Sono stato all’Expo. La prima cosa che ho visto è stata questa:
Così decontestualizzato questo video può sembrare un affondo facile, un sarcasmo da gufi. Non sia mai. Contestualizziamo.
Expo è la fiera mondiale del cibo.
Tutti i paesi più grandi hanno un padiglione, così come le grandi aziende alimentari (Coca-Cola e McDonald’s, ma anche Algida), certi gruppi industriali (la confindustria cinese, Enel, Etihad), e le regioni italiane.
Questi sono tutti edifici più o meno spettacolari, progettati apposta per attirare l’attenzione e rispecchiare certe caratteristiche del proprietario: quello di Coca-Cola ha una facciata coperta d’acqua rinfrescante; quello dell’Oman sembra un palazzo da Mille e una notte. I paesi meno ricchi sono raggruppati in cluster, gruppi di edifici più piccoli e tutti uguali associati a un tema e a volte a uno sponsor.
Per esempio, molti paesi produttori di caffè (Etiopia, Yemen, Burundi) sono raggruppati nel cluster della Illy. Altri paesi, come le Maldive e il Belize, sono nel cluster delle isole, che per qualche ragione include anche la Corea del Nord. Sul sito non è segnalata, però.
I padiglioni ospitano perlomeno un ristorante con le specialità nazionali, un percorso didattico-espositivo sulle particolarità agroalimentari del paese, e un piccolo mercato locale. Questa versione essenziale è arricchita da progetti specifici, spesso molto ambiziosi. Nel padiglione brasiliano si può fare una camminata sospesi a mezz’aria. Nel padiglione cinese si può assistere a uno spettacolo in cui l’ologramma di un panda fluorescente balla a ritmo di house, assumendo di volta in volta le fattezze dei visitatori che si sono fatti un selfie lì.
Nel padiglione ceco si può bere birra a marchio ceco prodotta da una multinazionale tedesca.
Nel cluster del riso si può osservare una ricostruzione dei campi che occupavano il territorio dove sorge l’Expo prima che fossero distrutte per costruire l’Expo. Nell’elegantissimo padiglione del Bahrain si possono vedere le piante tipiche che darebbero i frutti che si mangiano al ristorante (fichi, datteri), se non fosse che in Lombardia quelle varietà non fruttificano e quindi il ristorante si rifornisce altrove. Nel padiglione francese sono esposti tutti i prodotti migliori dell’industria nazionale – dalla baguette ai coltelli Opinel alle racchette Rossignol – lungo un percorso obbligato, come all’autogrill.
All’Expo, la fiera del cibo, la presenza dominante non è il cibo ma il linguaggio
A volte, camminando lungo il Decumano, la strada che taglia l’intera esposizione, ti prende un senso di straniamento.
Al centro della via ci sono dei diorama a grandezza naturale che mostrano enormi ceste colme di frutta, o maiali al truogolo, o banchi di pesce. A parte il gusto passatista del legno e dei vimini non mostrano niente che chi sia stato in un supermercato non conosca già. Il cibo più visibile alla fiera del cibo è fatto di vetroresina colorata.
Lungo la strada si tengono delle parate e degli eventi. Oltre a quella nel video di prima, mi sono imbattuto in uno spettacolo di equilibristi a tema patatine fritte, di fronte al padiglione del Belgio; in due steward travestiti da saliere giganti, di fronte a quello dei Paesi Bassi; e in un circolo di bonghisti.
La disposizione dei padiglioni comporta delle bizzarrie geopolitiche. Il padiglione degli Stati Uniti è schiacciato tra il Kuwait e la Confindustria cinese; la Corea del Nord è a due passi dalla Coca-Cola; sull’Estonia incombe, avvolgendola da due lati, l’enorme padiglione della Russia. Si ha l’impressione di una internazionalità asettica e formale, ottenuta per sottrazione. È la stessa impressione che si ha negli aeroporti.
Andando avanti sulla strada lo spettacolo più frequente non sono i chioschi di street food che mi aspettavo (quelli sono sul retro), ma degli acquari pieni di tapis-roulant e macchine da palestra. Lo sponsor, Tecnogym, promette di donare in cibo ogni caloria smaltita pubblicamente dai visitatori. Organizzano anche una lezione di spinning all’aperto, dove decine di persone sudano come idrovore senza docce né cambio.
All’Expo, la fiera del cibo, la presenza dominante non è il cibo ma il linguaggio.
Non è il linguaggio educativo, dei cartelloni che spiegano una tecnica di coltivazione, o le particolarità di una varietà alimentare. Questi sono rari, perché noiosi, e sostituiti, dai paesi che se lo possono permettere, da allestimenti che mirano piuttosto a sbalordire e a mostrare visivamente.
Il Vaticano esplora la fame nel mondo videoproiettando cibi sul piano di un tavolo vuoto. In Russia c’è una sala con le foto di centinaia di tipi di grano. L’Oman non insegna l’apicoltura ma è pieno di sculture di api, bulbose e sovradimensionate. Gli Stati Uniti usano sette video per far vedere le tradizioni culinarie locali, ma le immagini non spiegano per esempio come mai, tra le molte etnie mostrate in tavola a festeggiare il Ringraziamento, manchino i nativi d’America. Nei filmati bevono tutti Pepsi-Cola.
Domina il linguaggio del racconto, dello storytelling, e cioè il linguaggio della pubblicità. Lo si riconosce dalla struttura semplice e suadente, dall’insistenza su concetti morali e dal fatto che sia pieno di ordini.
Le istruzioni per le visite, per esempio, usano l’imperativo e hanno un tono che mi pare intimidatorio. Il padiglione olandese ordina di essere felici.
Il padiglione ceco invece ordina “Sii calmo e silenzioso e potrai vedere di più”. All’ingresso mostra una birreria sul ciglio di una piscina in cui a spruzzare l’acqua è la scultura di un uccello blu elettrico con la coda di sirena dal cui ventre protrude una ruota (non so descriverlo meglio di così).
Dietro al padiglione statunitense, delle statue di mucche in vetroresina hanno un cartellino che intima ai passanti di farsi un selfie. Lo stesso avviso si legge ai piedi del padiglione di Vanke, il grande immobiliarista cinese, con indicazioni su quali punti della facciata offrono sfondi più efficaci. All’interno si parla di “profitti illimitati”.
Ogni cinque-dieci minuti, una musichetta a volume altissimo erompe dagli altoparlanti di tutta l’Expo, esclamando in due lingue: “Expo è magnifica, vero?”, e invitando a manifestare il proprio accordo con un tweet o prolungando, alle casse, la durata del proprio biglietto. Questi annunci sono così frequenti che il sistema uditivo fa in fretta la tara e si abitua a ignorarli. Durante la mia visita c’è stato un piccolo incendio nel padiglione del Turkmenistan, ma l’allarme era talmente simile agli annunci che ci sono volute varie ripetizioni perché ci accorgessimo che dovevamo evacuarlo.
C’è un senso in cui “storytelling” è un’espressione appropriata per tutto questo. È il senso in cui si dice che uno “racconta storie” per dire che sta mentendo.
Per esempio, il padiglione della Sierra Leone annuncia fieramente che il paese africano è un luogo di pace e prosperità.
Quello della Corea del Nord caratterizza il paese più lapidariamente, così:
È facile fare ironia su questi slogan, immaginando il povero funzionario sprovveduto che li ha dovuti inventare, terrorizzato delle ripercussioni che avrebbe subìto in caso mancassero di enfasi sufficiente.
Ben diversi da quel funzionario sono i politici, i programmatori culturali e gli esperti di marketing territoriale che hanno scelto il tema “Nutrire il pianeta” per un evento che richiede la cementificazione di milioni di metri quadri di campi. Questo non ci sembra ridicolo e assurdo come il caso della Corea del Nord: tutt’al più triste e un po’ esagerato. Ma si sa, alla pubblicità va fatta la tara.
Quello che colpisce, alla fiera del cibo, è la pessima qualità del cibo
Non è un caso isolato. I progetti in base ai quali l’Expo è stata assegnata a Milano prevedevano un parco agricolo permanente in cui ogni paese avrebbe ricreato le sue colture tipiche, raggiunti da nuove vie d’acqua scavate lungo gli antichi tracciati dei Navigli. In realtà le vie d’acqua erano irrealizzabili, perché la pendenza della Lombardia va in senso opposto. Il parco agricolo è esistito solo sui rendering, sostituito nel mondo vero da un impianto a padiglioni, meno costoso e più appetibile per gli sponsor. Anche in questo caso è stata una cosa triste, ma era un po’ esagerato. Ma si sa, anche ai rendering e ai progetti degli architetti va fatta la tara.
Quello che colpisce, alla fiera del cibo, è la pessima qualità del cibo.
Non parlo degli chef stellati; quelli ci sono ma costano caro, e dopo aver pagato 34 euro di ingresso non me ne restavano 75 per mangiare allo stand di Identità Golose (nel pomeriggio era disponibile un menù a prezzo più basso, con le preparazioni avanzate dal pranzo, ma a quel punto non avevo più fame).
In generale, penso che chi può permettersi di mangiare a questa cifra preferisca farlo in un posto che non sia strapieno di turisti, nel frastuono dei bonghi e con annunci promozionali a tutto volume ogni cinque minuti.
Però dove non c’erano le stelle la qualità era molto diversa da quello che si poteva immaginare. A parte qualche baracchino (di marchi come Grom e Coop), quasi tutti i gelati erano in concessione ad Algida. Nei ristoranti regionali la pizza campana era appaltata a Rossopomodoro. L’enorme padiglione dedicato al “Vino” italiano (trattato come intraducibile nel tentativo, immagino, di replicare la brandizzazione del termine “pizza”) era quasi monopolizzato da una partnership con le cantine Zonin, così come i chioschi di Eataly e persino lo stand ufficiale del Prosecco.
Ci sono altre cose, certo: per esempio lo splendido centro Slow Food di Herzog & De Meuron, l’ultima struttura quasi nascosta in fondo al Decumano. Forse è per questo che non c’era nessuno quando ci sono andato io. Il McDonald’s accanto era pieno.
Una divisione simile si manifesta tra i padiglioni. Quelli dei paesi con una cultura gastronomica più nota e consolidata – Corea, Francia, Giappone – hanno ristoranti ottimi ma costosissimi, e spesso con lunghe code. Per il Giappone c’era più di un’ora di attesa nel giovedì in cui ci sono andato io, con i tornelli all’ingresso semideserti tutto il mattino.
A Expo sotto lo storytelling non c’è niente
D’altro canto, i padiglioni più piccoli, dalle tradizioni culinarie meno note, erano affossati dalla mancanza di denaro, dall’incuria o da un travisamento della natura dell’evento. In molti padiglioni africani, il grosso dello spazio era dedicato alla vendita di maschere tribali, chincaglieria e collanine e spesso non c’era traccia di informazioni sul cibo.
Lo stand nordcoreano vendeva solo ginseng, e ninnoli del regime che andavano a ruba, per un’ironia che sfuggiva alla cassiera assorta a leggere la Bibbia con un traduttore elettronico. I ristoranti di questi padiglioni erano spesso rovinati dalla scarsità di clienti, e proponevano dei piattini di plastica con dentro qualche panzerotto e del riso da scaldare al microonde. In certi casi il piatto tipico era solo il kebab.
Le critiche all’Expo sono generalmente critiche alle sue premesse. Si può sostenere che sia un format superato; o che il tema del cibo sia ipocrita; o che la sua impostazione, in Italia, serva solo a giustificare un enorme trasferimento di risorse pubbliche ai soliti costruttori e complessi industriali privati.
Ma anche superando le premesse, in cambio bisognerebbe ottenere un’esperienza gastronomica e culturale che valga 34 euro per un visitatore o un miliardo di euro per lo stato che ospita la manifestazione. A me non sembra che sia così.
In molti hanno paragonato la fiera a Eataly, non a caso coinvolto senza bando di gara a fornire tutti i ristoranti delle regioni italiane. È un paragone per certi versi sensato: anche a Eataly è tutto esageratamente costoso. Anche Eataly non ha una bella reputazione nei rapporti con i lavoratori. Anche Eataly è caratterizzato da una retorica urticante e onnipervasiva.
È un paragone troppo generoso. Da Eataly sotto lo storytelling si trovano (anche) cibi buoni, per quanto cari. A Expo sotto lo storytelling non c’è niente.
Ero a Milano nel 2008, quando la città è stata coinvolta nella celebrazione della vittoria sull’altra candidata a ospitare Expo 2015, Smirne. È lì che è cominciato il racconto. Un giornale ha pubblicato una foto dei proprietari del negozio di kebab sotto casa mia, che in quanto curdi contavano un po’ crudelmente come imprenditori turchi. Facevano notizia perché festeggiavano da milanesi nonostante la loro nazionalità. Li ho presi in giro la prima volta che ci sono tornato, chiedendogli cosa ci trovavano di buono nell’Expo. Non lo sapevano, mi ha detto ridendo Dervis. “Però è comunque una cosa buona, no?”.
Continuo a non sapere cosa sia, ma io a questa domanda risponderei di no. Sono passati otto anni.
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