. Oggi ho avuto la conferma: negli Stati Uniti se ne sono accorti perfino i repubblicani! Del resto è proprio lì che è nato lo slogan perfetto: “No papers, no fear”.
Francesca Spinelli è giornalista e traduttrice. Vive a Bruxelles e collabora con Internazionale. Su Twitter: @ettaspin
[5]: Collectif sans papiers Belgique
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