Khoi Vinh, Medium

Nell’era di Spotify la musica non è mai stata così a portata di mano. Eppure non riesco ancora ad affezionarmi allo streaming.

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(Jorg Greuel, Getty Images)

Un regalo che purtroppo quest’anno non ho fatto ai miei cari è la musica. Nell’era dei servizi di streaming come Spotify e Pandora, la musica è ormai così a portata di mano che non ha più quella concretezza e quel significato che danno un senso all’idea di farne un pacchetto da mettere sotto l’albero. So che è possibile regalare un abbonamento a Spotify, ma non è la stessa cosa che regalare un disco o un cd dopo averlo cercato e comprato, facendolo diventare un oggetto da possedere, conservare e in cui identificarsi.

I supporti materiali sono ormai storia passata e non è certo il caso di tornare indietro. È chiaro che la musica in streaming non è una moda passeggera. Ma quando penso a Spotify o a Rdio mi chiedo perché non riesco in nessun modo a sentire mia la musica che distribuiscono così facilmente.

È perché la musica in streaming è immateriale? Perché non ci sono più le confezioni? No, non è così. Quando ripenso alle mie vecchie collezioni di vinili e cd mi si contorce lo stomaco: ho speso un sacco di soldi per degli album che ora sono abbandonati in cantina, inutili come casse piene di vecchie ricevute. Non servono più a nessuno.

Secondo me, alla musica in streaming manca piuttosto tutto quello che faceva da contorno al semplice ascolto. È proprio in questo, nei metadati, che la musica digitale dovrebbe superare i vecchi dischi e cd.

Chi ha prodotto l’album di esordio di Lorde? Chi erano i musicisti che la accompagnavano? Dove lo hanno registrato e quando? A chi dice grazie l’artista per quest’album: a Dio, ai genitori o al gatto? Non lo so perché ho ascoltato la sua musica solo su Spotify, dove queste informazioni mancano del tutto.

Niente di fondamentale, siamo d’accordo, ma queste informazioni erano una parte importante della musica e ci facevano diventare dei fan a vita. Avere un disco nella propria collezione significava leggere riga per riga quello che c’era scritto sulla custodia: familiarizzare con i nomi dei musicisti, dei produttori, dei tecnici e dei manager. Imparare a memoria le parole e studiare le foto degli artisti, le pose e l’abbigliamento. Grazie a questi aspetti intangibili la musica diventava qualcosa di più che un oggetto di fruizione, era un oggetto da collezione.

Eppure, riprodurre semplicemente queste informazioni non aggiungerebbe molto e non produrrebbe qualcosa di veramente speciale. La musica in streaming ha ben altre potenzialità.

La cosa interessante di una copia di un album in streaming è che non va pensata come la copia di un album. Può essere la versione di base dell’album: un’esperienza centralizzata e condivisa in rete che aggrega il suo pubblico e lo porta verso altre scoperte. In quest’ottica acquistano senso tutti i contenuti simili agli extra dei dvd: video musicali, remix, versioni alternative, commenti e quant’altro, il tutto riunito nello stesso posto in cui si trova l’album, sulla nuvola. Anzi, l’album diventa il punto di partenza per chi ascolta. Potrebbe ospitare blog, tweet e fotografie, discussioni tra i fan e gli artisti e tra i fan e altri fan. L’album ci dice chi è in ascolto, dove e quando, e quale altra musica ascolta.

Oggi queste funzioni sono appena abbozzate nei servizi di streaming. I più importanti, infatti, spingono semplicemente gli utenti a scoprire nuova musica il più rapidamente possibile. Ma a me interessa soprattutto instaurare un legame forte con la musica.

Su Spotify trovo moltissimi nuovi album che ascolto solo una volta, anche perché stabilisco con i brani un legame superficiale. Se i provider di streaming non hanno le energie per aggiungere nuove funzioni che arricchiscono i contenuti, ci sono però alcune cose che potrebbero fare da subito con i dati che già hanno a disposizione.

In particolare potrebbero dirmi molto di più sulle mie abitudini di ascolto. Se potessi aggiungere una funzione a Spotify, vorrei la cronologia. Quando ho sentito una canzone per la prima volta? Quando è stata l’ultima? Quando ho aggiunto il primo album alla mia collezione? Quante volte l’ho ascoltato? Considerato il tipo di musica che ascolto, quant’è probabile che mi piaccia un nuovo album? Quante volte utenti con cronologie simili ascoltano un certo album?

Visto che Spotify può prendere le informazioni da Facebook, perché non mi dice cosa stava succedendo nella mia vita in un certo periodo? Potrebbe ricordarmi quando ho condiviso una canzone o parlato di un artista su Facebook, o con chi ho stretto amicizia quella stessa settimana. Se un servizio di streaming riuscisse a farmi vedere le fotografie che ho scattato quando ho scoperto un cantante che poi è entrato nei miei preferiti, quei dati impersonali registrati su un database acquisterebbero una nuova dimensione. Dare a un ascoltatore la possibilità di costruire la propria storia e la propria identità attraverso la musica è un efficace strumento di fidelizzazione.

È vero che non si tornerà mai all’epoca in cui un cd era un bel regalo di Natale, ma se crediamo che la musica aggiunga qualcosa di speciale alla vita, allora dovremmo guardare in maniera più critica ai servizi di streaming oggi disponibili. Sono ancora immaturi e noi siamo ancora affascinati da questi cataloghi giganteschi e dal fatto che vi possiamo accedere. Ma lo streaming non ci consente di stringere quel legame con la musica che è sempre stato possibile grazie ai supporti analogici e, paradossalmente, potrebbe esserlo ancora di più con quelli digitali.

(traduzione di Nicoletta Poo)

Khoi Vinh è l’ex design director del sito del New York Times e confondatore di Mixel. Il suo blog è Subtraction. Questo articolo è uscito su Medium con il titolo What streaming music can be.

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