In Italia il ricorso al carcere minorile si basa sul “principio della residualità” fissato dalla legge 272 del 1989. La norma prevede che la reclusione sia la soluzione più estrema tra quelle percorribili, ma nonostante questo nei 16 istituti penali per minorenni (Ipm) i detenuti sono 452, di cui 34 sono ragazze e 200 stranieri.
La metà di loro è nata e cresciuta in Sicilia e Calabria, e sta scontando la pena in queste due regioni. Il 42 per cento ha meno di diciotto anni, mentre gli altri sono giovani che hanno compiuto un reato da minorenni ma che possono scontare le pene negli Ipm fino a 24 anni. Più della metà è detenuta non perché stia scontando un provvedimento definitivo ma perché si trova in custodia cautelare, e cioè è ancora in attesa di giudizio.
Si potrebbe pensare che questi ragazzi e ragazze siano in prigione – anziché nei centri di prima accoglienza, nelle comunità e negli istituti di semilibertà che ospitano altri 22mila minori giudicati colpevoli – perché hanno commesso un delitto particolarmente grave, ma non è così.
I numeri forniti dall’associazione Antigone nel rapporto Ragazzi dentro fotografano una realtà più complessa. Sia chi è dentro gli Ipm sia chi è fuori ha compiuto nella maggioranza dei casi reati contro il patrimonio: e cioè furti, rapine, estorsioni, riciclaggio. Il 17 per cento è dentro per reati contro la persona – che vanno dalle lesioni all’omicidio – mentre il 12 per cento perché ha violato la legge sulle droghe.
Secondo i curatori del rapporto, le cause che portano i giovani in galera vanno cercate altrove:
Non è per la gravità del reato commesso che un ragazzo viene indirizzato verso gli Ipm, ma per la difficoltà a trovargli una collocazione in percorsi diversi dalla detenzione, difficoltà generalmente dovuta al profilo di radicale marginalità e fragilità sociale di chi alla fine arriverà in Ipm.
Il problema più grave è quindi fuori dal carcere. C’è una selezione sociale che riempie gli istituti di pena per minorenni. Per interromperla bisognerebbe intervenire sulle marginalità – povertà, abbandoni scolastici, sfruttamento – ma sono risposte complicate da trovare. E dopo che la spinta riformatrice degli stati generali dell’esecuzione penale è stata frenata dagli scontri tra le forze politiche, le soluzioni sembrano ancora più lontane.
Intanto, operatori, volontari ed esperti continuano a organizzare laboratori e progetti nelle carceri minorili per dare a ragazze e ragazzi degli strumenti da usare una volta scontata la pena. Uno di questi progetti è stato quello dell’associazione Defence for children Italia.
Cominciato nel marzo del 2018, ha coinvolto i giovani negli istituti di Bari e Torino. Aiutati dal rapper e attivista Kento, hanno scritto due canzoni rap, le hanno cantate e registrate.
Durante i laboratori, ai ragazzi è stato anche chiesto di confrontarsi su concetti come diritti, libertà, futuro. Le risposte fanno parte del documentario diretto da Michele Imperio che uscirà nelle prossime settimane e possono essere lette insieme alle strofe delle canzoni: aiutano a capire cosa pensano, e come si vedono e raccontano.
Uno degli adolescenti che sta scontando la pena a Bari alla domanda su cosa siano per lui i diritti ha risposto: “Ah, i diritti, non lo so, io voglio stare con la mia famiglia, con gli amici miei a divertirmi. È un diritto divertirmi?”. A un altro è stato chiesto come si immagina nel futuro. “Il futuro, eh, non lo so, non mi chiedere questa cosa”.
Secondo gli ultimi dati forniti dal ministero della giustizia, nel 2017 i ragazzi nel carcere minorile di Bari erano 26. La maggior parte era dentro soprattutto per furti e rapine.
A Torino, invece, i detenuti erano 34. Uno di loro, all’operatore di Defence for children Italia che gli chiede cosa sia la libertà, risponde: “La libertà è una cosa che fa soffrire”. Racconta di essere stato arrestato per la terza volta, sempre per rapine e furti compiuti per guadagnare dei soldi, visto che i genitori sono disoccupati e poveri.
Un altro prova a spiegare cosa significa trovarsi in carcere: “Stare qua dentro per me vuol dire alzarsi la mattina e guardare il sole a scacchi, mandare giù tanti bocconi amari, stare zitto e il più delle volte fare una guerra contro se stessi”.
Gabriella Picco, direttrice dell’istituto torinese, sintetizza così il senso dei laboratori come quello fatto da Defence for children Italia: “Dobbiamo capire che più reprimiamo e più chiudiamo le persone al cambiamento. Lo scopo del nostro lavoro è l’esatto opposto: aprirli alla conoscenza della vita, dandogli delle prospettive diverse rispetto a quelle che hanno avuto fino a quel momento”.
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